Luciano De Bonis Università del Molise, Dipartimento di Bioscienze e Territorio
I risultati di ricerca conseguiti dalla cosiddetta ‘Scuola Territorialista’ nel campo delle ‘aree fragili’ mostrano chiaramente come tale fragilità sia riconducibile essenzialmente a un’estrema riduzione delle dinamiche di interazione coevolutiva, e ri-produttiva di territori e paesaggi, tra comunità umane e ambiente.
♦ Processi di riterritorializzazione dell’area appenninica
Abstract
I risultati di ricerca conseguiti dalla cosiddetta ‘Scuola Territorialista’ nel campo delle ‘aree fragili’ mostrano chiaramente come tale fragilità sia riconducibile essenzialmente a un’estrema riduzione delle dinamiche di interazione coevolutiva, e ri-produttiva di territori e paesaggi, tra comunità umane e ambiente. Allo scopo di verificare ed evidenziare le potenzialità di riattivazione di tali dinamiche, in particolare nell’area appenninica, si confrontano diversi casi/esperienze, tratti principalmente dall’Osservatorio della Società dei Territorialisti (SdT) e discussi in base ad alcuni criteri ritenuti rivelatori non solo delle suddette potenzialità ma anche delle loro valenze innovative e/o retroinnovative. Dai risultati ottenuti si conclude che significativi embrioni di processi di riterritorializzazione della montagna appenninica sono effettivamente in corso, ma affinché essi si consolidino è soprattutto necessario in questo momento un profondo ripensamento del territorio e del paesaggio come ‘beni collettivi’, anche alla luce delle tradizioni locali di assetto fondiario collettivo.
1. Introduzione
In senso ecologico, un sistema si definisce ‘fragile’ quando mostra scarsa ‘resilienza’, ovverosia notevole difficoltà a riacquistare, dopo una perturbazione, uno stato di equilibrio dinamico. La questione ritenuta qui più rilevante non riguarda tuttavia gli aspetti strettamente ed esclusivamente ecologici della fragilità/resilienza prevalentemente considerati oggi (ad esempio il cambiamento climatico), bensì i rapporti tra le comunità umane, altre comunità biotiche e habitat, che storicamente hanno prodotto territori e paesaggi. I risultati ottenuti in questo campo di ricerca dalla cosiddetta ‘scuola territorialista’ mostrano chiaramente che la suddetta fragilità, o scarsa resilienza, è attribuibile principalmente a una riduzione estrema delle dinamiche di produzione e riproduzione di territori e paesaggi per via di interazione tra comunità umane e ambiente (per l’area appenninica v. in part. Giacchè, 2019). Dalla ricerca territorialista nel campo delle aree fragili (De Bonis&Giovagnoli, 2019) e montane (Corrado&Dematteis, 2016) emerge inoltre un aspetto specifico di questa impasse nella riproduzione dei territori/paesaggi: nelle pratiche e negli studi che sottolineano fortemente le esigenze di tutela del patrimonio culturale (paesaggio quindi incluso), il turismo, o meglio le forme considerate più avanzate di turismo (culturale, esperienziale, ecc.), sono identificate come le uniche attività economiche in grado di garantirne la conservazione. Si manifesta in altre parole in tali pratiche e studi una sorta di paradosso logico, secondo il quale per preservare i territori e i paesaggi storicamente generati dall’interazione tra uomo e ambiente è necessario interrompere la stessa interazione - e quindi anche la possibilità di produzione di territori/paesaggi - o almeno ridurla ad una singola attività economica, il turismo, in forme peraltro puramente ‘contemplative’ (non riproduttive).
