Tradizioni



Tradizioni popolari
(Voce di Aldo Gioia)

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Per il Molise, la frequentazione umana sin dai tempi preistorici e l’entità degli interventi  ”culturali” rappresentano alcune delle componenti che hanno modellato il paesaggio con gli insediamenti, con le pratiche agricole relative alla coltura del frumento, dell’olivo e della vite, e con le attività della zootecnia transumante.
Proprio in tale contesto hanno preso origine gli elementi di una tradizione che contribuisce ad identificare una vena molisana di considerazione per quelle manifestazioni dello spirito popolare che approda dal passato alla realtà oggi.
Nelle piazze, nei centri storici, all’ombra di antichi castelli, intorno alle chiese e sui tratturi, ogni anno, prendono forma rappresentazioni sacre e processioni, gare e sfilate di carri, rievocazioni storiche e riti del carnevale che testimoniano l’anima di un popolo che ancora riesce ad esprimersi nelle feste popolari. In queste occasioni riemergono i cerimoniali che si perdono nella leggenda e spesso restano misteriosi nel loro senso più profondo, ma che racchiudono le devozioni verso il sacro più sentite, il momentaneo ‘disordine sociale’, l’irriverenza disinibita delle classi economicamente definite subalterne, il ringraziamento per i frutti dell’agricoltura e la volontà di propiziarne di migliori.
                
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♦ Gli studi delle tradizioni popolari
♦ La società tradizionale molisana
♦ I principali eventi nel Molise
 (filmati)
♦ Gli eventi religiosi
♦ I Santi patroni dei paesi del Molise
♦ Le principali feste nel Molise
♦ Dialetti molisani

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♦ Tradizioni del Molise (Immagini)
♦ I Misteri di Campobasso

 
Lo studio delle tradizioni popolari in Italia
 (Da appunti scritti da Mario Gramegna)
     Lo studio delle tradizioni popolari viene comunemente denominato folklore (folk, popolo, lore, sapienza, cultura, complesso di conoscenze), vocabolo inglese che significa tanto lo studio delle tradizioni quanto le tradizioni stesse. La parola fu creata nel 1846 dall'archeologo William John Thoms.
     In Italia si adoperano pure altri termini, come ad esempio demologia, cultura "popolare etnografia, demopsicologia, laografia.
     In origine, il campo d'indagine del folklore era ristretto alle fiabe, alle leggende, ai canti e poi alle usanze e credenze; quindi si è venuto man mano allargando, perché, negli approfondimenti, si è constatato come queste manifestazioni fossero legate con altre di uguale natura, non meno importanti e caratteristiche.
     Possiamo dire che la tradizione popolare è una forza spirituale della collettività, che crea e conserva le forme di vita pratica e morale di una popolazione, di cui tramanda la storia minore. Lo stesso linguaggio usato come mezzo per esprimersi non è che la manifestazione di questa forza; e il modo con cui la parola diventa patrimonio comune ci può servire per comprendere il processo col quale si forma la tradizione popolare in tutte le altre sue espressioni.      
     All'origine vi è sempre un individuo che crea: il canto, il mito, il proverbio, la credenza, l'oggetto materiale. Ma ciò diventa importante soltanto quando se ne appropria la collettività, servendosene secondo le sue esigenze.
                
Gli studi delle tradizioni popolari nel Molise
 
     Nel Molise gli studi sulle Tradizioni Popolari sono piuttosto recenti, se si fa un paragone con le altre regioni, perché se è vero che un molisano, Francesco d'Ovidio (diventato poi di fama europea per gli studi linguistici in particolare, nel periodo di acceso fervore dopo l'unità d'Italia), pubblicò (1873) un apprezzato saggio dal titolo "Fonetica del dialetto di Campobasso", non si occupò effettivamente di tradizioni, forse anche perché gli interessi culturali lo guidavano verso la filologia e la letteratura.
     Alla fine dell'Ottocento, sui giornali locali, in forma talvolta episodica, cominciarono ad apparire articoli che descrivevano le tradizioni popolari. Tra i primi ad interessarsi del nostro folklore furono Enrico Melillo ed Emilio Pittarelli, che pubblicarono varie ricerche e furono ideatori d'una mai, purtroppo, compiuta Biblioteca delle tradizioni popolari molisane. Nello stesso periodo opera Luigi D'Amato, autore di saggi come “Uno sguardo alle condizioni attuali della musa popolare molisana” (1892) e “Pregiudizi e religione” (1893), nonché di articoli su canti e fiabe dialettali.
     Ad inizio Novecento, gli studi di tradizioni popolari trovano nuovo impulso, Berengario Amorosa scrive “Riccia nella storia e nel folclore”(1903), Oreste Conti pubblica “Letteratura popolare capracottese” (1911) ed Eugenio Cirese dà alle stampe il volumetto “Canti popolari” e stampa il volume “Sonnetti in dialetto molisano” (1910), in cui inserisce canzoni raccolte in mezzo al popolo, nella loro rustica, ma espressiva semplicità con l'aggiunta di alcune sue composizioni, scritte nelle soste del pensiero. La ricerca sui canti tradizionali impegnerà Cirese anche successivamente.
