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VERGA: Mastro-Don Gesualdo



Antologia - TERZO ANNO - 5^ Lezione
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VERGA: MASTRO-DON GESUALDO, LA CRITICA
 
Quinta lezione del terzo anno. Con me Diego Florio, lo studente attore che ci accompagna da qualche tempo. Siamo al secondo grande romanzo di Verga. Abbiamo affrontato con Mariateresa Spina i “Malavoglia” e ora passiamo a “Mastro-don Gesualdo”, il secondo del ciclo dei vinti. Gesualdo è un altro sconfitto della vita, di quelli che vengono lasciati dalla fiumana del progresso ai margini, che non si inseriscono nel nuovo mondo dell’ottimismo della seconda metà dell’Ottocento e del positivismo, che analizzammo nella terza lezione.
Però è un vinto diverso dai Malavoglia, da Padron ‘Ntoni e ‘Ntoni, nonno e nipote, dei quali uno muore lontano dalla sua casa, la casa del nespolo, in un ospedale, senza poter riprendere quell’abitazione di famiglia in cui erano concentrati tutti gli affetti ma anche i valori della divinità di questa comunità; l’altro torna nel suo paese dopo avere tradito, dopo essere andato a Catania, essersi dedicato al contrabbando, cercando di essere l’ostrica che si staccava dallo scoglio, ma perdendosi nel mare, secondo la filosofia rassegnata di Verga, e non trova più quel mondo ormai perduto e dà il suo addio ad Acitrezza. Nella lotta per la sopravvivenza intavolata dal nonno, ‘Ntoni aveva tentato di fare qualcosa di più che sopravvivere, cioè guadagnare in maniera da vivere in misura dignitosa.
Gesualdo, invece, circa dieci anni dopo la pubblicazione dei “Malavoglia”, rappresenta una sconfitta ad un livello più alto. Ha speso una vita ad accumulare un patrimonio e in un passo del romanzo infatti ricorda che sacrifici gli sia costata questa acquisizione di terre che, a un certo punto della storia, diventeranno la sua ossessione. Anche qui, parlando con Diodata, emerge il suo rapporto difficile con il padre, mastro Nunzio, con un confronto di generazioni. Infatti si dice di mastro Nunzio…
 
MASTRO-DON GESUALDO, Parte I, Capitolo IV
Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. "Fa l'arte che sai!" - Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore...
 
Anche mastro Nunzio parla per proverbi. Ma vediamo più avanti cosa sta ricordando Gesualdo…
 
Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d'inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell'aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all'ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. - Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro…
 
Gesualdo ha speso quindi tanto della sua vita per mettere insieme le proprietà. Poi, però, non contento della ricchezza che ha conquistato, decide di sposare Bianca, nipote dei conti Trao, che sono in difficoltà finanziaria e accettano questo matrimonio con un “parvenu” come lui per potersi riprendere da un punto di vista economico, ma anche perché Bianca aspetta un bambino frutto di una relazione clandestina con il cugino Ninì Rubiera, figlio della baronessa, ricca, avara e rivale dei Trao. Gesualdo pensa di essere lui ad essersi meritata questa promozione sociale; in realtà viene accolto e sopportato solo per i motivi di cui abbiamo parlato.
Così finisce per sposare Bianca e il racconto della loro relazione è una serie tra le più belle pagine della letteratura non solo italiana, devo dire, perché Verga analizza da un punto di vista psicologico il rapporto fra questi due personaggi così diversi tra loro in maniera finissima e splendida: il rude Gesualdo che cerca di farsi voler bene dalla moglie e la sensibile, raffinata, eterea Bianca che cerca di essere adeguata a lui. Lo sopporta ma comincia ad avere anche un po’ di affetto per quest’uomo che tanto si dedica a lei e  tenta, lei se ne accorge, di essere adatto ad una dimensione diversa da quella che aveva sempre praticato. Queste saranno le ragioni delle sofferenze di entrambi. Bianca si ammalerà e morirà prematuramente proprio perché non vive bene la sua vita, con lui e la figlia che aveva avuto da Ninì. E Gesualdo si troverà vicino questa figlia che non è stata mai sua, anche perché ha una dimensione, un comportamento, un atteggiamento, delle caratteristiche completamente diverse da lui.
Il romanzo procede  in questo dramma di colui che è rimasto nella famiglia, appunto Gesualdo, e scivola verso la conclusione amara della sua morte. Quello che abbiamo letto prima, sul sacrificio che ha comportato per lui mettere insieme le proprietà, ci serva per meglio appezzare che cosa significhi per questo vecchio alla fine della sua esistenza essere costretto in un letto, costretto a sopportare anche che la figlia con il genero, il duca de Leyra, alieni o impieghi per altri traffici le stesse proprietà, che lui aveva visto sempre con un altro destino. E deve assistere impotente a queste speculazioni sul patrimonio che ha accumulato, alla stessa maniera di un altro protagonista, Mazzarò della “Roba”, appartenente alle “Novelle rusticane”, che voleva che morisse insieme con lui …
DIEGO: Roba mia, vientene con me.
Bravo. Lo ricordi. Ce l’aveva con gli animali della sua aia e tutto quello che possedeva. Questo novello Mazzarò che è Gesualdo ha messo insieme tutto questo e si ritrova impotente, non soltanto, ma con un altro rimpianto. Pensiamo che ha rinunciato a una donna che era veramente affezionata e più adatta a lui, Diodata, che aveva preso in casa poco più che una bambina per farne poi la sua amante. Pagina straziante è quella in cui deve spiegarle che sposerà Bianca, lettura che vi risparmiamo, per portarci appunto a questo ultimo momento, quando è stato appena descritto il colloquio con la figlia, la Duchessa de Leyra, futura protagonista dell’altro romanzo che Verga non porterà a termine, in cui il vecchio le trasmette la sua preoccupazione perché nessuno lo comprende, si sente isolato, frustrato, perché ha lavorato tanto per poi vedere questo destino per le sue sostanze. Siamo al punto che Gesualdo, malato, diventa un problema per la famiglia, per la casa, per la servitù: uno che russa la notte, ansima, dà fastidio. Sta scomparendo, insomma, e intorno a lui c’è un popolo di servitori, di personaggi insensibili…
 
