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LEGGENDE DEL MOLISE
Le leggende del Molise sono davvero affascinanti e, alcune, anche terrificanti.
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(Campobasso city)
CREDENZE POPOLARI
Superstizioni e demoiatria
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
(Per la traduzione del testo italiano cliccate sulle icone rappresentanti le varie lingue)
Non è facile dare una definizione al termine superstizione, perché “ogni tempo e ogni cultura hanno una propria immagine della superstizione ed essa si diversifica in rapporto agli ambienti che la usano nel trascorrere della loro storia”, secondo il convincimento dell’antropologo Alfonso di Nola.
Possiamo però affermare che la superstizione è nata con l'uomo, fin da quando questi ha incominciato a percorrere il cammino della sua civiltà, da ignorante, dovendo lottare contro le forze della natura, del male e delle malattie, a cui doveva contrapporre mezzi empirici, forse nella convinzione di poterli combattere. E fu così che la superstizione s'imparentò con la magia.
La diffusione delle superstizioni e in relazione alle paure e alle incertezze individuali e collettive, che nel tempo hanno anche subito modifiche, né il progresso umano è riuscito ad eliminarle, se consideriamo che anche oggi esse permangono tra le folle anonime sia che vivano nella città che nelle campagne.
Persistono ancora oggi rimedi magici tradizionali, che riguardano il malocchio, le varie terapie magiche collegate alle credenze sui sogni, sugli animali, sul sale e sull'olio versati, alle virtù degli amuleti, e a tutti quegli oggetti e cerimoniali usati allo scopo di difesa contro i cattivi umani e gli avversi fenomeni della natura.
La paura del malocchio è senza dubbio una delle forme più popolari di superstizione. Infatti chi possiede qualcosa di prezioso ha paura dell'invidia degli altri, quell'invidia che egli proverebbe se si invertissero le posizioni.
Si basa anche sulla credenza che si possa perdere la propria vigoria fisica e la propria condizione di benessere, per cui le formule per esorcizzare il malocchio e gli amuleti contro di esso sono numerose.
Il corno, anche nel Molise, è il più diffuso, assieme a simboli sessuali come la "mano in fica”e il fallo, denti di animali, corni lunari, ferri di cavallo, ecc…. tutti questi ritenuti un rimedio scuro contro la stregoneria.
Secondo la credenza popolare per incantare il malocchio sono ritenute particolarmente dotate le donne nate con il "velo" (la placenta) e con esso battezzate, gli scongiuri che vengono pronunziati devono essere insegnati o rinnovati nella notte di Natale.
Il malocchio è essenzialmente basato sul concetto di invidia, per cui un’occhiata, volontaria o involontaria, può colpire una persona: la diagnostica più comune è quella delle gocce d'olio da far cadere in un piatto con l'acqua. Se la goccia non rimane integra, ma si spande, significa che la persona che ha richiesto il rito è stata colpita dal malocchio: in tal caso l'operatrice magica ad allontanarsi, pronunziando invocazioni dei Santi, della Trinità e della Madonna
Il breve detto anche "abitino" è un sacchettino magico usato per evitare influssi malefici e stregonerie; lo si mette al collo dei bambini, mentre da parte delle persone adulte, anche di una certa cultura, è tenuto in tasca per celarlo agli occhi della gente.
Anche il sale ha una grande importanza nell'argomento "superstizione e magia” è presente nel folclore europeo nel suo uso per sventare i sortilegi, per scongiurare le epidemie, anche fra gli animali, e allontanare le tempeste; nella medicina popolare viene usato per disinfettare le ferite e i foruncoli. Inoltre si crede che se il sale si rovescia sul tavolo o cade a terra è segno di disgrazie o presagio di sventura.
Il culto del sale è tuttora molto radicato nelle popolazioni del Molise, dove tre, sette, nove granelli di sale, assieme a foglie di ulivo e a chicchi di grano, compongono il corredo dei brevi".
Tra i contadini esiste ancora l'usanza, in taluni paesi, di scagliare il sale contro le nuvole per allontanare la tempesta. Si squaglia così come il sale la nuvola nemica.