     Nel 1953, nella premessa al primo volume dei “Canti popolari del Molise”, egli scrive: “E’ di quel tempo lontano (1910] l'idea di raccogliere e presentare ai molisani una antologia del loro canti, e mi accinsi anche a tradurre in atto il proposito. Ma sempre m'arrestarono le preoccupazioni di ordine linguistico e filologico che Francesco d'Ovidio e il caro Emilio Pittarelli mi misero addosso”. Per loro non soltanto ogni centro abitato ha un dialetto, ma nello stesso abitato ci sono sotto-dialetti. Mi sentii smarrito, perché sentivo quelle ragioni linguistiche estranee alla poesia, ma non mi riusciva ancora di unificare le varie fonetiche per fare un testo che fosse leggibile e comprensibile per tutti nel Molise e che mi salvasse insieme dalla agghiacciante ironia del pontefici del folklore filologico di quel tempo. Lasciai perciò nel cassetto i canti già raccolti, e intanto cominciai a scrivere sonetti nel dialetto di Fossalto, e dei dialetti mi venivo facendo una mia idea. Vidi che tutte le varietà di timbro, di accento, di colore del dialetto molisano trovarono organica unità in comuni radici e scartai perciò, per i miei versi, le forme fonetiche e preferii quelle etimologiche, che alleggerivano la grafia a vantaggio della chiarezza. Questo senza pretesa alcuna di grandi scoperte, mi importava di stabilire. Francesco d'Ovidio approvò, e poeti di altre regioni si misero sulla stessa via.
     Il nuovo interesse nato in questi ultimi anni per lo studio delle tradizioni popolari spinge gli studiosi, oltre che allo sviluppo di nuove ricerche, ad un approfondimento critico dei dati disponibili. Un tema affrontato è quello della individuazione dell'epoca in cui nel Molise s’è iniziato ad avere interesse per gli studi folklorici.  
     Un punto di partenza può essere rappresentato da Giuseppe De Rubertis, che nel 1856. in occasione dell'elogio funebre in memoria di Alfonso Filipponi, disse, tra l'altro: “Ci occupiamo delle cose più lontane, dell'antichità e trascuriamo quelle che sono a noi le più vicine. Così mentre consumiamo i nostri giorni per apprendere gli usi e le costumanze degli Americani, Asiatici e Africani nonchè quelli degli antichi Greci e Romani, con non lodevole indifferenza restiamo poi tranquilli spettatori de nostri fatti giornalieri senza curarci a conoscere il senso lo spirito e le origini, presenziando da semplici automi”.
     In verità, notizie d'interesse etnografico sulle popolazioni molisane si ritrovano già in antiche monografie riguardanti il Regno di Napoli, come la “Descrizione del Regno di Napoli “(1586 e 1601), di Scipione Mazzella e la “Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise” (1781) di Giuseppe Maria Galanti. Ma non siamo ancora di fronte a vere e proprie argomentazioni demologiche, e le tradizioni popolari sono ancora lungi dall'essere considerate scientificamente e come materia a sé stante. Per coloro che scrivevano monografie sui paesi del sud, i problemi legati alla sopravvivenza del basso popolo erano ben più importanti. Infatti, si occupavano soprattutto della descrizione del territorio, della numerazione dei fuochi, del modo di vestire e delle risorse agricole, talvolta anche delle caratteristiche fisiche degli abitanti. Notizie folcloriche possono rinvenirsi anche nei rogiti notarili, come quello trascritto nel protocollo del notaio Giovannelli da parte di padre Andrea Petti, nel 1727, con il titolo di “Descrizione della terra di Montorio e i suoi confini”. Vi si descrive il carattere delle donne, le loro principali occupazioni, l'abbigliamento quotidiano e festivo con un minuzioso elenco di accessori. Inoltre, si descrivono le abitazioni dei contadini e i ricoveri degli animali domestici. Una minuziosa indagine archivistica in tal senso potrebbe rivelare interessanti notizie, sfogliando i repertori notarili e gli atti relativi alla giurisdizione civile delle corti baronali. Ad esempio i contratti rappresentano un documento fondamentale per studiare la mentalità dei contraenti, per apprendere i dati riguardanti la vita sociale ed economica, il valore della moneta, il tenore di vita. Vi si possono ricavare, altresì, principi morali e giuridici. Infatti il governatore baronale, ducale, marchionale o regio riceveva, secondo una specifica procedura, dai cittadini dichiarazioni sottoscritte, che rappresentavano vere e proprie obbligazioni, registrate in un libro denominato penes acta, come manifestazioni di volontà ad ottemperare a determinati impegni assunti nei rapporti di lavoro subordinato oppure di prestazioni varie, di forniture e di affittanze.
     In tal modo si stipulava un atto valido non soltanto sul piano morale, ma anche giuridico, spesso avallato «in solidum» (sic!) anche da altre persone che assumevano gli stessi obblighi del contraente. Da segnalare un avvenimento importante anche dal punto di vista demologico verificatosi sotto il regno di Gioacchino Murat, cioè l'inchiesta promossa dal Ministero dell'Interno, retto dal molisano Giuseppe Zurlo relativa alle “Dimande sulla sussistenza e conservazione delle popolazioni”. E’ datata 1811-1812 ed era operante per tutti i circondari della Provincia di Molise. Il questionario riguardava le notizie relative agli alimenti, al modo di vestire, alle abitazioni, alle cause dell'insalubrità dell'aria, alle cause di nocumento della salute, alle malattie.
     Si possono trarre delle conclusioni molto utili per fare un paragone dello stato generale e delle abitudini degli abitanti dei diversi circondari. Ci sono notizie, talvolta anche molto particolareggiate, riguardanti la foggia del vestire. Si prenda ad esempio la scheda del comune di Capracotta: “Le donne nubili portano scoverta la testa; le maritate un berrettino bordato d'oro; e le avanzate in età usano la mappa di lana trafitta da grossi aghi d'argento, e per la maggior parte guarnite di galloni similmente dorati; ed altri un faccioletto bianco”.