MASTRO-DON GESUALDO, Parte IV, Capitolo V
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
- Mia figlia! - borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. - Chiamatemi mia figlia!
- Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, - rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
— Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca? Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
— Ohi! ohi! Che facciamo adesso? — balbettò grattandosi il capo. Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.
 
Vedete con quanta calma il domestico fa prima tutte queste operazioni, non avverte nessuno. Già prima, quando Gesualdo stava veramente male, non sapeva se era il caso di andare a chiamare la duchessa…
 
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
— Mattinata, eh, don Leopoldo?
— E nottata pure! — rispose il cameriere sbadigliando. — M’è toccato a me questo regalo!
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
— Ah... così... alla chetichella?... — osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
 
Come vedete, un popolo di persone, ma nessuno dei parenti. Gesualdo è solo in mezzo a tanta gente. E’ solo. E’ morto nella insensibilità generale. E vedete che discorsi fanno adesso questi domestici…
 
— Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...
— Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... — Ha cessato di penare.
— Ed io pure, — soggiunse don Leopoldo. Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano — uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. — Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla.
— Si vede com’era nato... — osservò gravemente il cocchiere maggiore. — Guardate che mani!
— Già, son le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos’è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...
— Allora, — disse il portinaio, — devo andare a chiudere il portone?
— Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.
 