2. Obiettivi
Per contribuire a superare la suddetta impasse la ricerca qui descritta mira a identificare, in particolare nell’area appenninica, esperienze di usi sostenibili delle risorse territoriali in grado di generare efficaci catene produttive e riproduttive di territori e paesaggi. Il quadro concettuale necessario a questo fine può essere fondamentalmente tratto dall’ibridazione del pensiero territorialista, in particolare dal concetto di ‘patrimonio territoriale’, con i concetti di ‘patrimonio culturale’ e di ‘comunità di patrimonio’ forniti dalla Convenzione di Faro. O meglio, ritengo che il framework concettuale più adatto per le attività di ricerca qui discusse possa essere ottenuto reinterpretando in chiave territorialista i capisaldi della Convenzione di Faro. Secondo quest’ultima, infatti:
i) il patrimonio culturale è «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi»;
ii) una comunità di patrimonio «è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» 1. Nel campo degli studi territorialisti, il ‘patrimonio territoriale’ (Magnaghi, 1998) è concepito come un patrimonio generato da lunghi processi coevolutivi tra l’uomo e l’ambiente, come interamente prodotto dall’azione umana (ambiente dell’uomo) e come risultato di un’intima integrazione di patrimonio naturale e patrimonio culturale. Esso non consiste quindi solo nella frazione particolarmente rilevante delle risorse che lo compongono, ed integra anche l’ambiente socio-culturale, il milieu, la conoscenza produttiva, le arti, ecc. Ne consegue che le ‘comunità di patrimonio territoriale’ potrebbero essere interpretate, in questo senso, come «insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici, multipli e integrati del patrimonio territoriale, riproducendolo attraverso l’interazione coevolutiva, nel quadro di un’azione collettiva»
3. Metodologia
L’approccio metodologico adottato per conseguire il suddetto obiettivo è di tipo abduttivo, ovverosia consiste nell’accostamento di diversi casi/esperienze per far emergere da essi le potenzialità di (ri)attivazione delle interazioni produttive e riproduttive di territorio e paesaggio, legate alle specificità dei diversi contesti locali.
A tal fine sono stati considerati alcuni casi di studio appenninici tratti dall’‘Osservatorio delle buone pratiche’ della ‘Società dei/delle “Territorialisti/e’ (SdT)3. La selezione e il confronto dei casi dell’Osservatorio SdT è stato effettuato sulla base dei seguenti criteri:
i) grado di integrazione delle attività turistiche in un più ampio complesso di attività di interazione produttiva con le risorse territoriali locali;
ii) grado di innovazione (o retroinnovazione) delle esperienze, con particolare riferimento alle questioni di sostenibilità ambientale;
iii) grado (e forme) di autonomia, autogoverno e auto-organizzazione dei processi di riterritorializzazione.
Non si illustrano qui per esteso i criteri suddetti, preferendo trattarli contestualmente alla discussione delle esperienze (v. sotto).
4. Risultati
I casi appenninici considerati sono i seguenti: (i) Ecomuseo del Casentino4; (ii) Briganti del Cerreto5; (iii) Campi aperti del Gran Sasso6. Di seguito è riportata una sintesi, tratta dalle schede dell’Osservatorio SdT, delle principali caratteristiche delle esperienze selezionate.
4.1 Ecomuseo del Casentino
L’Ecomuseo del Casentino, promosso dalla Comunità Montana del Casentino (oggi Unione dei Comuni Montani del Casentino), si trova nella prima Valle dell’Arno, nella Provincia di Arezzo (Toscana). L’iniziativa è nata alla fine degli anni ’90 ad opera della Comunità Montana, a valere su fondi UE (LEADER 2 e LEADER PLUS) e con il coinvolgimento diretto di alcuni Comuni7. Oltre ai Comuni, l’Ecomuseo coinvolge numerosi altri attori (associazioni e privati) che, singolarmente o in gruppi, hanno dato origine a 14 cosiddette “antenne sparse sul territorio” (musei, ecomusei, collezioni, centri di documentazione, castelli, negozi di artigianato). I rappresentanti di tutti gli attori (amministrazioni, associazioni e privati) formano un comitato consultivo, che ha il compito di discutere e approvare le linee generali di gestione e sviluppo dell’Ecomuseo. Secondo A. Rossi8: i) la dimensione più autentica dell’Ecomuseo sta proprio nel rapporto tra diversi livelli e interessi, nell’essere in grado di mettere in relazione temi e attori che altrimenti probabilmente non si collegherebbero tra di loro; ii) il ‘processo dell’Ecomuseo’ si concentra sul lavoro con le comunità locali, sia stimolando e rinnovando il senso di appartenenza degli abitanti (attraverso un’opera di interpretazione e valorizzazione del patrimonio territoriale) sia facilitando iniziative autocentrate di sviluppo economico. Come ad esempio la creazione, all'interno di alcune realtà ecomuseali, di associazioni finalizzate alla valorizzazione delle produzioni locali, evolute poi in veri e propri consorzi di produttori. È il caso del Consorzio della Patata Rossa di Cetica’ e del ‘Consorzio delle Farina di Castagne’, nonché di iniziative analoghe nel campo dell’artigianato di qualità (ferro, pietra, tessuto). Tutti segnali significativi di un più ampio e complesso processo di (ri)creazione di nuove microeconomie legate a colture di qualità realizzate da nuove figure di ‘agricoltori-custodi’, imprenditori consapevoli, spesso provenienti da fuori, sensibili e rispettosi delle iniziative di conoscenza e recupero della cultura locale.