     Ancor più minuziosa è la descrizione del costume femminile di Casacalenda che si rintraccia in un fascicolo de “Il Regno delle Due Sicilie” descritto ed illustrato da Filippo Cirelli (1858) e riservato a sei comuni molisani: Cercepiccola, San Giuliano del Sannio, Sepino. Casacalenda, Isernia, Morcone e Sassinoro (queste due ultime appartenevano amministrativamente al Molise e passarono, nel 1861, alla provincia di Benevento), paesi di cui si descrivono molte usanze tradizionali. Per Casacalenda, si annota perfino il modo di pettinarsi delle donne: “In quanto alla testa acconciano ed intrecciano i capelli nel seguente modo quelli della parte dinanzi del cranio sono bipartiti sul sincipite, e, dopo voltati sulla fronte e sulle tempie, li vanno a fermare sul padiglione delle orecchie, quelli della parte posteriore intrecciano a forma di cesto al di sopra dell'occipite, fermandoli coi nastri, ferretti ed aghi da testa”
     Un'opera che per l'interesse storico ed antropologico, dovrebbe essere ristampata, nella edizione carta da Pasquale Albino nel 1876, e la Descrizione….. di Giuseppe del Re, che quarant anni prima l'aveva pubblicata in tre tomi, di cui il terzo interamente dedicato al Molise. L'interessamento per il campanile specie nella seconda metà dell'Ottocento subiva ancora il pensiero illuministico, che aveva portato un rinnovamento profondo in tutte le forme di attività culturale: la politica, l’economia, la storia, le leggi in base alle quali si era formata e si reggeva la società umana. In modo particolare quasi tutti gli illuministi del Regno di Napoli risentirono fortemente delle dottrine giusnaturalistiche e del nazionalismo cartesiano.
     Francesco De Sanctis, nella sua “Storia della letteratura”, scrisse che “il passato è per noi cosa presente e reale, e ne sentiamo ogni giorno le punture. Lascia che lo distruggiamo e poi saremo giusti verso di esso”. Ecco allora come potrebbe spiegarsi l'interesse di alcuni intellettuali a scrivere del proprio paese, non certo con metodo rigidamente storiografico, ma prevalentemente descrittivo e talvolta anche con un certo stile letterario. E’ il caso del già citato Berengario Galileo Amorosa. La terza parte del suo “Riccia nella sto ria e nel folklore” (quella dedicata al folklore) si può considerare un vero classico della demologia molisana. Per scrivere quest'opera l'autore impiegò quattro anni, avvalendosi di documenti di prima mano non solo degli atti parrocchiali, ma anche degli archivi arcivescovili di Benevento e dell' Archivio di Stato di Napoli (cfr. B.G. Amorosa, Atti del Convegno, Riccia 1987, relazione di Salvatore Moffa). La monografia contiene un numero altissimo di informazioni sugli usi e i costumi, sulle fiabe, le superstizioni, i detti, i giochi, i canti. In una ricostruzione d'ambiente che è senza dubbio esemplare. Di particolare interesse sono le usanze legate al ciclo dell'anno. Si inizia dai canti di capo danno denominati maitenate, per proseguire colla rappresentazione carnevalesca dei Dodici Mesi, il pranzo rituale per la ricorrenza di San Giuseppe (19 marzo), la festa del Majo (calendimaggio) e cosi via, fino al Natale. Anche l'uomo e la sua esistenza furono oggetti di studio per Amorosa. Sua è la descrizione della corella, (di cui è ignoto il vero significato) una usanza contadina espressa nel lavoro dei campi e specialmente durante la mietitura: “Se passa qualche persona per le vie pubbliche limitrofe ai campi, specialmente se forestiere, allora i mietitori cominciano a caricarla d'improperi e di atroci insulti, senza rispettare né sesso né età né con dizione. Se è uomo, gli gridano le loro oltraggiose invettive. Se è una donna rincalzano la dose. Poi si avvicinano al viandante, gli offrono da bere nei loro fiaschi ed banno in ricambio tabacco e pochi soldi”
     Una raccolta di oggetti del mondo popolare per allestire, nel 1911, la prima Mostra di Etnografia Italiana in Roma riguardò anche il Molise, che accolse come ricercatore e studioso, dal gennaio 1910 e per diversi mesi, il livornese Athos Foco Mainardi.
     Renato Cavallaro ha ricostruito, consultando il carteggio epistolare tra Mainardi e Baldasseroni, preposto all'allestimento della Mostra, le autentiche peripezie nei vari comuni per procurare il materiale necessario ed utile per una rassegna del genere. In questi itinerari molisani affiorano molti aspetti, anche inediti, delle difficoltà di approccio con gli abitanti, di solito poco inclini a dar confidenza al forestiero ed anche per nulla interessati alla ricerca del professore. Tuttavia egli trovò alcune persone che furono a sua completa disposizione per agevolarlo nel suo lavoro, primo fra tutti Alfredo Trombetta. In proposito così scriveva al professor Baldasseroni: “Ma non sai che sono carissimo amico di Alfredo Trombetta, il bravo fotografo, che da tanto tempo lavora per noi non solo in fotografie, ma anche per ricostruire cose tutt'altro che facili ad aversi. Figurati suo padre nel 1860 lavorava al colladione e fece una raccolta di costumi che, data l'epoca in cui lui li fotografò, sono per noi importantissimi”.
     Diversamente da talune cronache oleografiche riguardanti la realtà sociale dei comuni della regione, il Mainardi non usa mezzi termini e scrive «torno da un giro in paesi dove non giunse mai la ruota”.
    Quando riusciva a concretizzare qualcosa era pieno di entusiasmo e lo comunicava a Baldasseroni, come quando gli diede notizia di essere riuscito a far confezionare un costume bellissimo delle popolazioni delle minoranze albanesi del basso Molise e ancora a Baranello, dove era riuscito a procurarsi due costumi, “uno dei quali splendidissimo e l'altro alquanto simile ad uno stoccafisso”. Era entusiasta anche dei costumi di Guardiaregia e di Campochiaro. Scriveva: «Figurati che ho veduto bellissimi costumi anche in paesi dove non credevo ce ne fossero affatto».