Il sale è un elemento importante nella cultura cristiana, tanto è vero che nell'episodio del Vangelo in cui Cristo si rivolge agli apostoli e dice "voi siete il sale della terra”, cioè quelli che danno la sapienza: non per nulla nel rito del battesimo viene usato nella formula del sal sapientiae pronunziata dal sacerdote.
Come si può dedurre è culturalmente ambiguo, anche pensando al suo uso magico, alla capacità di determinare l'aridità del terreno, come avveniva in antichità per le città conquistate su cui si gettava il sale. Storicamente esistono numerosi elementi che attestano la grande importanza del sale, addirittura il nome di una città, Salisburgo, di una strada romana, la via Salaria; per i pastori il sale era indispensabile nell'alimentazione degli ovini e dei bovini per rendere più buono il latte e i formaggi.
In merito agli scongiuri contro le tempeste sappiamo che ancora oggi le popolazioni vivono momenti di autentico terrore e di impotenza di fronte allo scatenarsi delle natura, si affidano a preghiere, a formule magiche, al suono delle campane, una volta addirittura sparando contro le nuvole. Avevano così l'impressione che la grandinata avesse ridotto la sua furia rovinosa!
Le terapie magico-religiose costituiscono una branca molto diffusa per comprendere il quadro culturale in cui si inserisce anche la medicina popolare per far lievitare l'interesse verso un mondo che ha ancora forti radici in una tradizione che potrebbe sopravvivere ancora per molto tempo.
MEDICINA POPOLARE
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
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Molti si chiedono per quali motivi la medicina popolare abbia influenzato a lungo la vita notendo talvolta più credito della stessa medicina ufficiale.
Per dare una risposta convincente si può dire che se oggi il rapporto numerico tra medico e popolazione è di uno a centosettantatre, in un tempo lontano rarissima era la presenza di un medico nel piccoli paesi prima che fosse istituita la condotta medica, che, talvolta, comprendeva anche più comuni. E prima ancora dell' istituzione di un ospedale ci si doveva accontentarew di una pubblica infermeria
Nei paesi nei casi di malattie ci si affidava al "mago", lo specialista della medicina domestica, che aveva la pretesa di guarire usando intrugli e miscugli inventati, ma che alcune volte per la naturale fibra dell'ammalato erano ritenuti risolutivi. Cresceva con anche la fama del mago che però, se le guarigioni non avvenivano più, grazie ai suoi misteriosi medicamenti, cadeva in disgrazia.
Allora soltanto si chiamava il medico, ma era troppo tardi per porre rimedio al male, ormai incurabile. Anche in questo caso la colpa era attribuita al medico.
Insomma, alla fine si concedeva più fiducia alla medicina domestica, considerata la quasi totale ignoranza della popolazione, che non avrebbe mai potuto comprendere la differenza tra scienza e pratiche empiriche e incontrollate. Vale la pena ricordare che Francesco Redi, una volta chiamato a consulto per una signora malata di petto, le consigliò di fare poco uso di medici e di medicine.
E’ un riferimento ad un maggior uso dell'erboristeria, che pure ha avuto una grande importanza nella medicina popolare, specie quando questa veniva praticata da persone di una certa cultura e non da ignoranti praticoni.
Si può tuttavia affermare che come il popolo inventava i proverbi cosi in molti casi inventava i rimedi a base di erbe, dopo una collaudata esperienza.
Si ammalavano i bambini, quasi sempre la causa era dovuta ai vermi (la vermenàra), frequente malanno dovuto all'assenza quasi totale delle condizioni igieniche. La ricetta era semplice l'aglio e la ruta: per quest'ultima si ricorda il proverbio ‘a ruta ogne male stuta (la ruta ogni male spegne).
Le ricette segrete non si contavano: alcune famiglie consigliavano intrugli, infusi e decotti. ma non rivelavano la composizione, che veniva portata a conoscenza soltanto degli eredi diretti.
Insomma per ogni male era possibile un rimedio e così gli orecchioni" (parotite) si curavano con i segni di inchiostro nero sulla parte malata e dolorante.