4.2 Briganti del Cerreto
‘Briganti del Cerreto’10 è una ‘cooperativa di comunità’ che si occupa della costruzione di una microeconomia locale che combini un turismo responsabile (turismo rurale, agriturismo, turismo comunitario, turismo scolastico, coordinamento e gestione di iniziative di recupero di case abbandonate e di utilizzo di seconde case per scopi di ospitalità turistica) con una serie di azioni volte alla manutenzione, conservazione e valorizzazione del territorio, come la silvicoltura, la cura del verde, i servizi di controllo e monitoraggio ambientale, l’agricoltura biologica e l’allevamento, la commercializzazione di prodotti locali, i corsi sulle caratteristiche dell’ambiente locale (agricolo, forestale, naturalistico, storico e culturale), il rilancio di vecchi mestieri e tradizioni (ad esempio la raccolta di castagne e la produzione di farina rossa, tipica della zona, e di pecorino), il recupero delle antiche feste (Transumanza, Festa del Mulino, Notte Oscura, Festa dei Borghi del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano)11. I 16 membri della cooperativa di comunità ‘Briganti del Cerreto’ hanno sottoscritto un micro patto con l’ex Comune di Collagna, la Comunità Montana dell’Appennino Reggiano, la Provincia di Reggio Emilia, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, la società municipale Enìa (ora incorporata in Iren), più tutti gli altri attori interessati al turismo comunitario, vale a dire il Circolo Ricreativo di Cerreto Alpi, la parrocchia, la cooperativa ‘La Sorgente’ e il consorzio ‘Sentieri Aperti’ , l’azienda agricola Tronconi, i ‘Giardini’ dell’Acqua’ di Collagna, l’albergo ‘da Gian’, la società ‘La Ducale’, il Club di prodotto ‘Il Gigante del Parco’, l’Unione Regionale Cacciatori dell’Appennino. Il micro-patto è uno strumento di concertazione che formalizza la collaborazione tra gli attori di cui sopra, destinato ad evolversi verso la creazione di un’unica entità associativa o consorzio, finalizzata alla valorizzazione complessiva del territorio e delle sue risorse paesaggistiche, culturali, sociali e ambientali, al fine di combattere il processo di spopolamento e degrado della montagna causato dell’abbandono di terreni agricoli e dei pascoli12.
4.3 Gran Sasso: un’agricoltura per la permanenza del paesaggio dei campi aperti
Il paesaggio agrario a campo aperto13 persiste, in diverse forme, in tutto l’Appennino centrale, inclusa la Baronia di Carapelle in Abruzzo, sul lato sud-orientale del Monte Gran Sasso. La Baronia ha un’altitudine che va dagli 800 ai 2400 metri e una superficie di 220 km2 . Comprende i Comuni di Barisciano, Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Castel del Monte, Castelvecchio Calvisio, Carapelle Calvisio, tutti in provincia dell’Aquila, e conta oggi 2.769 abitanti14. Gran parte del territorio della Baronia fa parte del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga15. Attualmente è soprattutto l’azione dell’Ente Parco che incoraggia la permanenza di una pratica agronomica16 che, sebbene ormai molto debole, è ancora in grado di generare qualità paesaggistica, ricostruendo relazioni cognitive, culturali e produttive tra gli abitanti e il patrimonio territoriale17. I principali progetti dell’Ente Parco che interessano e sostengono la permanenza e la riproduzione del paesaggio dei campi aperti nella Baronia di Carapelle sono descritti brevemente di seguito.
La Rete degli agricoltori custodi del Parco18
Si tratta di una rete aperta a tutti coloro che sono interessati a recuperare, preservare e riprodurre antiche cultivar e che ogni anno, l’11 novembre, in occasione della Festa di San Martino, si incontrano per partecipare a ‘SeminLibertà’, un evento promosso dal Parco per favorire la conoscenza e la condivisione di informazioni ed esperienze, ma anche per promuovere la possibilità di scambio reciproco di varietà colturali.
Le antiche varietà colturali: la patata turchesa19
Dal 2003 l’Ente Parco ha lavorato per reintrodurre questa antica varietà di tuberi (presidio Slow Food), al fine di limitarne il rischio di estinzione totale, dando anche impulso alla creazione di una “Associazione Produttori della Patata Turchesa del Parco”20 tra coltivatori, venditori e ristoratori.