    Per la raccolta dei vocaboli dialettali più significativi, lo stesso Baldasseroni dava consigli al Mainardi: “spesso tu nella trascrizione delle parole, senti il bisogno di mettere delle apostrofi, che, ne sono sicuro, corrispondono a delle vocali, che tu non hai bene afferrato. La "e" muta finale nei dialetti italiani, per quanto poco sentita nella pronuncia, va pur notata nella scrittura: dunque meno apostrofi e più finali”.
    Sempre nella corrispondenza epistolare citata fa sapere che Alfredo Trombetta aveva fatto confezionare con materiale autentico il costume della donna di Campobasso, “dei più semplici modesti, ma anche dei più simpatici
    Allora l'attività casearia dipendente dalla pastorizia era ancora importante nell'economia regionale, per cui ai fini della Mostra Etnografica di Roma furono apprezzati gli oggetti procurati dal Mainardi, cioè stampi in legno per formaggi, burro, latticini e tutta una serie di attrezzi usati per la lavorazione di tali prodotti. Un ricco corredo di fotografie il Mainardi se lo procurò personalmente con una sua macchina (9 x 12) e la costante consulenza del Trombetta, che gli fornì anche moltissime foto, non solo documentarie ma anche artistiche.
                


La società tradizionale molisana
 (Da appunti scritti da Mario Gramegna)
     La struttura sociale del popolo molisano è stata caratterizzata, per secoli e fino ad alcuni decenni fa, da una suddivisione in classi: i galantuomini (i cosiddetti civili"), i massari (proprietari terrieri), gli artieri (artigiani) e i cafoni (contadini).
    I primi avevano autorità e prestigio ed esercitavano un vero e proprio potere, civile ed economico, sulle altre classi. Al loro apparire in strada si doveva salutarli devotamente, togliendosi la "coppola". Col tempo, però, la classe dei galantuomini ha perduto gradualmente prestigio per la condotta non certo irreprensibile dei suoi rappresentanti, per lo più senza professione e senza famiglia, assai sovente in concubinato, scardinando così quello che la famiglia rappresentava come centro della convivenza civile.
     Alla vecchia aristocrazia, per importanza sociale, subentra quella di origine plebea massari, artigiani e commercianti fanno a gara per dare alla società professionisti e impiegati. Rimangono invece, nel misero stato primitivo soltanto i cafoni, che vivono con un po' di terra da lavorare, prestando la loro opera, con vario compenso, ai galantuomini e ai massari. Chi vuole sottrarsi a queste condizioni di vita emigra nelle lontane Americhe. C'è anche chi, dopo aver fatto buoni risparmi, ritorna per acquistare alcuni tomoli di terra e una casetta.
     Anche la condizione della donna muta col tempo: una volta zappavano, mietevano, facevano tutto come gli uomini, andavano al bosco a fare legna, andavano alla fontana, portando il tino di rame sulla testa; inoltre erano tenute in soggezione. Poi, manmano, viene liberata di questi impegni gravosi e si dedica ai lavori domestici, alla tessitura della lana e alla preparazione del corredo per le figlie, alla coltivazione dell'orto ed anche alla cura degli animali da cortile.
     In quanto al modo di vestire è da osservare che quello dei contadini rispetta una tradizione atavica e si caratterizza per molta somiglianza con gli abiti indossati nei vari paesi. Per esempio il mantello ampio di lana, di colore nero, col bavero di pelle d'agnello, è indossato dagli uomini che hanno "uose”, calzoni corti e giubbettino. Le donne indossano alti corpetti con nastri variopinti, gonne pieghettate, “zinali", "mandazini" grandi fazzoletti con grandi motivi floreali, ed anche stoffe di seta, di cotone e di lino (un tempo non mancavano gli allevamenti dei bachi da seta, nella coltivazione del cotone, specie nella confinante Campania -e del lino). Indossavano altresì gioielli di poco valore, scarsi per quantità d'oro, collane, “puntantiffe”, anelli ed altri monili, per completare un abbigliamento elegante, indice di un gusto femminile anche di qualche raffinatezza.
     Oggi sono conservati pochi costumi tradizionali, e la maggior parte di quelli che vediamo in occasione di ricorrenze paesane indossati dai gruppi folkloristici sono confezionati di recente, anche se assai somiglianti agli originali, i cui esemplari custoditi da qualche famiglia danno indicazioni precise per le nuove confezioni.
                

Gli eventi religiosi
Fede popolare
 (Da appunti scritti da Mario Gramegna)

     Nelle tradizioni del popolo un punto di riferimento è la religiosità, non soltanto per il rap porto con le pratiche di culto ma anche nel campo più specifico della spiritualità. Essa rappresenta un fenomeno della vita e della fede, vissuto talvolta insieme alla liturgia, assai spesso in una dialettica alternativa con il culto ufficiale, con i sentimenti molto primitivi di riferimento al sacro e al mistero di Dio. Nel Molise la religiosità è parte integrante della cultura contadina e fa diretto riferimento al mondo dei sentimenti vissuti in dimensione collettiva, giammai elaborati da sistemi di pensiero, bensì spontanei e quindi fortemente radicati nella sensibilità e nel subconscio. Per questo certe tradizioni resistono ancora e si oppongono a taluni tentativi di cancellazione oppure di modifiche radicali.
     A livello antropologico la religiosità popolare è radicata nei grandi misteri e momenti dell'esistenza umana: il senso della vita e della morte, delle malattie e delle disgrazie, delle gioie e delle feste, della nascita, della crescita, del matrimonio, della memoria dei defunti, del ritmo del tempo e delle stagioni, del raccolto dei frutti della terra. Questi ritmi celebrativi dell'esistenza sono stati consacrati dalle feste cristiane e ordinate in senso evangelico alla lode di Dio e all'espressione della solidarietà. Ma anche la devozione dei santi, quali intercessori di grazie e di mira coli, si manifesta in forme tipiche, che si esprimono nei pellegrinaggi ai santuari, nelle feste paesane, nelle processioni, negli ex-voto e nella venerazione delle immagini.
