Il Molise: aria, acqua e natura – Linea Verde
https://www.youtube.com/watch?v=Bt_OmzrMnEo
♦ Paesaggi del Molise
♦ Immagini di paesaggi del Molise
♦ Sostare davanti a un paesaggio nel Molise
♦ Borghi del Molise
Paesaggi del Molise
Il Molise, una piccola terra verde e sostenibile
di Barbara Serafini | postato in: Immagini dal Sannio | 0
In una piccola regione come questa, sono tante le riserve verdi e naturali. Boschi, giardini botanici, piccoli paradisi sotto al cielo. Potrei nominare l’Oasi del WWF di Guardiaregia – Campochiaro, la seconda più grande d’Italia, con i suoi 3135 ettari che proteggono dalla speculazione edilizia e dalla caccia. Un vero e proprio scrigno di biodiversità che dal 2010 è diventata Riserva Regionale. Ecco che tra canyon, cascate e grotte, che sono tra le più profonde d’Europa, troviamo una grande distesa di faggi, tipici della zona, tra i quali ve ne è addirittura uno di 500 anni, con una circonferenza del tronco che per poco non arriva ai 5 metri. Ci si può letteralmente perdere nella natura, a tu per tu con il fruscìo delle foglie, con l’aria salubre e incontaminata, con i passi felpati di animali in lontananza, con le emozioni di prati in fiore e di cascatelle d’acqua che saltano e schizzano.
La Riserva Naturale di Collemeluccio – Montedimezzo, situata nel cuore dell’Appennino molisano, è una vasta area composta da circa 300 ettari, una delle otto Riserve della Biosfera italiane. È caratterizzato da una grande presenza di alberi di cerro sotto i 900 metri e alberi di faggio sopra i 1.300 metri. Non solo: nel corso degli anni, infatti, la natura vegetativa si è arricchita con altre specie autoctone quali l’acero di Lobelius, l’acero montano, campestre e riccio, il carpino bianco, il frassino maggiore, il nocciolo, il sorbo degli uccellatori, il ciliegio, il pero e il melo selvatici, il prugnolo e diverse altre specie. Questa varietà vegetativa dà dimora a diverse specie di mammiferi: cinghiali, lepri, tassi, caprioli, martore, donnole, faine, volpi e scoiattoli, e il lupo che ha trovato in questo ecosistema un ambiente a lui congeniale.
L’Oasi di Casacalenda è una riserva della LIPU, un querceto collinare che anticamente ha ospitato l’accampamento di Annibale nella vicina Gerione. Fu inserita nel 1995 dal Ministero dell’Ambiente nell’Elenco nazionale delle aree naturali protette, ed è stata recentemente riconosciuta quale Zona Speciale di Conservazione per la Rete europea Natura 2000. Qui troviamo un bosco di cerro con agrifogli e biancospini, in cui non è difficile avvistare rapaci, ma anche lupi e gatti selvatici.
Non dimentichiamo certamente che parte del territorio molisano è compreso nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Ma ancora, potremmo perderci nella Riserva naturale del Torrente Callora, o nella Riserva naturale Orientata di Pesche. In pratica, l’8% del territorio è coperto da riserve naturali. Ricordiamo altresì i numerosi siti che appartengono alla Rete Natura 2000, sistema coordinato e coerente di aree destinate alla conservazione della diversità biologica presente nel territorio dell’Unione Europea. Essa ha lo scopo di garantire a tutti gli habitat e alle specie animali e vegetali, uno stato di conservazione favorevole, tramite una sufficiente rappresentazione di tutte le tipologie ambientali e un’elevata interconnessione ecologica fra i vari siti.
Una riserva davvero caratteristica la troviamo a Venafro, il Parco regionale agricolo storico dell’oliva venafrana, detto anche Oraziano o Campaglione. È un’area protetta, istituita nel 2004, che nasconde un’alta e svariata biodiversità naturalistica, data da uliveti e specie molto interessanti, in un habitat degno di invidia ed encomiabile all’occhio di un naturalista. Questa elevata biodiversità colturale, indice di eccellente valore naturalistico, trovava giustificazione nella maggior versatilità dell’uliveto agli agenti atmosferici, per cui si poteva avere un prodotto sempre costante in quantità, a seconda delle annate e della fruttificazione delle varie specie di ulivo. I terreni che ne affiorano sono prevalentemente di origine sedimentaria, con una vegetazione che varia dalle caducifoglie alle faggete. L’istituzione del Parco lo ha inserito nel Registro Nazionale dei Paesaggi rurali storici e intende promuovere e conservare l’olivicoltura tradizionale che a Venafro ebbe grandi fasti e antichi splendori, tanto che i Romani ritenevano l’olio della zona il più pregiato del mondo antico. Una grande occasione di riscatto per un territorio che negli ultimi anni non è sempre stato ben valorizzato, spesso lasciato all’incuria. L’agricoltura e gli uliveti di Venafro sono descritti fin dall’antichità da Marco Porcio Catone, che nel De Agricoltura suggerisce di applicare le tecniche agricole usate a Venafro, da Orazio, che descrive una “Venafro ammantata di olivi”.