Lo studioso molisano, don Salvatore Moffa, a cui si devono in gran parte queste notizie racconta che una volta in una casa di contadini gli fu mostrata una bottiglia custodita sotto la cappa del camino, contenente un intruglio di olio di lino, di pipistrelli pestati, di sangue di gallina e altri componenti. Se qualcuno si feriva, si medicava con quel liquido e si copriva la ferita con una ragnatela. Il risultato? Una guarigione per caso oppure più frequentemente un'infezione da curarsi con la prescrizione di un'altra ricetta.
Da un antico manoscritto di Riccia don Salvatore Moffa ci fa conoscere queste ricette:
“Secreto per il dolore di Matre per le donne. Piglia il bianco del ventricolo della gallina, si lava bene, si mette asciottare all'ombra, poi si pista bene, si mette nel bicchiere la polvere con un dito di vino gagliardo, si dà al paziente per due o tre volte, sanarà subito, cosa mirabile e d'esperienza.
“Per li porri. Piglia latte di celidonia, applicala dove è il porro o vero piglia suco di salici et in particolarmente quando il porro è in parte dilatato ma si vuole continuare per cinque giorni i più, sempre ungendo intorno a detto porro o vero pista le vitacchie e quel suco si mette sino che lo fa saltare”
“Scalanzia. Olio di lino, noce ben peste, cipolla cotta alla bracia ben peste, meschiate ogni cosa insieme, fàttene un biastro, stennételo sopra una pezza di lino e caldo ponetelo sopra il dolore”
“Per non far cascare i capelli o li peli della barba. Lavati la testa e la barba con lissia nella quale vi sia cotto sterco di colombo per quattro o cinque volte e non cadaranno i pili della barba e poi ott'onza d'orzo e noci, e le mescolerai bene insieme e con quelle ungerai il capo e la barba, lavandoti poi con la sopradetta lissia si faranno crescere i capelli e li peli della barba.
Per la lacrimazione degli occhi. La zaffarana mescolata con latte di donna, ontata (spalmata) sopra l'occhi, sana.
Per le mammelle delle donne. Libra una d'oglio comune, dieci teste d'aglio mondate bollite insieme, che siano fatte carbone, poi vi si aggiungano due onza di cera, due onza di rosapino, un onza di medolla d'ossa mastra (il femore del bue?) liquefatti insieme, e poi levate dal fuoco e mitteci due onza di Rasa de Botte».
Rimedio per la crepatura delle calcagne. Sivo di castrato, medolla di sambuco, cera vergine e fanne unguento e servitevene caldo
Ancora rimedi empirici popolari, come, per esempio, il colpo di sole o contro la meningite, si prescriveva una gallina nera, appena sventrata e posta sul capo del paziente. Per gli occhi ammalati bisognava bagnarli con acqua dove bevevano gli animali e passarci sopra cerchietti d'oro (un anello oppure un orecchino).
Per le contusioni un rimedio molto semplice era un impiastro di mollica di pane cotta nel latte di vacca; per i dolori reumatici, una volta molto più frequenti di oggi, si usava una pianta di senape in acqua bollente, il cui vapore doveva rimanere un quarto d'ora al giorno sulla parte malata.
La pellinia, ossia il catarro gastro-intestinale si curava con il lardo stagionato di un anno e affumicato, strofinato per tutto il corpo per sette, per nove o per tredici sere. La ricetta era applicata soprattutto per i bambini.
Frequenti erano gli ammalati di pleurite e polmonite (pentùra), che si curavano con pozioni di sangue di lepre, che, coagulato a secco, veniva conservato e all'occorrenza sciolto in acqua calda.
Tuttora alcuni "medicamenti sono ancora utilizzati come per lenire le scottature: cataplasmi di patate grattate; per curare la tosse il decotto di fichi secchi, e per il fegato quello di gramigna.
Se le virtù dell'aglio ancora oggi vengono esaltate al punto che la medicina ufficiale lo utilizza ormai in modo scientifico, perché ne riconosce la validità terapeutica per lenire molti mali, non è facile spiegare l'origine di certe ricette di medicina popolare derivate certamente da una forma di superstizione e di magia.
E allora ci si chiede: come si poteva curare il cuore, applicando sul petto dell'ammalato, in corrispondenza dell'organo un coniglio sventrato e ancora caldo? Quale spiegazione poteva essere data per consigliare questo trattamento terapeutico?