     La fortuna della religiosità popolare è soprattutto nella particolare espressività dei riti celebrativi, nati spontanei e riscontrati anche in tutte le culture, tramandati con la forza del costume atavico, che si ripete e traccia una continuità nella memoria collettiva. Anche nel Molise si riscontrano queste caratteristiche, ma assai spesso si constata pure che in certe epoche il popolo, non soddisfatto delle forme celebrative di una liturgia troppo lontana, talvolta incomprensibile ed eccessivamente clericalizzata, ha sviluppato forme paraliturgiche più in armonia con i suoi sentimenti. Si pensi, ad esempio, a talune rappresentazioni popolari del Natale e della Passione, alle leggende dei santi patroni, a riti e manifestazioni popolari d'origine pagana.
     Le feste popolari religiose rappresentano, quindi, importanti avvenimenti per consentire agli studiosi di riconoscere diversi elementi di religiosità arcaica che il cattolicesimo ha integra to per una caratterizzazione più evidente dell'impronta popolare. Lo stesso vocabolo festa (dal latino arcaico festum) indica il significato di gioia pubblica come fatto culturale collettivo. Con l'avvento della civiltà consumistica sono mutati molti aspetti comportamentali della festa, che è diventata il momento più importante nella economia dei consumi, perché in essa hanno il sopravvento gli aspetti del ludico e del godimento quotidiano. I comitati delle feste sono stati sostituiti dalle istituzioni pubbliche che privilegiano, a seconda della ideologia, l'aspetto meno religioso.
     Nella società tradizionale le feste popolari religiose avevano la funzione del rinnovarsi del tempo, anche come momento di purificazione per il prevalere degli aspetti di ciò che rientrava ella concezione del "sacro". Una volta l'esistenza era scandita dal ciclo calendariale delle feste lei santi patroni e dei santi più amati fino alle maggiori solennità, come il Natale e la Pasqua. Non c'era, allora, una separazione tra gli aspetti religiosi e quelli civili e si ricercavano soprattutto momenti di solidarietà né si aveva bisogno di enti o associazioni che sollecitassero la gente ad aggregarsi.
Da secoli, il culto di Sant’Antonio Abate incarna una delle espressioni più vive e intensamente partecipate della religiosità popolare. La sua ricorrenza annuale, cadente nel mezzo del periodo invernale e all’interno delle festività del Capodanno, si caratterizza per un’intensa pratica di ritualizzazione volta a rispondere alle necessità esistenziali del mondo agricolo e pastorale. Un mondo interamente proteso alla ricerca di tutele sovrannaturali tese a garantire il realizzarsi delle aspettative di benessere, di sicurezza, di continuità della vita. E sebbene il trasformarsi dei sistemi economico-produttivi abbiano reso questo mondo non più necessitante dei tradizionali accorgimenti di tipo simbolico-rituale, esso continua a intravedere nella figura di S. Antonio il mediatore divino capace di riassorbire le crisi del presente e di dare alle comunità rurali la possibilità di riconoscersi come entità storiche, identitarie, patrimoniali.
                
I pellegrinaggi
     Una celebrazione popolare antica, a cui successivamente si ricollegano i pellegrinaggi, è legata all'intercessione presso Dio e i Santi per invocare aiuto a superare le debolezze esistenziali.
     Ancora oggi sono frequenti nel Molise i pellegrinaggi, anche quelli che portano in altre regioni, specialmente in Puglia e in Campania. Una volta si effettuavano a piedi, mentre ora vengono usati i moderni mezzi di trasporto. I pellegrinaggi tradizionalmente più frequentati dai molisani sono quelli a Santa Maria di Canneto, al Santuario di Castelpetroso, a San Michele sul Gargano in Puglia (ma un numero sempre crescente di pellegrinaggi si indirizzano oggi verso San Giovanni Rotondo, presso la tomba di Padre Pio). Essi hanno come meta luoghi carichi di potenza ancestrale, con riferimento a ricordi storici per avvenimenti portentosi (apparizioni, beni sacri, tombe e reliquie di santi). Specialmente nel Medioevo i viaggi penitenziali erano finalizzati per ottenere l'assoluzione dei peccati ed anche per acquisire una energia protettiva, secondo forme di superstizione antichissima.
     Oggi è tutto sostanzialmente cambiato, perché gli elementi fondamentali del pellegrinaggio sono integrati da componenti utilitaristiche rappresentate dalle fiere e dalle vendite dei commercianti ambulanti, con una organizzazione che mette spesso in soggezione le stesse esigenze del culto.
     Comunque i pellegrinaggi hanno influenzato i vari aspetti di civiltà, perché davano origine a nuove vie commerciali, mettendo altresì in contatto le folle contadine e pastorali di luoghi diversi, che giustificano dal punto di vista storico affinità di costumi ed anche di cultura. Si pensi la somiglianza esistente tra i vari canti tradizionali dei pellegrini. Inoltre, non esistono più le forme di sofferenza fisica come l'appesantire le bisacce con pietre, i lunghi cammini a piedi nudi e le altre mortificazioni corporali. I pellegrinaggi, specie durante la civiltà della transumanza, rappresentarono una forma di commistione linguistica che influì sulla evoluzione dei dialetti durante i lunghi e faticosi viaggi piedi, intervallati da soste diurne ed anche notturne.