Tutto il territorio regionale ospita circa 3 milioni di ulivi. Le varietà autoctone più presenti sono l’Aurina, conosciuta dai Romani col nome di Licinia, la Rossuola, da cui si produce un olio dolce e di colore piuttosto chiaro, l’Olivastro Dritto, l’Olivastro d’Aprile. La cultivar in assoluto più diffusa è la Gentile di Larino, ma molto ripica è anche l’Oliva San Pardo.
Castel del Giudice e le sue mele.
Un altro importante cultivar è quello delle mele. La produzione di questi frutti dolci e genuini mette una forte sottolineatura alla concezione di alimento biologico. Essi sono i frutti più autentici di un territorio dalle elevate qualità della vita, raccolti nelle zone boschive. Le mele vengono commercializzate e valorizzate ottenendo prodotti derivati dalle indiscutibili qualità. Il punto di forza dell’economia di alcuni borghi, come ad esempio Castel del Giudice, è proprio l’agricoltura biologica, la sostenibilità della produzione, il rispetto del territorio e di ogni sua componente. Un prodotto che riesce a valorizzare le qualità della zona intera dell’Alto Molise, rispettando l’ambiente, il paesaggio puro, valorizzandolo e riuscendo a conservarne integri aspetto e bellezza. La coltivazione delle mele coinvolge adulte e giovani generazioni, con un incremento della filiera produttiva e con la valorizzazione di essa, ponendo alto sostegno al reddito agricolo. Un prodotto biologico che rispetta pienamente il patrimonio ambientale, colturale e culturale, legato a un territorio con alte valenze paesaggistiche e ambientali.
Mare, montagna e turismo dell’acqua non sono da dimenticare. Anzi, sono certamente i punti cardine del turismo molisano. Il basso Molise ci offre un bellissimo affaccio sulla costiera adriatica, con qualche trabocco qua e là e un mare sempre più volte premiato per le qualità delle sue acque. Chi ama la montagna può certamente apprezzare la catena delle Mainarde e quella del Matese, separate dal corso del fiume Volturno, che lambisce borghi molto caratteristici, tra storia, abbazie e sogni. Qua e là qualche piccola oasi boschiva, il bellissimo lago di Castel San Vincenzo, paradisi naturali alla portata di tutti. A poca distanza in linea d’aria dalle principali stazioni sciistiche molisane troviamo, inoltre, diversi circhi glaciali matesini, con un’attività sicuramente precedente all’ultima glaciazione: uno di questi sfocia nella Valle Fondacone che è caratterizzato da un fascino unico, con la forra a strapiombo sul nevaio, e i suoi due Campanarielli, due guglie collegate fra loro da uno strettissimo valico: il Campanariello di Monte e il Campanariello di Valle, quest’ultimo più aereo e sottile. Si tratta di due formazioni naturali, che richiamano la forma di campane rocciose, dal carattere più alpino che appenninico. E proprio nel territorio dei Campanarielli, a Roccamandolfi, possiamo avere il primo assaggio di turismo dell’acqua, caratterizzato da un tesoro non indifferente in quanto a cascate. Angoli naturalistici spesso celati ai più; corsi d’acqua che scendono a picco, che si gettano in ruscelli, che danno vita a meravigliosi spettacoli agli occhi di chi li guarda, che creano percorsi onirici e invitanti.
E allora Santa Maria del Molise, Sant’Agapito e Longano, Carpinone, Capracotta, Agnone, San Vincenzo al Volturno… questi sono solo alcuni dei borghi che custodiscono tesori così preziosi. Per non parlare del percorso dei castelli molisani, o quello dei tratturi, che meritano certamente un capitolo a parte. Il Molise, insomma, va visitato e ogni angolo ci dimostra quanto la scelta di turismo verde che ricade sempre più spesso qui sia del tutto fondata.