E ancora nella cura del catarro cronico dello stomaco o dell'intestino si consigliava l'ammalato di mangiare per molti giorni lardo ben stagionato. Forse qui una risposta c'è, perché anche oggi il lardo è considerato un “rinfrescante”!
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Lo sanno tutti, specie tra la popolazione di campagna verso la frazione di S. Stefano di Campobasso, che il conte Verde, Amedeo VI di Savoia, venne nel Molise e vi mori. Era l'anno 1283 quando il Conte, proveniente dalla Palestina, ore aveva combattuto in difesa della Cristianità, con mille soldati schierato con Lodovico d'Angiò, pretendente al trono di Napoli, contro Carlo di Durazzo, si accampò nel borgo di S. Stefana, a otto chilometri da Campobasso. La sua fama di guerriero generoso e d'illustre gentiluomo gli vale subito la simpatia di quella popolazione agreste, e quando egli fu colpito dalla peste, che in quell'anno infieriva nelle contrade del Mezzogiorno, una generale angoscia prese tutti coloro che lo amavano. Le premure, le preghiere, I farmaci non valsero a nulla: divorato dal male che non perdona, malgrado la forza della sua fibra, spirò sereno e dignitoso anche di fronte alla morte il 1 di marzo di quell'anno,
Il cordoglio fu generale, la commozione grande: gli abitanti dell'umile borgo piangenti seguirono il feretro scortato dai fedeli soldati alla volta del Piemonte e diedero l'ultimo saluto a chi non aveva gravato la mano sui loro averi per rifornire l'esercito, nè aveva permesso, come purtroppo avveniva in circostanza di temporanee occupazioni, che si mancasse di rispetto a chicchessia, cospargendo lungo la strade i fiori campestri che già l'incipiente primavera aveva disseminati copiosi.
L'avvenimento così radicato nella fantasia popolare col sentimento generoso del popolo umile, che più di tutti sa avvertire certe sfumature ha ispirato il pittore De Lisio nell’affresco che si può ammirare nel salone della Banca d'Italia di Campobasso.
La leggenda sull'origine di Boiano
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
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“Al tempo dei tempi il popolo di una regione posta dove il sole tramonta, aveva peccato contro Dio e fu colpito dal castigo durante la primavera sacra”. Dio parlò per bocca dei suoi sacerdoti: “Lo sdegno del Signore colpisce i padri nei figli, tutti i giovani che compiono ora 18 primavere si allontaneranno dalla città; non volgeranno gli occhi indietro per riguardarla e dimenticheranno la via del ritorno. Un bue sacro, destinato al sacrificio, sarà guida agli esuli; e dove il bue si fermerà sia monte o sia piano – gli esuli si fermeranno”. I padri piegarono il capo al volere del Signore; le madri chiusero nel petto i singhiozzi e i figli obbedirono.
Sette giorni camminarono guidati dal bue; sette monti valicarono e sette fiumi passarono a guado; e quando le donne erano stanche gli uomini le prendevano in braccio.
La sera del settimo giorno il bue si fermò ai piedi di un monte, ascoltò il murmure delle acque sorgenti; girò intorno i grandi occhi pazienti e mangiò l'erba dei prati in fiore. Gli esuli adorarono il Signore, venerarono il bue e chiamarono la nuova terra «Bovianum » (da bove).
La leggenda di S. Leo
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
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Come ogni anno il Conte Roberto di Loretello (Rotello) aveva bandito una partita di caccia per i signori dei castelli di S. Martino, Ururi, Serracapriola, Chieuti e Campomarino, nel vicino bosco di Licchiano.
Legati i cavalli alle annose querce, i partecipanti con una ricca schiera di battitori si diedero ad inseguire i cinghiali e i caprioli, che in quel tempo vivevano numerosi nei boschi della regione. Dopo l'estenuante battuta, raccolto il pingue bottino, si diressero alle cavalcature per il ritorno.
Oh meraviglia! Vedono i cavalli devotamente inginocchiati! Stupiti pensano a un prodigio e si danno perciò a scavare fino a quando non rinvengono una lapide con la scritta « QUI GIACE IL CORPO DEL BEATO LEONE».