     Un santuario che di anno in anno ha accresciuto la sua importanza, anche per la suggestiva posizione ambientale, e dove il culto di San Michele Arcangelo è assai vivo, si trova Liscia, una piccola località del vastese. Ogni anno, l'otto maggio, ad un'ora di cammino dal paese si celebra il culto del santo, legato ad una tradizione antichissima, secondo cui, contemporaneamente al Gargano, l'Arcangelo apparve anche nel territorio di Liscia, in una grotta dove era annidato Lucifero, poi schiacciato dal santo.
     Una leggenda narra d'un pastore che ripetutamente smarriva, durante il pascolo, il suo torello. L'animale, però, ricompariva improvvisamente verso sera. Un giorno il pastore incuriosito volle seguirlo. Sbalordito notò che una foresta, impervia e chiusa, si apriva come d'incanto al passaggio del torello. Infine, arrivato nei pressi di una grotta, l'animale s'inginocchiò. A distanza il pastore osservava la scena, quando, all'improvviso, in mezzo ad un bagliore di luci, apparve l'Arcangelo San Michele. Per l'emozione il pastore svenne e quando riprese i sensi, sentì arsa la gola e avvertì un forte desiderio di bere. Allora, come per un prodigio, vide gocciolare acqua nella grotta, così si dissetò.
     Da quel lontanissimo tempo, l'otto maggio d'ogni anno, la grotta è raduno di fede da parte di migliaia di credenti provenienti da tutto l'Abruzzo e dai paesi del confinante Molise (soprattutto da Castelmauro e Acquaviva Collecroce), per raccogliersi in preghiera e bere quell'acqua, ritenuta miracolosa, che scende a gocce dalle stalattiti.
     C'è in atto una disputa per stabilire (ma storicamente è impossibile!) la priorità delle apparizioni: prima a Liscia o nel Gargano? In quest'ultimo c'è il Santuario medioevale di Monte Sant'Angelo, nel cui territorio vi sono moltissime grotte, celebre quella che ospita l'altare di San Michele Arcangelo. La presenza nel Gargano di un antico santuario, dove si recano migliaia di fedeli ogni anno, fa pensare che il culto per l'Arcangelo Michele sia pervenuto in Abruzzo proprio dalla Puglia, tramite i pastori della transumanza.
     Suggestivo è il rito collettivo della purificazione, quando le compagnie stanno per rag giungere la sommità del monte: il rito è chiamato perdono, perché i pellegrini in ginocchio intorno alla croce e allo stendardo si scambiano il bacio della pace. Da più di trent'anni ormai il viaggio a piedi è stato sostituito dai pullman e l'itinerario verso il Gargano di solito spinge i pellegrini fino a Bari per il culto di San Nicola. Anche la devozione mariana è molto forte. Ecco come Gabriele D'Annunzio nel romanzo “Il trionfo della morte”, alla fine del secolo scorso, fa una descrizione dell'arrivo dei pellegrini al Santuario della Madonna dei Miracoli di Casalbordino, nei pressi di Vasto: “….le compagnie che giungevano, precedute dai crociferi, cantando l'inno, in lunghe file [...) in chiesa le femmine si trascinavano sulle ginocchia, singhiozzando. Talune carponi sul pavimento, sostenendo sui gomiti e sui pollici dei piedi scalzi il peso del corpo orizzontale, avanzavano a poco a poco verso l'altare, strisciavano come rettili, tremavano intorno alla bocca che baciava la polvere, presso alla lingua, che nella lingua segnava croci con la saliva mista di sangue”.
     Oggi siamo lontani da quel rituale crudele, tuttavia la devozione è rimasta la stessa; i fedeli arrivano in pullman dai paesi della Valle del Sangro e dal vicino Molise e percorrono a piedi l'ultimo tratto per il santuario. È un vero e proprio ancoraggio salvifico, un bisogno intimo per un rapporto con la divinità per attingere conforto e forza contro le avversità della vita. Un santuario che coinvolge i fedeli di Campomarino, Portocannone e dei paesi abruzzesi di Lentella e Fresagrandinaria, nell'alto Vastese, è quello di Madonna Grande di Nuova Cliternia, originato dal ritrovamento di un quadro della Vergine alla metà del xv secolo. Secondo la tradizione il quadro fu trovato dal marchese D'Avalos durante una battuta di caccia nel bosco di Ramitello, nei pressi di Campomarino. I cani che accompagnavano i cacciatori, inseguendo tre cervi, si fermarono improvvisamente e si misero a scavare, portando in luce il quadro che per tre volte fu portato in processione a Campomarino, perché spariva per tornare sul luogo de ritrovamento. Lì all'alba del 15 agosto del 1460, i contadini della zona assistettero ad un prodigio: durante la notte era nevicato e sulla neve erano segnati i contorni della chiesa da edificare. Con gli anni crebbe enormemente la devozione delle popolazioni vicine al punto che la di Fresigrandinaria, per la gran parte, compie ogni anno un pellegrinaggio alla chiesa, di cui “possiede” una delle tre porte d'ingresso e un altare.
     Numerosi sono i pellegrini che, ogni lunedì di Pentecoste, si dirigono al Santuario di Madonna Grande, attraversando il fiume Trigno, per Guglionesi e Montenero di Bisaccia, proseguendo verso Portocannone. Qui c'è un incontro con la popolazione che ha appena terminato di assistere alla carrese (corsa dei buoi) in onore della Madonna di Costantinopoli ce un "abbraccio di popolazioni che hanno in comune il culto di Madonna G Madonna di Costantinopoli. I pellegrini provenienti dall'Abruzzo, dopo la sosta a Portocannone per venerare l'immagine della Madonna di Costantinopoli. proseguono il loro viaggio per circa dieci ore, e giungono al Santuario della Madonna Grande di Nuova Cliternia, dov’è possibile assistere a commoventi scene di devozione, secondo un rituale antico e suggestivo.