SOSTARE DAVANTI A UN PAESAGGIO –
Uno scritto di Giovanni Arpino (1927-1987)
tratto dal volume “Paesaggio italiano” di Pepi Merisio – Silvana editoriale
“Cos’è “un” paesaggio? Dov’è il “vero” paesaggio? E gli uomini d’oggi sono ancora capaci di “amare un paesaggio, di “sostare davanti a un paesaggio”?
Gli interrogativi sono non soltanto leciti, ma obbligati. L’uomo corre e non guarda, fotografa (da dilettante) per memorizzare attimi e cose e angoli che non ha pazienza di vedere nel momento esatto. E così il paesaggio diventa subito un fantasma del passato.
Ma tutto il paesaggio italiano è il Passato.
Maiuscolo, sublime, non imitabile, singolare in ogni zolla, miracoloso e travagliatissimo, però Passato. Anche perché il presente – il nostro minuscolo presente – non fa che logorare questo Passato, abbattendolo, inquinandolo, distraendosene, lasciando morire sia i costumi di un tempo, sia le acque, sia i boschi.
L’Italia è terra antica, si dice, Ma non è vero. Geologicamente parlando – come ci spiegano gli studiosi – è una terra abbastanza giovane, anche se la mano dell’uomo ha domato, con ogni sorta di artifici, di innovazioni, abbandoni, ulcerazioni, il paesaggio della penisola.
Il nostro paesaggio è – in gran parte – una natura che non ha potuto vivere libera, sola, padrona di sé. Tecnicamente schiavo alla mano dell’uomo, ogni briciolo di terra italiana o si è inselvatichito o si è sottomesso a modificazioni centenarie. E così noi, popolo vecchio in terra giovane, abbiamo dato la stura ad invenzioni continue, a offese e trasformazioni, a bonifiche e ferite, badando poco alle “bellezze” del passato e abbracciandoci avidamente alla nostra “necessità”.
Non v’è più paesaggio che non risulti umanizzato, come gli animali delle favole, che sono costretti ad imitarci ma non saranno mai più se stessi e mai saranno noi.
Solo poche costole di terra, pochi anfratti inesplorati, e quasi brutali sono riusciti a resistere, a respingere o annullare la mano dell’uomo, i suoi attrezzi. E questi angoli noi rimiriamo ancora come reliquie del mondo che fu, che non possiamo più comprendere, giustificare, possedere, divorare.
Vi fu un tempo in cui ogni uomo visse in ogni paesaggio, mentre quest’ultimo, oggi, è costretto a vivere con l’uomo, soggiacere all’uomo, con rischi e pericoli che si moltiplicano sotto i nostri occhi, a velocità mostruosa.
Ciascuno di noi sa perfettamente che “perdere un paesaggio” (dal chiudere una finestra all’alzare un muro, a rubar acqua al mare, fino a distruggere un campanile, ad abbattere un albero centenario) significa perdita umana. Ma non resistiamo alle tentazioni di stupro che continuamente ci spingono a violentare monti e fiumi, viali alberati e pianure, ruscelli e montagne, boschi e vallate. Anche le antiche pietre di uomini che passarono la vita ad erigere una cattedrale, ad alzare mura fortificate – che nei secoli sono diventate paesaggio -– ci temono. Perché l’uomo, filosoficamente nemico di se stesso, “feritore di se stesso”, nella sua fuga in avanti non rispetta nulla. Fa e cambia, smonta e rifà, distrugge e ricomincia. E’ un cannibale di civiltà, e quindi di paesaggi.
Vi furono forse albe e tramonti che videro i paesaggi ”fuggitivi” come gli occhi della fanciulla leopardiana. Oggi è arduo ricercarli, guardarli con pupille limpide, accostarsi con purezza di cuore.
Paesaggio italico: una delizia, un giardino, un sogno incastonato in altri mille sogni.
Un labirinto di immagini ora conseguenti ora contraddittorie. Una “verità” terrestre che le mani dell’uomo hanno rispettato qua e là, solo per caso. Una coloritura profonda e poi stagionale, storica e poi deserta, pensata e poi giocata dal caso. Per chi osserva l’Italia da un aereo (ma un aliante è ancor meglio: sfiora il silenzio che il paesaggio ha come anima), la penisola è veramente un dito d’Iddio. Persino dove mostra ogni sorta di rappezzi, di francobollature arate, di microcosmi avviticchiati, quel dito d’Iddio ha un significato, un arcano, una bellezza che si vorrebbe intoccabile.
Ma milioni di passi, di strumenti, di viottoli, di slavine, di terremoti, di lave, di marosi, di lavori hanno nei secoli truccato la fisionomia originaria del paesaggio peninsulare: facendo nascere nuovi scorci, dando all’occhio umano la possibilità di vedere diversamente una montagna, un declivio, un golfo, una palude.