Marchio del Parco21
Tramite il regolamento per l’utilizzo del nome e del logo del Parco per i prodotti agroalimentari, l’Ente Parco ha attivato un sistema di valorizzazione dei prodotti agroalimentari di qualità, coinvolgendo le aziende che operano all’interno dell’area protetta. L’uso del nome e del logo del Parco è concesso a quei prodotti che soddisfano determinati requisiti specifici, come l’uso esclusivo di materie prime del territorio, ma anche requisiti di miglioramento della sostenibilità ambientale, come il risparmio idrico o la conservazione della biodiversità. Tra i prodotti della Baronia marchiati con il Logo del Parco ci sono il “Canestrato di Castel del Monte”, i cui produttori sono anche riuniti nel “Consorzio del Canestrato di Castel del Monte”22, la “Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio”, la farina di farro e di grano di Solina23, la Farina di Grano Rosciola, il formaggio Marcetto, il “Caciocavallo abruzzese”, la “Patata turchesa”, lo yogurt Yu Yo, i ceci, le cicerchie, l’orzo, il miele millefiori, di lupinella e di castagno, il polline di millefiori, la propoli.
Progetto Pecunia24
Con questo progetto l’Ente Parco ha inteso affrontare la questione del valore della lana prodotta nell’area protetta, ritenuto superiore al prezzo di vendita normalmente spuntato dagli allevatori. Partendo dal presupposto che il prezzo fosse elevabile solo attraverso un processo di miglioramento della qualità della materia prima l’Ente ha lanciato nel 2010 il progetto, che ha coinvolto direttamente un gran numero di allevatori, ora riuniti nell’“Associazione Pecunia per la valorizzazione della Lana”.
5. Discussione e conclusioni
Con riferimento ai criteri di selezione e di confronto (v. par. 3) dei casi presi in considerazione, si può affermare che tutte le esperienze mostrano che sono in corso processi embrionali ma significativi di riterritorializzazione della montagna appenninica, non basati esclusivamente su forme monofunzionali di utilizzo turistico. In tutti i casi considerati le attività turistiche, presenti in misura maggiore o minore, sono infatti integrate, più o meno organicamente, in catene di produzione che si basano in gran parte sulla riproduzione ‘attiva’ di componenti significative del patrimonio territoriale locale (cfr. par. 2).
In tal senso le esperienze mostrano anche un apprezzabile grado di (retro)innovatività, dato dalla forte tensione a coniugare la conservazione e la creazione di territorio/paesaggio, se non altro nei modi di utilizzo e trasformazione intrinsecamente conservativi, proprio perché riproduttivi.
Infine, per quanto riguarda il rapporto tra processi di riterritorializzazione e pratiche di autonomia, autogoverno e auto-organizzazione essenziali per favorirne e sostenerne lo sviluppo, le esperienze considerate rappresentano un’interessante casistica delle potenziali ‘comunità di patrimonio territoriale’ che, reinterpretando e parafrasando in chiave territorialista la Convenzione di Faro, ho proposto qui di identificare con “insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici, multipli e integrati del patrimonio territoriale, riproducendolo attraverso l’interazione co-evolutiva, nel quadro di un’azione collettiva” (cfr. par. 2). Mentre la tendenza alla riproduzione co-evolutiva degli aspetti multipli e integrati del patrimonio territoriale è evidentemente comune a tutti i tre casi di studio, è tuttavia altrettanto chiaro che le forme di azione collettive sono sensibilmente differenti.
Nel caso dell’‘Ecomuseo del Casentino’ (4.1), infatti, l’azione collettiva è innescata da un’autorità pubblica territoriale (Comunità Montana) che, insieme ad altre autorità pubbliche territoriali (Comuni), coinvolge immediatamente una serie di altri soggetti privati, dando così vita a un’entità non economica indipendente (l’Ecomuseo), dalla quale a sua volta promanano ulteriori forme di aggregazione, come le diverse associazioni che tendono ad evolversi in consorzi di produttori.
Nel caso dei “Briganti del Cerreto” (4.2) è la Commissione che gestisce l’uso civico ancora esistente a Cerreto Alpi, un’antica comunità di pastori transumanti, a dare origine, d’impulso dei pochi giovani rimasti nel posto, al processo di costituzione, da parte degli stessi giovani, di una cooperativa di comunità composta da 16 membri fondatori (di cui ben 8 degli 80 abitanti totali del villaggio)25; ed è la stessa cooperativa che stipula, con tutti gli attori interessati al turismo comunitario, un micro-patto destinato ad evolversi verso la creazione di un’entità associativa o consortile unica, simile in questo senso, ma non coincidente, col soggetto autonomo ‘Ecomuseo del Casentino’.