Alzano faticosamente la pesante pietra e, circondati di una luce abbagliante, scorgono un'urna scavata in un masso, ove intatte e bianche più che neve, sono conservate le ossa del Santo. Accanto trovano pure un cestello con l'agoraio, un gomitolo di refe e un ditale: è la dimostrazione che il Santo effettivamente aveva trascorso la vita nella solitudine del vicino monastero di S. Felice.
A questo punto sorge tra i signori una contesa per voler ciascuno portare nel proprio paese le preziose reliquie. Il conte Roberto manda un messaggio al Vescovo di Larino per avere un suggerimento sul da farsi.
Il buon Vescovo, per evitare liti, propone di aggiogare ad un carro due buoi non domati e non guidati, i quali in loro balia avrebbero raggiunto il paese, in cui il Santo desiderava essere adorato.
I buoi, allora, tra le grida frenetiche e le preghiere dei cacciatori corrono precipitosi attraverso le terre dei convenuti alla partita di caccia e finalmente il 30 aprile gli abitanti di S. Martino vedono il carro dirigersi alla volta del loro paese. Dinanzi all'antica chiesa di S. Maria i buoi, fiaccati dalla lunga corsa, muoiono e l'urna del Santo scompare.
Il popolo commosso invoca l'aiuto del Signore e chiede che l'urna sia ritrovata.....come poi si ritrova sull'altare della Chiesa tra il fiammeggiare delle candele e lo scampanio festoso.
Da allora ogni anno il 30 Aprile i sammartinesi si recano a visitare la fossa in cui giaceva San Leo ripercorrendo con i carri tirati dai buoi la strada fatta dal carro che trasportò le sacre reliquie e rievocando l'avvenimento con la tradizionale “carrese”.
La leggenda di un grande condottiero: Giacomo Caldora
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
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Fu senza dubbio uno dei più grandi capitani del XV secolo ed ebbe una potenza pari a quella di un re. Nacque nel 1368 a Castel del Giudice da una famiglia, che conosceva il mestiere delle armi per una tradizione secolare, dalla quale non si allontanò Giacomo, ben presto divenuto esperto capitano ed antagonista ammirato di Braccio di Montone, di Attendolo Sforza e Piccinino, più fortunati questi nella memoria del posteri, se sono indicali come le figure più grandi tra i condottieri Italiani.
Ebbene il Caldora potè ben vantarsi di averli battuti in campo aperto o in mosse strategiche. Nel 1414, morto re Ladislao, salì al trono di Napoli Giovanna II, che affidò al Caldora la difesa di Castel S. Angelo in Roma contro gli assalti di Braccio di Montone.
Quello infatti ebbe una parte importante nella lotta dinastica tra Giovanna II. Alfonso d'Aragona e Luigi d'Angiò, e con le sue truppe difese Napoli contro gli assalti di Attendolo Sforza e di Guido Torello, capitano delle milizie viscontee venute in soccorso degli Angioini.
Intanto si verificò un colpo di scena, Giacomo Caldora, ambizioso in sommo grado, per diventare Capitano Generale, dopo la morte di Sforza, passò dalla parte di Luigi d'Angiò, che subito lo inviò contro le milizie di Braccio e Piccinino, i sostenitori della fazione aragonese. Nella conca aquilana in una battaglia memorabile, nella quale non rifulse soltanto il valore delle milizie, ma anche il genio del grande condottiero, le milizie avversarie furono clamorosamente battute.
La vittoria fu strepitosa: l'Aquila fu conquistata, Braccio di Montone morì sul campo e il Piccinino fu preso prigioniero.
Da allora non si contarono più gli onori che ebbe questo grande capitano del quale non discutiamo la morale (che era quella dei capitani di ventura!) basterà dire però che il Grande Siniscalco del Regno di Napoli negoziò il matrimonio del proprio figlio Troiano con Maria, figlia di lui, e della secondogenita Emilia con Antonio, unico erede dei Caldora. Il condottiero morì a Colle sannita il 15 novembre 1439 ed il suo nome sopravvisse in un alone di leggenda che lo ricorda anche nei secoli successivi.
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