Forse l’uomo è, dovrebbe essere il suo paesaggio. O forse il paesaggio è l’animale più obbediente all’uomo. Il quale uomo non ha mai desistito dal raccontarlo: su atlanti, mappe, carte, in romanzi e commedie e versi, su dipinti, stoffe, “murales”. Il paesaggio, vero o sognato, autentico o immaginario, ha sovranamente, mollemente ceduto all’uomo tutte le sue suggestioni segrete. Perché l’uomo esploratore, l’uomo distruggitore, l’uomo costruttore ha in ogni età raccolto il paesaggio intorno a sé, alla propria casa, impadronendosene e modificandolo.
Ed è sempre lo stesso uomo che di fronte ad un tramonto sospira, da puro idiota: bello come se fosse dipinto; mentre quando esamina una tela sostiene: bella come se fosse vera.
Il paesaggio non sa di essere. Sta. L’uomo lo scopre, lo deturpa, lo esalta, lo cambia a suo uso e consumo, talvolta lo rispetta solo per distrazione cosmica. La nostra penisola ne sa qualcosa.
Non vi è praticamente zolla che non sia stata voltata e rivoltata, non vi è angolo che non abbia conosciuto emigrazioni di genti, eccidi, travagli, non vi è spigolo che non sia servito o come muro o come trincea o come feritoia o come tomba o come altare.
Forse l’uomo è diventato troppo vecchio per quello che potrebbe essere ancora un “suo” paesaggio. Non fa che ingombrarlo, ridisegnarlo, sbatterlo come un panno da cui vuol ricavare vestiti nuovi.
Per fortuna esistono ancora uomini che difendono il paesaggio non solo come un “bene” di natura, ma come testimonianza poetica della Storia. Perché, condizionato dall’uomo, il paesaggio è l’unica cornice che ci rimane di ciò che fummo e siamo. Il paesaggio è la nostra memoria palpabile, non un fondale, non un copione già recitato, non una quinta di teatro.
A furia d’essere assunto da noi, diventa noi, e noi ci rispecchiamo in lui assai più delle nostre carni invecchiate.
Pacifico e demoniaco, tormentato e sonnacchioso, figlio di grandi vuoti, di rocce immense, di colori mai fermi, di fuochi e di ghiacci, sotto cieli che si dilatano e lo mutano continuamente, il paesaggio italiano ha la sacralità che solo un barbaro, un imbecille non notano. Si disvela e nasconde mille volte, offre pecore e ville, corvi e torri, lapìdi e vulcani, erbe e polvere, solitudine e grumi di vitalità eccessiva, mercati e portici; sa di zolfo e di menta, ha la forma affaticata d’una mano contadina e il profilo d’un sapiente antico.
E’ questo paesaggio italiano ad incantare. Ancora ed ancora. Malgrado tutto. A dispetto di tutti.
Dal cespuglio può uscire la strega, dalla caverna può uscire un fauno, da un’acqua può risorgere Venere. Forse è invincibile anche se le brutture e gli sconvolgimenti dell’oggi lo assediano e disgregano da ogni parte. Vive persino nei brandelli delle tante civiltà che lo hanno attraversato e sono scomparse. Sta in una tomba e in un capitello, nella spuma di un’onda e in una grondaia felice di rondini. Non cede mai del tutto la sua anima, si vendica con l’ortica, l’erba che fuoriesce dai marciapiedi, il rudere che muta forma, il muro veneziano che s’insalina.
Bisogna leggere nel paesaggio: la vita delle pietre, la pelle leonina di certi campi laziali, la geometria così quieta delle vigne langarole, il brivido di un ruscello alpino, la fuga d’una biscia, l’accumularsi di tetti poveri, lo splendore dorato e cariato di cattedrali e fori e palazzi.
Pur sottoposto a mille minacce, il paesaggio restituisce all’uomo ciò che l’uomo fece di lui, quasi per ammonirlo e nello stesso tempo consolarlo di tante fatiche, morti, eccidi, stravolgimenti, illusioni architettoniche e rabbie esistenziali che coinvolsero gli animi e cambiarono le planimetrie.