     Storia e leggenda si intrecciano per spiegare la genesi del culto locale per la Madonna di Costantinopoli. Intorno al 1460, gruppi di albanesi, per sfuggire alla dominazione stante l'eroica resistenza del grande condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg, emigrarono in cerca di altra terra e sbarcarono nella piana del Saccione nei pressi di Campomarino. Qui ci fu una disputa per stabilire il luogo dove insediarsi. Allora decisero di affidare la decisione ad un  carro tirato da buoi e su cui fu posto un quadro della Madonna di Costantinopoli: dove il carro si sarebbe fermato lì si sarebbero stanziati.
     Per ricordare l'avvenimento ogni anno, il lunedì di Pentecoste, il popolo di Portocannone e festeggia l'avvenimento con una corsa di carri tirati da buoi, rinnovando così l’antichissimo mito, non solo come segno augurale, ma come atto di ringraziamento e di devozione alla Madonna di Costantinopoli, patrona dei pellegrini e dei profughi. Nella corsa sono impegnati due carri, quello dei giovani e quello dei giovanotti. Il premio per il carro vincitore consiste nel portare in processione il quadro della Madonna. È tradizione, dopo la carrese, ricevere i pellegrini provenienti dall’Abruzzo e precisamente da Lentella e Fresagrandinaria.
     A pochi chilometri da Vasto, nel territorio di Monteodorisio, secondo la tradizione popolare nel XII secolo fa costruita una chiesetta dedicata a Santa Maria delle Grazie, ma soltanto un miracolo avvenuto nel 1886 le diede fama di santuario. Si racconta che durante le riparazioni dei muri delle fondazioni della chiesa zampillò una sorgente d'acqua, che operava le guarigioni ai malati e la morte agli animali che la bevevano. Suscitò grande emozione la guarigione di una bambina ormai morente, la quale, dopo aver bevuto quell'acqua, improvvisamente guarì. Da allora si diffuse la fama e iniziarono i pellegrinaggi sempre più numerosi non soltanto provenienti dai paesi limitrofi, ma anche dal circondario molisano di Larino. Con generose offerte è stato costruito un nuovo santuario, mentre l'acqua della Madonna viene raccolta in un pozzo, dove i devoti si recano a bere. La festività solenne si svolge la prima domenica di settembre. Si è stabilito anche il gemellaggio tra Monteodorisio e Larino, per cui ai larinesi è stato concesso il privilegio di precedere tutti gli altri nell'ordine cerimoniale. Da segnalare che nel 1992 la statua della Madonna fu trasportata per alcuni giorni nella cittadina molisana.
     La presenza di chiese in determinati territori dell'Appennino Abruzzese-Molisano ha un apporto con l'economia pastorale ed ha, pertanto, caratterizzato la vita delle nostre popolazioni La transumanza delle greggi in Puglia agevolava gli scambi economici, culturali e religiosi e lungo quei percorsi nascevano leggende e nuovi culti.
     Si può comprendere, dunque, come nel territorio di Castiglione Messer Marino, confinante con Agnone, al centro di una località ricca di pascoli chiamata Lupara, lungo il tratturo Pescocostanzo-Pescopennataro, sia esistito un borgo con una chiesa con una antica statua della Madonna, meta di numerosi pellegrini. Per la crisi della transumanza il borgo è stato a mano abbandonato, per cui la trecentesca statua lignea della Madonna fu trasferita nella chiesa parrocchiale di Castiglione. Secondo la tradizione la statua fu rinvenuta da una pastorella sordomuta proprio nel luogo dove sorse poi la chiesa.
     Gli abitanti dei paesi confinanti con Castiglione, cioè Roio e Monteferrante, ne rivendicarono Il possesso, per cui si decise di affidare ad un carro, con la statua tirata da buoi, l'indicazione del luogo beneficiario della prova, che si concluse a favore di Castiglione.
     E’ questo il motivo ricorrente nelle leggende di fondazione di molti santuari, cioè lasciare liberi i buoi di scegliere il luogo.
     Anche questa Madonna del Monte è oggetto di venerazione da parte dei devoti dei paesi molisani confinanti con l'Abruzzo, perché era considerata la Madonna dei tratturi, dal volto bruno “alla maniera schiavona”.
     Un altro santuario frequentato dai molisani provenienti da Lupara, Acquaviva Collecroce, Montenero di Bisaccia, Petacciato ed anche da altre località, si trova a Furci, nel vastese ed è dedicato al Beato Angelo.
     La devozione popolare per questo frate agostiniano risale a molti secoli addietro (era nato a Furci, nel vastese nel 1246 e morto a Napoli il 6 febbraio 1327) A Napoli fu tumulato nella chiesa del convento de Sant’Agostino e dopo tante insistenze della popolazione di Furci il 1 agosto 1808 il re Giuseppe Bonaparte, decretò il trasferimento del corpo nel paese natale.
     Ogni anno il 13 settembre (la data spostata di un mese, perché il mese di agosto occupa intensamente i contadini nei campi, si svolge una grande festa e si distribuisce la "bambagia benedetta” raccolta dai fedeli in sacchettini di stoffa (abitini), che si appendono al collo per allontanare le febbri e le malattie dell'orecchio.
     Notevole è il culto per i Santi Cosma e Damiano, la cui festa liturgica si svolgeva il 27 settembre giorno del loro martirio. Erano due fratelli che esercitavano l'arte medica con la capacità di operare miracoli. Sotto l'impero di Diocleziano furono decapitati, perché rifiutarono di fare sacrifici in onore degli dei di Roma. A livello di cultura popolare ci sono molte testimonianze, specialmente in Abruzzo, Puglia e Molise. A Isernia per esempio, il culto era collegato alla cura della sterilità femminile e dell'impotenza maschile e nel settecento era celebrato con l'offerta di ex voto di cera che rappresentavano falli. Lo studioso abruzzese Giovanni Pansa, nel suo libro “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo”, così scriveva: “Per la caducità del sesso mascolino, dipendente da molte cause distruttive, nell’agro di Isernia le pie madri accorrevano al Santuario dei Ss.Cosma e Damiano per ottenere la guarigione del sesso infetto o perduto, e ne offrivano in ringraziamento il voto consistente nella genuina riproduzione in cera del sesso medesimo”.