Questo cinismo del popolo è qualcosa che Verga poi riprenderà, nella novella che prossimamente leggeremo, “Libertà”. Intanto l’ultima considerazione su questo motivo dominante del romanzo: la roba, il patrimonio, la legge economica, che governa in questo mondo che è stato preparato nei racconti delle “Novelle rusticane” e poi si condensa nel “Mastro-don Gesualdo”. Il titolo è naturalmente la composizione delle due persone di Gesualdo: era “mastro” quando accumulava e da semplice bracciante agricolo era diventato un imprenditore; e tenta di diventare “don” quando fa la scalata sociale per entrare nel campo della nobiltà. Però nel nominarlo “mastro-don” Verga vuole ironicamente sottolineare il fatto che poi non è stato né l’uno né l’altro, una situazione rimasta a metà, un’operazione incompiuta e quindi alienante quella di Gesualdo. In questo è personaggio veramente già moderno, che apre il decadentismo.
I “Malavoglia” chiudono l’età del positivismo e “Mastro-don Gesualdo” avvia quella del decadentismo in Italia, anche nel senso di una deformazione ironica e sarcastica della realtà. Mentre nei “Malavoglia” c’era ancora un’atmosfera sacrale, il rispetto dei valori di questa gente semplice, appunto la filosofia della famiglia, della casa, del lavoro, in “Mastro-don Gesualdo” l’ironia dell’autore si fa sempre più acuta, più sferzante, nei confronti dei protagonisti. Quindi vengono meno i riferimenti ideali tradizionali e ci stiamo avviando alla crisi dei valori che si respira nell’ambito del decadentismo.
Tra l’altro Verga stesso, come sua maturazione personale, sta evolvendo, direi quasi involvendo, verso quell’aridità che poi lo sovrasterà alla fine dell’Ottocento. Ricordiamo che il “Mastro-don Gesualdo” è del 1889 e pochi anni dopo scriverà alcune raccolte di novelle, i “Racconti del capitano d’Arce”, “Per le vie”, “Vagabondaggio”, “Don Candeloro e c.” però poi perderà la vena, non riuscirà più a essere grande autore. Produrrà ancora qualcosa per il teatro, “Cavalleria rusticana”, “La lupa” e altre riprese dalle novelle, un dramma interessantissimo, “Dal tuo al mio”, dove si parla della lotta di alcuni dipendenti nei confronti di un datore di lavoro, ripercorrendo quindi le agitazioni sociali di fine Ottocento e i fermenti del primo Novecento, e poi non scriverà più nulla, fino al 1922, l’anno della morte. Sono venti anni, e anche di più se si eliminano le opere minori, di silenzio.
Verga diceva di se stesso di essere un “codino” a Napoleone Colaianni, uno dei tanti protagonisti della questione meridionale, con Giustino Fortunato e Dorso, che avrebbe voluto il catanese impegnato nelle lotte politiche e sociali del tempo. Lui si scherniva dicendo di essere un conservatore, da cui non si potevano aspettare la rivoluzione. Colaianni aveva visto questi aspetti innovatori nella sua opera, però lui aveva la coscienza, la consapevolezza, e anche l’onestà, di dire: guardate, io non c’entro con voi, io non sono per le lotte sociali; io denuncio i problemi, però ripudio la violenza.
Infatti di quest’ultimo tema parleremo tra un momento con “Libertà”. Ma preferisco farlo dopo aver prima raccolto i giudizi che su Verga sono stati dati, anche a proposito del suo schieramento politico. Vediamo prima un intervento di Luigi Russo, da un punto di vista più socio-letterario…
 
Codesta visione oggettiva della vita in fondo ha tutta la forza di una religione. Il tempio di codesta religione è la casa, o la roba, purificata da tutto il senso egoistico dell’avarizia e della proprietà (…) Grazie alla sua simpatia per gli umili, anche il Verga è a suo modo un cristiano.
 
Questo è un famosissimo giudizio di Luigi Russo, uno dei massimi esperti di studi verghiani. Dopodiché vediamo quello del grandissimo mio professore di letteratura a Roma, Natalino Sapegno…
 
(L’opera di Verga è) il frutto più maturo, in letteratura; del ripiegamento riflessivo che tenne dietro al moto del risorgimento nell’ora in cui si rendevano chiare agli occhi di molti le insufficienze della rivoluzione testé compiuta, la sopravvivenza, sotto la vernice della democrazia, di una struttura politica essenzialmente burocratica e poliziesca inetta a immettere nella vita dello stato le plebi meridionali soffocate dalla miseria, dall’ignoranza e da un’inveterata consuetudine di rapporti feudali (…) L’incisività dell’opera di Verga e dei veristi in generale è attenuata dalla loro estrazione sociale.
 
Questa la prudente analisi di Sapegno su Verga, da lui visto semplicemente come un rappresentante di un problema, la questione meridionale. Non si compromette più di tanto. Ha respirato l’atmosfera conservatrice dell’atteggiamento politico di Verga e preferisce glissare su questo argomento.
Vediamo Gaetano Trombatore, che esalta la capacità di denuncia dell’opera del siciliano…
 
E’ innegabile che, nel suo significato umano, quest’arte si risolve in una difesa dei derelitti e in un atto d’accusa contro le cause di tanta miseria.
 
Anche lui oltre non va, ma, al di là dei giudizi che ricordavamo prima, e che Verga per primo dà di se stesso, l’importante è la denuncia di quello che non funziona, il lavoro minorile, il brigantaggio, la fame, la povertà, la lotta per la sopravvivenza. Andiamo a vedere cosa ci dice Alberto Asor Rosa…
 
L’estraneità all’ideologia socialista e la visione pessimistica della società non solo non sono un limite dell’opera verghiana, ma costituiscono il punto di forza della sua lucida e amara rappresentazione della realtà(…)Verga, alla protesta e alla speranza, preferisce la conoscenza e la consapevolezza.
 