Finché dura un paesaggio, durerà l’Italia. Ogni ulteriore laccio alla gola del paesaggio italiano cancellerebbe la penisola, tanto da relegarla in un atlante di bieca immaginazione e di funerei ricordi,
Non siamo soltanto figli di Idee, ma di luoghi, arbusti, pendii, vicoli, piazze, tufo, mattoni, granito, tronchi diventati architrave, cenere eruttata dal fuoco che ridiventa cenere, la stessa cenere che saremo, che fummo.
https://www.youtube.com/watch?v=Bt_OmzrMnEo
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Paesaggi del Molise
Il Molise, una piccola terra verde e sostenibile
di Barbara Serafini | postato in: Immagini dal Sannio | 0
In una piccola regione come questa, sono tante le riserve verdi e naturali. Boschi, giardini botanici, piccoli paradisi sotto al cielo. Potrei nominare l’Oasi del WWF di Guardiaregia – Campochiaro, la seconda più grande d’Italia, con i suoi 3135 ettari che proteggono dalla speculazione edilizia e dalla caccia. Un vero e proprio scrigno di biodiversità che dal 2010 è diventata Riserva Regionale. Ecco che tra canyon, cascate e grotte, che sono tra le più profonde d’Europa, troviamo una grande distesa di faggi, tipici della zona, tra i quali ve ne è addirittura uno di 500 anni, con una circonferenza del tronco che per poco non arriva ai 5 metri. Ci si può letteralmente perdere nella natura, a tu per tu con il fruscìo delle foglie, con l’aria salubre e incontaminata, con i passi felpati di animali in lontananza, con le emozioni di prati in fiore e di cascatelle d’acqua che saltano e schizzano.
La Riserva Naturale di Collemeluccio – Montedimezzo, situata nel cuore dell’Appennino molisano, è una vasta area composta da circa 300 ettari, una delle otto Riserve della Biosfera italiane. È caratterizzato da una grande presenza di alberi di cerro sotto i 900 metri e alberi di faggio sopra i 1.300 metri. Non solo: nel corso degli anni, infatti, la natura vegetativa si è arricchita con altre specie autoctone quali l’acero di Lobelius, l’acero montano, campestre e riccio, il carpino bianco, il frassino maggiore, il nocciolo, il sorbo degli uccellatori, il ciliegio, il pero e il melo selvatici, il prugnolo e diverse altre specie. Questa varietà vegetativa dà dimora a diverse specie di mammiferi: cinghiali, lepri, tassi, caprioli, martore, donnole, faine, volpi e scoiattoli, e il lupo che ha trovato in questo ecosistema un ambiente a lui congeniale.
L’Oasi di Casacalenda è una riserva della LIPU, un querceto collinare che anticamente ha ospitato l’accampamento di Annibale nella vicina Gerione. Fu inserita nel 1995 dal Ministero dell’Ambiente nell’Elenco nazionale delle aree naturali protette, ed è stata recentemente riconosciuta quale Zona Speciale di Conservazione per la Rete europea Natura 2000. Qui troviamo un bosco di cerro con agrifogli e biancospini, in cui non è difficile avvistare rapaci, ma anche lupi e gatti selvatici.
Non dimentichiamo certamente che parte del territorio molisano è compreso nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Ma ancora, potremmo perderci nella Riserva naturale del Torrente Callora, o nella Riserva naturale Orientata di Pesche. In pratica, l’8% del territorio è coperto da riserve naturali. Ricordiamo altresì i numerosi siti che appartengono alla Rete Natura 2000, sistema coordinato e coerente di aree destinate alla conservazione della diversità biologica presente nel territorio dell’Unione Europea. Essa ha lo scopo di garantire a tutti gli habitat e alle specie animali e vegetali, uno stato di conservazione favorevole, tramite una sufficiente rappresentazione di tutte le tipologie ambientali e un’elevata interconnessione ecologica fra i vari siti.
Una riserva davvero caratteristica la troviamo a Venafro, il Parco regionale agricolo storico dell’oliva venafrana, detto anche Oraziano o Campaglione. È un’area protetta, istituita nel 2004, che nasconde un’alta e svariata biodiversità naturalistica, data da uliveti e specie molto interessanti, in un habitat degno di invidia ed encomiabile all’occhio di un naturalista. Questa elevata biodiversità colturale, indice di eccellente valore naturalistico, trovava giustificazione nella maggior versatilità dell’uliveto agli agenti atmosferici, per cui si poteva avere un prodotto sempre costante in quantità, a seconda delle annate e della fruttificazione delle varie specie di ulivo. I terreni che ne affiorano sono prevalentemente di origine sedimentaria, con una vegetazione che varia dalle caducifoglie alle faggete. L’istituzione del Parco lo ha inserito nel Registro Nazionale dei Paesaggi rurali storici e intende promuovere e conservare l’olivicoltura tradizionale che a Venafro ebbe grandi fasti e antichi splendori, tanto che i Romani ritenevano l’olio della zona il più pregiato del mondo antico. Una grande occasione di riscatto per un territorio che negli ultimi anni non è sempre stato ben valorizzato, spesso lasciato all’incuria. L’agricoltura e gli uliveti di Venafro sono descritti fin dall’antichità da Marco Porcio Catone, che nel De Agricoltura suggerisce di applicare le tecniche agricole usate a Venafro, da Orazio, che descrive una “Venafro ammantata di olivi”.