     La tradizione miracolistica dei santuari si perpetua con il grande numero di ex voto: una volta tavolette dipinte con la rappresentazione della grazia ricevuta, in seguito sostituite con fotografie e stampe, e ancora ex voto di calchi in oro, argento e cera, di parti anatomiche, di attrezzi ortopedici, abiti, trecce di capelli ed altri oggetti. È una testimonianza di umili vicende di dolore e di disperazione, di scampati pericoli in precisi contesti storici e sociali.
     Sociologi, psicologi, etnologi sono concordi nel ritenere che queste manifestazioni di religiosità riflettono soprattutto gli aspetti di vita economica e sociale delle classi popolari, per quei meccanismi tipici del mondo rurale in prevalenza basati su un'etica rigidamente formalistica del do ut des.
     Gli studiosi ritengono che la sociologia e le tradizioni popolari potranno attingere dalle tavolette dipinte o scolpite un materiale di grande valore storico per approfondire la conoscenze delle varie classi sociali, le usanze, gli strumenti di lavoro, le strutture delle abitazioni, i mezzi di trasporto, i mestieri e le professioni. Si tratta soprattutto di rozzi quadretti realizzati in modo rudimentale oppure gioielli, monili, fedi nuziali ed anche altri oggetti di valore offerti come controprestazione alle grazie e ai miracoli ricevuti. Ecco, per esempio, alcuni soggetti dipinti: una famiglia contadina che scampa al fulmine nella stalla assieme al bestiame, un uomo che cade dall’albero e rimane miracolosamente illeso, un autista scampato ad un incidente stradale, un campo di grano risparmiato dai danni della grandine, e altro ancora. Tutte queste immagini sono sempre circondate da una nuvoletta con gli angeli, l'immagine del santo e della Madonna.
                
Il Santuario dell'Addolorata di Castelpetroso

     Il 22 marzo 1888 in contrada Cesa dei Santi del Comune di Castelpetroso, una contadina trentacinquenne Bibiana Cicchino, mentre cercava un agnello disperso, notò un'intensa luce provenire da una grotta, si avvicinò e vide, inginocchiata e con gli occhi rivolti al cielo in atto di implorazione, una donna bellissima era la Vergine Santissima, ai cui piedi era giacente Gesù coperto di sangue e di piaghe. Dieci giorni dopo, l'apparizione si ripeté alla presenza di un’altra contadina Serafina Valentino. La notizia si propagò in tutto il Molise e nei paesi d regioni confinanti, e i pellegrini si contavano ormai a migliaia.
     La Chiesa, con il suo solito scrupolo di fronte ad avvenimenti così straordinari, incaricò il Vescovo di Bojano, Francesco Palmieri, di fare i primi accertamenti. Papa Leone XIII, per conferirgli maggiore autorità, lo nominò Delegato Apostolico con l'incarico specifico di un sopralluogo sul sito delle apparizioni. Il Vescovo espresse la sua convinzione che non si trattava di fenomeni isterici nè di illusione, bensì di un avvenimento davvero straordinario.
     La stampa cominciò ad interessarsene, ma soprattutto una rivista mariana pubblicata a Bologna dai Servi di Maria, in una serie di notizie teneva aggiornata l'opinione pubblica. Il direttore della rivista, Carlo Acquaderni, nel novembre del 1888, si recò assieme al figlio Augusto alla rupe benedetta per invocare la guarigione del figlio, condannato a morire per le conseguenze di una malattia incurabile, la tubercolosi ossea. Augusto guarì miracolosamente. Carlo Acquaderni per gratitudine prese l'iniziativa per una raccolta di offerte, che insieme al suo notevole contributo finanziario sarebbe stata utilizzata per la costruzione di una cappelletta nel luogo benedetto dalla presenza speciale della Madonna.
     Nel febbraio del 1890 l'ingegner Francesco Gualandi di Bologna consegna al Vescovo Palmieri il progetto e i disegni, e il 28 settembre dello stesso anno, alla presenza di trentamila fedeli, viene posta la prima pietra. Dall'inizio dei lavori le difficoltà di ordine finanziario sono state moltissime, ma le offerte generose dei fedeli non sono mai mancate, per cui il traguardo raggiunto può considerarsi come un trionfo della Fede nel settembre del 1975, quando il Santuario viene consacrato dal Vescovo Alberto Carinci. Intanto, già nel 1973, Papa Paolo VI, con un suo decreto, aveva proclamato Patrona del Molise la Beata Vergine Maria Addolorata, venerata nel Santuario di Castelpetroso.
     Ormai il Santuario dell'Addolorata è considerato tra i più importanti del Italia Meridionale. Nella cappella centrale c'è una scultura che riproduce la Madonna e Gesù morto nello stesso atteggiamento delle avvenute apparizioni.
     Altre sei cappelle sono dedicate ciascuna ad un dolore della Vergine, nella rappresentazione del noto pittore molisano Amedeo Trivisonno. Le formelle delle porte di bronzo riproducono i “Misteri del Rosario” nella Rivelazione e nella storia della Chiesa. I campanili sono arricchiti da un concerto di campane realizzate dalla fonderia Marinelli di Agnone. La posizione ambientale del Santuario emana un particolare fascino che contribuisce a valorizzare questo luogo mistico in un'atmosfera invitante alla preghiera e alla riflessione sul grande mistero della Fede.