Già è tanto che Asor Rosa dica questo. Lo conosciamo come uno degli intellettuali più intransigenti nei confronti del conservatorismo. Quindi riconosce almeno a Verga la denuncia. Prosegue…
 
Il paradosso dell’arte verghiana sta in questo, che proprio il rifiuto della speranza populista e delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresentazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in tutto l’Ottocento.
 
Asor Rosa storicizza molto la posizione di Verga, affermando che nell’Ottocento era già molto quello che faceva. Poi abbiamo, a proposito dello stile verghiano, Leo Spitzer, uno dei massimi esperti per la parte formale, colui che ha parlato di “erlebte rede”, discorso vissuto, che l’altra volta abbiamo definito “discorso indiretto libero”, per dire che le vicende dei “Malavoglia” sono narrate con espressioni degli stessi protagonisti, come se appunto un paese intero, il villaggio di Acitrezza, raccontasse i fatti, ma in forma indiretta, cioè nel tessuto della narrazione…
 
Vega opera una filtrazione sistematica della sua narrazione di un romanzo intero, dal primo fino all’ultimo capitolo, attraverso un coro di parlanti popolari semireali, il cui parlato potrebbe essere realtà oggettiva ma non si sa se lo è, e l’identificazione della voce del narratore con quella di questo coro fa sì che l’intero svolgimento dei “Malavoglia” si possa leggere come un ininterrotto discorso indiretto libero attraverso il quale il narratore racconta gli avvenimenti come si riflettono nei cervelli e nei cuori dei suoi personaggi.
 
Passiamo ora a Romano Luperini…
 
L’adozione del punto di vista narrativo della collettività di Trezza serve a illuminare tutto il racconto di una luce obliqua, distorta, che però coglie oggettivamente uno stravolgimento profondo, reale dei rapporti umani sottoposti all’alienazione della legge dell’utile e della violenza. La cosiddetta coralità e l’impersonalità dei “Malavoglia” non sono solo un espediente tecnico ma anche un modo per rendere una desolata visione del mondo.
 
E su questa espressione di una “desolata visione del mondo” di Verga concludiamo questa lezione, non senza prima aver ricordato con te, Diego, che le radici dei problemi sociali di cui ti occupi con il tuo teatro del momento sono già in queste esperienze. La prossima volta analizzeremo il problema della violenza, della reazione violenta, ma le ragioni di questi protagonisti nell’Italia  del secondo Ottocento sono quelle di chi coltiva le terre non per sé ma per gli altri, cioè di una gravissima ingiustizia sociale che si protrae nel tempo e proprio nel momento in cui sembrerebbe essere messa in discussione, nel 1860 con l’arrivo dei garibaldini, proprio allora si conferma. Questo brutale schiaffo alla gente che aveva tanto sperato farà covare tanta disperazione che poi alla fine del secolo ci saranno le lotte dei braccianti, delle leghe bianche, delle leghe rosse. Cosa che poi si espanderà nel Novecento, al periodo che stai trattando tu, intorno alla prima guerra mondiale, quando questi problemi vengono rivissuti dai nostri emigrati in America, dove ci sono le proteste dei sindacati. Tu che idea hai del tema della violenza per Giovannitti, la cui vicenda porti sulla scena?
DIEGO: Arturo Giovannitti, almeno per quello che viene raccontato dalle testimonianze di chi ha condiviso con lui quel momento particolare, era uno che ripudiava la violenza, che diceva che solo attraverso la forza delle idee si potesse creare un movimento di emancipazione di queste classi meno abbienti, cioè attraverso la conoscenza, attraverso la consapevolezza di sé e dei propri mezzi.
La protesta come acquisto di consapevolezza e anche possibilità di far conoscere i problemi, non schiantare tutto.
DIEGO: Anche perché la violenza avrebbe poi messo in evidenza appunto solamente la violenza stessa e in questo modo sarebbero venute meno, agli occhi anche dell’opinione pubblica mondiale di quel momento, le ragioni stesse, giuste, di queste classi assolutamente sfruttate.
A proposito di rassegnazione, nulla di rassegnato può essere collegato alla figura di Giovannitti. Infatti la conclusione della sua autodifesa, che reciti, e molto bene, è: attenzione, se non mi condannate, sappiate, comunque…
DIEGO: …che io tornerò a fare esattamente quello che ho fatto fino a questo momento, perché credo che la mia sia una battaglia giusta. Una battaglia per il miglioramento complessivo delle condizioni dell’umanità non può che essere giusta.
Allora chiudiamo qui questa lezione e ci rivediamo per riprendere questo tema nella sesta. Arrivederci.
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