Tutto il territorio regionale ospita circa 3 milioni di ulivi. Le varietà autoctone più presenti sono l’Aurina, conosciuta dai Romani col nome di Licinia, la Rossuola, da cui si produce un olio dolce e di colore piuttosto chiaro, l’Olivastro Dritto, l’Olivastro d’Aprile. La cultivar in assoluto più diffusa è la Gentile di Larino, ma molto ripica è anche l’Oliva San Pardo.
Castel del Giudice e le sue mele.
Un altro importante cultivar è quello delle mele. La produzione di questi frutti dolci e genuini mette una forte sottolineatura alla concezione di alimento biologico. Essi sono i frutti più autentici di un territorio dalle elevate qualità della vita, raccolti nelle zone boschive. Le mele vengono commercializzate e valorizzate ottenendo prodotti derivati dalle indiscutibili qualità. Il punto di forza dell’economia di alcuni borghi, come ad esempio Castel del Giudice, è proprio l’agricoltura biologica, la sostenibilità della produzione, il rispetto del territorio e di ogni sua componente. Un prodotto che riesce a valorizzare le qualità della zona intera dell’Alto Molise, rispettando l’ambiente, il paesaggio puro, valorizzandolo e riuscendo a conservarne integri aspetto e bellezza. La coltivazione delle mele coinvolge adulte e giovani generazioni, con un incremento della filiera produttiva e con la valorizzazione di essa, ponendo alto sostegno al reddito agricolo. Un prodotto biologico che rispetta pienamente il patrimonio ambientale, colturale e culturale, legato a un territorio con alte valenze paesaggistiche e ambientali.
Mare, montagna e turismo dell’acqua non sono da dimenticare. Anzi, sono certamente i punti cardine del turismo molisano. Il basso Molise ci offre un bellissimo affaccio sulla costiera adriatica, con qualche trabocco qua e là e un mare sempre più volte premiato per le qualità delle sue acque. Chi ama la montagna può certamente apprezzare la catena delle Mainarde e quella del Matese, separate dal corso del fiume Volturno, che lambisce borghi molto caratteristici, tra storia, abbazie e sogni. Qua e là qualche piccola oasi boschiva, il bellissimo lago di Castel San Vincenzo, paradisi naturali alla portata di tutti. A poca distanza in linea d’aria dalle principali stazioni sciistiche molisane troviamo, inoltre, diversi circhi glaciali matesini, con un’attività sicuramente precedente all’ultima glaciazione: uno di questi sfocia nella Valle Fondacone che è caratterizzato da un fascino unico, con la forra a strapiombo sul nevaio, e i suoi due Campanarielli, due guglie collegate fra loro da uno strettissimo valico: il Campanariello di Monte e il Campanariello di Valle, quest’ultimo più aereo e sottile. Si tratta di due formazioni naturali, che richiamano la forma di campane rocciose, dal carattere più alpino che appenninico. E proprio nel territorio dei Campanarielli, a Roccamandolfi, possiamo avere il primo assaggio di turismo dell’acqua, caratterizzato da un tesoro non indifferente in quanto a cascate. Angoli naturalistici spesso celati ai più; corsi d’acqua che scendono a picco, che si gettano in ruscelli, che danno vita a meravigliosi spettacoli agli occhi di chi li guarda, che creano percorsi onirici e invitanti.
E allora Santa Maria del Molise, Sant’Agapito e Longano, Carpinone, Capracotta, Agnone, San Vincenzo al Volturno… questi sono solo alcuni dei borghi che custodiscono tesori così preziosi. Per non parlare del percorso dei castelli molisani, o quello dei tratturi, che meritano certamente un capitolo a parte. Il Molise, insomma, va visitato e ogni angolo ci dimostra quanto la scelta di turismo verde che ricade sempre più spesso qui sia del tutto fondata.
SOSTARE DAVANTI A UN PAESAGGIO –
Uno scritto di Giovanni Arpino (1927-1987)
tratto dal volume “Paesaggio italiano” di Pepi Merisio – Silvana editoriale
“Cos’è “un” paesaggio? Dov’è il “vero” paesaggio? E gli uomini d’oggi sono ancora capaci di “amare un paesaggio, di “sostare davanti a un paesaggio”?
