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VERGA: Libertà – DE ROBERTO: I Viceré



Antologia - TERZO ANNO - 6^ Lezione
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DA “LIBERTA’” A “I VICERE’”
 
Sesta lezione, con Diego. Ancora un’ultima riflessione su Giovanni Verga e sulla novella “Libertà”, come avevamo promesso l’ultima volta, che parlavamo di problemi del lavoro, problemi sociali e anche di quel 1860, che fu l’anno dell’arrivo dei garibaldini nell’Italia meridionale. In realtà per i miei studenti ho sempre messo insieme cinque opere letterarie italiane su questo argomento: “Libertà” di Verga, “Signora Ava” di Francesco Jovine, che parla dello stesso arrivo dei garibaldini in Molise, “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, che parla del rapporto fra la vecchia generazione che ha fatto il risorgimento e i giovani che ereditano una società che non è quella che era nelle premesse di quel movimento, “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in cui si parla sempre della spedizione dei Mille in Sicilia e del fatto che nulla cambia, dopo l’arrivo dei garibaldini, nei rapporti sociali, e infine quello che vedremo insieme con “Libertà” oggi, il romanzo “I Viceré” di Federico De Roberto, dove pure si discute di un grande inganno ai danni della popolazione da parte dei privilegiati, come noteremo nei particolari.
Partiamo da “Libertà”. Nel 1860 sono arrivati i garibaldini a Bronte. E’ un episodio di storia. Tra l’altro questo fatto è stato messo ai margini della storiografia ufficiale, per tanti anni. C’è un film, di Florestano Vancini, “Bronte”, del 1973, che doveva passare sulla RAI e non hanno mai dato, perché appunto parlava di qualcosa che era stato escluso dalla storiografia ufficiale, come una vicenda scomoda. Sono arrivati i Mille e in un paesino, Bronte, mentre un intellettuale del posto, nel territorio di Catania, ha avviato una riforma agraria, che i notabili non sopportano, in quanto le leggi agrarie prevedono che le terre siano distribuite a quelli che invece finora lavorano come schiavi per loro, in questo stesso posto in cui si sta preparando una riforma agraria, i contadini, all’arrivo dei Mille, pensano che sia giunto il momento della loro “Libertà”. E la libertà la interpretano in questa maniera, così come ce la riporta Giovanni Verga…
 
VERGA,LIBERTA’                                                                                                   Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza:- Viva la libertà! - Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei 'galantuomini', davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! –
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai 'galantuomini'! Ai 'cappelli'! Ammazza! ammazza! Addosso ai 'cappelli'!–
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia.
 
E qui c’è la descrizione della macellazione di una famiglia. Continua un po’ più avanti…
 
(…)Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anche esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! –  Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i 'cappelli'! –
(…)La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anche esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando:- Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre si era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
 
E’ la descrizione della violenza. E’ la prima parte della novella. Se ci fermassimo a questa lettura, avremmo l’impressione semplicemente che Verga ha voluto denunciare la crudeltà di una popolazione nei confronti dei “galantuomini”, come li definisce lui stesso. Ci parrebbe di leggere in questo racconto soltanto il risentimento dell’autore nei confronti di gente comune che si ribella con tale violenza. Invece poco dopo Verga cambia tono, li descrive al termine del macello, quando si svegliano come da un sogno, un incubo, non sanno cosa hanno fatto e non sanno cosa fare…
 
(…)Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano si era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il casino dei 'galantuomini' era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana.
 
Non possono andare a messa perché il prete lo hanno fatto fuori, i galantuomini se ne sono scappati, qualcuno lo hanno ammazzato e non sanno da chi prendere ordini. Hanno fatto tutto questo per poi sentire di dover prendere ordini!...
 
Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l'ombra si impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto.
 
Bellissima questa immagine: si ritira l’ombra e loro si ritirano nell’ombra. E’ come vedere rimpicciolire quella massa di persone che si era così espansa nella prima parte del racconto, quando operava l’aggressione. E’ una descrizione simbolica del fatto che la violenza che hanno scatenato si ritrae come se non avesse ottenuto nulla. O si sentono loro piccoli, dopo essersi sentiti grandi…
 
Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei 'cappelli'! - Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei 'galantuomini'! - Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
 
Verga, quindi, dietro questo quadro, vuole dire che il popolo non deve ribellarsi, anche perché da solo non riesce a governarsi. E’ una sorta di odio dell’anarchia, della mancanza di regole. E’ il conservatore che emerge, però è anche il Verga che ha pietà di un mondo che è vissuto nella sopraffazione e si sta ribellando. Dopodiché arrivano i garibaldini…
 
 Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti.
 
Anche questo. Sarebbe bastato buttare le pietre per schiacciarli, invece non lo fanno. Per dire quanto siano paradossalmente impotenti dopo la violenza che hanno scatenato. Poi arriva quello che viene definito il generale, ma in realtà è il luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, il protagonista di questo episodio…
 
(…)Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono.
 
C’è un famoso saggio di Leonardo Sciascia, intitolato “La corda pazza”, poi inserito in “Studi sul risorgimento”, in cui dice che i documenti raccontano che uno dei cinque fucilati non era un nano, ma lo scemo o il pazzo del paese. E argomenta che se Verga, invece che descriverlo come un uomo senza ragione, lo presenta come un nano è per associare alla sua figura l’idea della malignità, che, per tradizione sempre deprecabile, si attribuisce a loro. E quindi in questa ricostruzione ritrova ancora una volta l’atteggiamento ostile dell’autore nei confronti della rivolta popolare, perché non avrebbe colto l’occasione per sottolineare che Nino Bixio ha fucilato anche uno che non è responsabile delle sue azioni, cioè il povero scemo del paese. Andiamo più avanti, quando portano via alcuni di loro al processo, una sequenza quasi cinematografica…
 
Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento…
 
E’ l’espressione che avrebbero usato loro per descriverlo, secondo il “discorso indiretto libero” tipico di Verga. A questo punto l’autore si sta trasferendo dalla parte di coloro che subiscono il processo…
 
(…)Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I 'galantuomini' non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i 'galantuomini'. Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre.
 