Gli interrogativi sono non soltanto leciti, ma obbligati. L’uomo corre e non guarda, fotografa (da dilettante) per memorizzare attimi e cose e angoli che non ha pazienza di vedere nel momento esatto. E così il paesaggio diventa subito un fantasma del passato.
Ma tutto il paesaggio italiano è il Passato.
Maiuscolo, sublime, non imitabile, singolare in ogni zolla, miracoloso e travagliatissimo, però Passato. Anche perché il presente – il nostro minuscolo presente – non fa che logorare questo Passato, abbattendolo, inquinandolo, distraendosene, lasciando morire sia i costumi di un tempo, sia le acque, sia i boschi.
L’Italia è terra antica, si dice, Ma non è vero. Geologicamente parlando – come ci spiegano gli studiosi – è una terra abbastanza giovane, anche se la mano dell’uomo ha domato, con ogni sorta di artifici, di innovazioni, abbandoni, ulcerazioni, il paesaggio della penisola.
Il nostro paesaggio è – in gran parte – una natura che non ha potuto vivere libera, sola, padrona di sé. Tecnicamente schiavo alla mano dell’uomo, ogni briciolo di terra italiana o si è inselvatichito o si è sottomesso a modificazioni centenarie. E così noi, popolo vecchio in terra giovane, abbiamo dato la stura ad invenzioni continue, a offese e trasformazioni, a bonifiche e ferite, badando poco alle “bellezze” del passato e abbracciandoci avidamente alla nostra “necessità”.
Non v’è più paesaggio che non risulti umanizzato, come gli animali delle favole, che sono costretti ad imitarci ma non saranno mai più se stessi e mai saranno noi.
Solo poche costole di terra, pochi anfratti inesplorati, e quasi brutali sono riusciti a resistere, a respingere o annullare la mano dell’uomo, i suoi attrezzi. E questi angoli noi rimiriamo ancora come reliquie del mondo che fu, che non possiamo più comprendere, giustificare, possedere, divorare.
Vi fu un tempo in cui ogni uomo visse in ogni paesaggio, mentre quest’ultimo, oggi, è costretto a vivere con l’uomo, soggiacere all’uomo, con rischi e pericoli che si moltiplicano sotto i nostri occhi, a velocità mostruosa.
Ciascuno di noi sa perfettamente che “perdere un paesaggio” (dal chiudere una finestra all’alzare un muro, a rubar acqua al mare, fino a distruggere un campanile, ad abbattere un albero centenario) significa perdita umana. Ma non resistiamo alle tentazioni di stupro che continuamente ci spingono a violentare monti e fiumi, viali alberati e pianure, ruscelli e montagne, boschi e vallate. Anche le antiche pietre di uomini che passarono la vita ad erigere una cattedrale, ad alzare mura fortificate – che nei secoli sono diventate paesaggio -– ci temono. Perché l’uomo, filosoficamente nemico di se stesso, “feritore di se stesso”, nella sua fuga in avanti non rispetta nulla. Fa e cambia, smonta e rifà, distrugge e ricomincia. E’ un cannibale di civiltà, e quindi di paesaggi.
Vi furono forse albe e tramonti che videro i paesaggi ”fuggitivi” come gli occhi della fanciulla leopardiana. Oggi è arduo ricercarli, guardarli con pupille limpide, accostarsi con purezza di cuore.
Paesaggio italico: una delizia, un giardino, un sogno incastonato in altri mille sogni.
Un labirinto di immagini ora conseguenti ora contraddittorie. Una “verità” terrestre che le mani dell’uomo hanno rispettato qua e là, solo per caso. Una coloritura profonda e poi stagionale, storica e poi deserta, pensata e poi giocata dal caso. Per chi osserva l’Italia da un aereo (ma un aliante è ancor meglio: sfiora il silenzio che il paesaggio ha come anima), la penisola è veramente un dito d’Iddio. Persino dove mostra ogni sorta di rappezzi, di francobollature arate, di microcosmi avviticchiati, quel dito d’Iddio ha un significato, un arcano, una bellezza che si vorrebbe intoccabile.
Ma milioni di passi, di strumenti, di viottoli, di slavine, di terremoti, di lave, di marosi, di lavori hanno nei secoli truccato la fisionomia originaria del paesaggio peninsulare: facendo nascere nuovi scorci, dando all’occhio umano la possibilità di vedere diversamente una montagna, un declivio, un golfo, una palude.
Forse l’uomo è, dovrebbe essere il suo paesaggio. O forse il paesaggio è l’animale più obbediente all’uomo. Il quale uomo non ha mai desistito dal raccontarlo: su atlanti, mappe, carte, in romanzi e commedie e versi, su dipinti, stoffe, “murales”. Il paesaggio, vero o sognato, autentico o immaginario, ha sovranamente, mollemente ceduto all’uomo tutte le sue suggestioni segrete. Perché l’uomo esploratore, l’uomo distruggitore, l’uomo costruttore ha in ogni età raccolto il paesaggio intorno a sé, alla propria casa, impadronendosene e modificandolo.
Ed è sempre lo stesso uomo che di fronte ad un tramonto sospira, da puro idiota: bello come se fosse dipinto; mentre quando esamina una tela sostiene: bella come se fosse vera.
Il paesaggio non sa di essere. Sta. L’uomo lo scopre, lo deturpa, lo esalta, lo cambia a suo uso e consumo, talvolta lo rispetta solo per distrazione cosmica. La nostra penisola ne sa qualcosa.
Non vi è praticamente zolla che non sia stata voltata e rivoltata, non vi è angolo che non abbia conosciuto emigrazioni di genti, eccidi, travagli, non vi è spigolo che non sia servito o come muro o come trincea o come feritoia o come tomba o come altare.
Forse l’uomo è diventato troppo vecchio per quello che potrebbe essere ancora un “suo” paesaggio. Non fa che ingombrarlo, ridisegnarlo, sbatterlo come un panno da cui vuol ricavare vestiti nuovi.
Per fortuna esistono ancora uomini che difendono il paesaggio non solo come un “bene” di natura, ma come testimonianza poetica della Storia. Perché, condizionato dall’uomo, il paesaggio è l’unica cornice che ci rimane di ciò che fummo e siamo. Il paesaggio è la nostra memoria palpabile, non un fondale, non un copione già recitato, non una quinta di teatro.
A furia d’essere assunto da noi, diventa noi, e noi ci rispecchiamo in lui assai più delle nostre carni invecchiate.
Pacifico e demoniaco, tormentato e sonnacchioso, figlio di grandi vuoti, di rocce immense, di colori mai fermi, di fuochi e di ghiacci, sotto cieli che si dilatano e lo mutano continuamente, il paesaggio italiano ha la sacralità che solo un barbaro, un imbecille non notano. Si disvela e nasconde mille volte, offre pecore e ville, corvi e torri, lapìdi e vulcani, erbe e polvere, solitudine e grumi di vitalità eccessiva, mercati e portici; sa di zolfo e di menta, ha la forma affaticata d’una mano contadina e il profilo d’un sapiente antico.
E’ questo paesaggio italiano ad incantare. Ancora ed ancora. Malgrado tutto. A dispetto di tutti.
Dal cespuglio può uscire la strega, dalla caverna può uscire un fauno, da un’acqua può risorgere Venere. Forse è invincibile anche se le brutture e gli sconvolgimenti dell’oggi lo assediano e disgregano da ogni parte. Vive persino nei brandelli delle tante civiltà che lo hanno attraversato e sono scomparse. Sta in una tomba e in un capitello, nella spuma di un’onda e in una grondaia felice di rondini. Non cede mai del tutto la sua anima, si vendica con l’ortica, l’erba che fuoriesce dai marciapiedi, il rudere che muta forma, il muro veneziano che s’insalina.
Bisogna leggere nel paesaggio: la vita delle pietre, la pelle leonina di certi campi laziali, la geometria così quieta delle vigne langarole, il brivido di un ruscello alpino, la fuga d’una biscia, l’accumularsi di tetti poveri, lo splendore dorato e cariato di cattedrali e fori e palazzi.
Pur sottoposto a mille minacce, il paesaggio restituisce all’uomo ciò che l’uomo fece di lui, quasi per ammonirlo e nello stesso tempo consolarlo di tante fatiche, morti, eccidi, stravolgimenti, illusioni architettoniche e rabbie esistenziali che coinvolsero gli animi e cambiarono le planimetrie.
Finché dura un paesaggio, durerà l’Italia. Ogni ulteriore laccio alla gola del paesaggio italiano cancellerebbe la penisola, tanto da relegarla in un atlante di bieca immaginazione e di funerei ricordi,
Non siamo soltanto figli di Idee, ma di luoghi, arbusti, pendii, vicoli, piazze, tufo, mattoni, granito, tronchi diventati architrave, cenere eruttata dal fuoco che ridiventa cenere, la stessa cenere che saremo, che fummo.