Questo è il destino beffardo di quelli che stanno in galera lì. Mentre loro sono processati, là in paese stanno facendo la pace ed è tornata la vecchia situazione. Così come succede in “Signora Ava”, nel “Gattopardo” e nei “Viceré”, come vedremo. Si va verso il processo. Anche lì c’è un avvocato che pronuncia una difesa dura, sostenendo che quella violenza non si giustifica, ma si spiega con le condizioni di abbrutimento, di sfruttamento. Poi, alla conclusione, quando li hanno condannati…
 
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...
 
Se c’era la libertà… Per loro la libertà significava prendersi le terre scannando, togliendo di mezzo i proprietari, nella loro caratteristica di primitivi, secondo Verga.
Vediamo ora nei “Viceré” di De Roberto quello che si dice su questo destino per cui nulla cambia, anche se tutto sembra evolversi, modificarsi. Si narra la storia della famiglia degli Uzeda, il cui rappresentante, Consalvo, ha deciso di partecipare alla vita politica. Sono latifondisti, eredi dei vecchi viceré spagnoli, ma la proprietà terriera potrebbe essere messa in discussione, e allora bisogna andare in parlamento per difendere i propri interessi. Questo è l’altro inganno nei confronti del popolo: i vecchi proprietari  mantengono i loro privilegi e la distinzione sociale facendosi eleggere dal ceto borghese del tempo al parlamento del regno.
Consalvo però deve convincere la zia, che non ne vuole sapere di voto dato da borghesi, perché i nobili come loro non si devono mischiare non solo con il popolo ma nemmeno con i commercianti, notai e vari emergenti.  Allora le spiega pazientemente che è opportuno che uno di loro si presenti alle elezioni. Qui parla quando è già stato eletto…
 
DE ROBERTO, I VICERE’, Parte III, Capitolo IX
«Zia, come sta?»
Ella fece solo un gesto ambiguo col capo.
«Ha febbre? Mi lasci sentire il polso... No, soltanto un po' di calore. Che cosa ha preso? Ha chiamato un dottore?»
«I dottori sono altrettanti asini,» gli rispose brevemente, voltandosi con la faccia contro il muro.
«Vostra Eccellenza ha ragione... sanno ben poco... ma qualcosa più di noi sanno pure... Perché non curarsi in principio?»
La vecchia rispose con uno scoppio di tosse cavernosa che finì con uno scaracchio giallastro.
«Ha la tosse e non prende nulla! Le porterò io certe pastiglie che sono davvero miracolose. Mi promette di prenderle?»
 
La prende con le molle. Più avanti, rispondendo alla zia, fa questo discorso esemplare…
 
«Tempi obbrobriosi!... Razza degenere!»
La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono d'umiltà, riprese:
«Forse Vostra Eccellenza l'ha anche con me... Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono... Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla... Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese... Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s'è raggiunto... Creda che duole a me prima che a lei... Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com'è, e com'è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d'incanto?»
Non una sillaba di risposta.
«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l'età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato... L'importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: "Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento. »
 
Da notare che nel 1861 non erano stati eletti, erano stati addirittura chiamati; per esempio nel “Gattopardo” Chevaller viene da Torino a candidare il Principe, Fabrizio Salina, che non ne vuole sapere e propone l’uomo emergente, Calogero Sedara,. Successivamente si va in parlamento con elezioni censitarie, prima con 25.000 poi con 200.000 elettori e così via, per arrivare al suffragio universale, maschile, solo nel 1913….
 
«Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d'accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m'è parsa e mi pare molto giusta... Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo.»
 
La chiama canaglia, ma ne ha bisogno per essere eletto. Andiamo più avanti…
 
(…)«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza».
 
E poi ancora, in maniera sfrontata, più avanti…
 
(…)«Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl'interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l'ha travolta... Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!... »
Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri, di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata all'eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.
 
Abbiamo riletto questo passo di De Roberto non solo per rappresentare l’inganno, ma anche per fare intravedere quello che analizzeremo in lezioni successive, una sorta di superuomo-tribuno, che riesce a parlare alle masse, che affascina con le sue parole, con i suoi discorsi, che sarà protagonista dei romanzi di D’Annunzio, nell’atmosfera superomistica derivata dalla distorsione del pensiero di Nietzsche. E’ un’altra testimonianza di un trasferimento interno dal verismo al decadentismo. Come in “Mastro-don Gesualdo” una deformazione della realtà preannunciava il clima decadente, qui questa sottolineatura estetica della parola, della capacità oratoria di Consalvo Uzeda non è più verismo, ma slittamento verso l’irrazionale e il mondo della crisi dei valori tipico della nuova stagione culturale.
Ultima riflessione. Tutto deve cambiare perché nulla cambi.  La filosofia gattopardesca.
DIEGO: …che emerge anche nella nostra società.
Insomma leggere i testi di tanti anni fa…
DIEGO: …può essere illuminante, offre grossi spunti di riflessione.
Dà profondità ai nostri ragionamenti sui temi attuali. Concludiamo così. Arrivederci.




VERGA: Libertà – DE ROBERTO: I Viceré


 
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