Ancora diverso è il caso della Baronia di Carapelle (4.3) dove, in un contesto locale la cui struttura fisica riflette ancora tangibilmente forme di uso collettivo del suolo, non si innesca alcun processo associativo di costituzione di un unico soggetto ‘formalizzato’, né le autorità pubbliche locali partecipano direttamente alle iniziative di riterritorializzazione, ma viceversa un’entità sì pubblica, ma autonoma e sovralocale come l’Ente Parco Nazionale, avvia e sostiene un’azione ‘reticolarizzante’ tra soggetti locali, anche promuovendo la nascita di una pluralità di forme associative tra di essi (consorzi di produttori).
La conclusione generale che si può trarre riguarda più i possibili sviluppi di questa ricerca che non i risultati già acquisiti. Infatti, oltre ad un ulteriore sviluppo dei concetti di patrimonio territoriale e di comunità di patrimonio territoriale in grado di andare definitivamente oltre le ormai obsolete nozioni di patrimonio naturale e culturale come entità dualisticamente separate, ciò che appare necessario a questo punto è soprattutto un profondo ripensamento di territorio e paesaggio come commons (Magnaghi, 2015). Alla luce non solo delle fondamentali acquisizioni nel campo di E. Ostrom (1990), ma anche delle esperienze storiche, incluse quelle appenniniche, di proprietà collettiva e di uso civico; da considerarsi come “un altro modo di possedere” (Grossi, 2017) che attraversa tutta la storia delle interazioni coevolutive tra uomo e ambiente e che è essenziale aggiornare e declinare in forme (retro)innovative, al fine di prefigurare processi di riterritorializzazione realmente autoorganizzati e come tali fecondamente (ri)produttivi di territori e paesaggi ‘viventi’.
6. Riferimenti
Corrado, F., Dematteis, G. (a cura di, 2016) ‘Riabitare la montagna’, Scienze del Territorio, 4. De Bonis, L., Giovagnoli, M. (a cura di, 2019) ‘Territori fragili. Comunità, patrimonio, progetto’, Scienze del Territorio,
1 https://tinyurl.com/y5vcd82z
2 De Bonis L., La ri-produzione dei patrimoni territoriali come forma di prevenzione dei rischi, presentazione al convegno “Le decisioni amministrative tra prevenzione dei rischi e gestione delle emergenze”, Università del Molise, Campobasso, 20 novembre 2019.
3 https://tinyurl.com/y25opkpk
4 Rossi A., Ecomuseo del Casentino, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/rnu83ap).
5 Rispoli F., Briganti del Cerreto, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/wdprvxu).
Ciccozzi E., Gran Sasso: un’agricoltura per la permanenza del paesaggio a campi aperti, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/vdfqfz8).
7 Rossi A., cit.
8 Ivi.
9 Ivi.
10 Cerreto Alpi, antica comunità di pastori transumanti, è il borgo più antico dell’ex Comune di Collagna (Provincia di Reggio Emilia, Regione Emilia-Romagna). Il borgo, situato nel cuore dell’Appennino reggino alla confluenza tra il Canale di Cerretano e il Fiume Secchia, aveva circa 1.000 abitanti all’inizio del secolo scorso, mentre attualmente registra solo 80 residenti (Rispoli F., cit.).
11 Rispoli F., cit.
12 Ivi.
13 Vale la pena ricordare che il campo aperto (open-field) era il sistema agrario prevalente in gran parte dell’Europa fino a quando il processo di recinzione delle terre comuni (enclosures), iniziato nel XIII secolo in Inghilterra, cominciò ad essere una caratteristica diffusa del paesaggio agricolo inglese durante il XVI secolo, portando alla fine del XVIII secolo all’accumulazione concentrata di capitale e alla diffusione massiva della disoccupazione che costituirono le premesse della rivoluzione industriale.
14 2659 nel 2019.
15 Ciccozzi E., cit.
16 Evidentemente legata a forme di uso civico (o collettivo) del territorio
17 Ivi.
18 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=88
19 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=291
20 http://www.gransassolagapark.it/associazione-produttori-patata-turchesa.php
21 http://www.gransassolagapark.it/marchio-parco-prodotti.php
22 http://www.gransassolagapark.it/consorzio-produttori-canestrato-castel-del-monte.php
23 La farina di farro e di grano di Solina sono oggetto del progetto “Antiche varietà colturali: i cerali minori”, realizzato dall’Ente Parco in collaborazione con l’Università di Teramo e finalizzato allo studio di tale peculiare patrimonio agricolo dell'area protetta (http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=89).
24 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=105. Il nome del progetto sfrutta l’ambiguità linguistica del termine arcaico italiano ‘pecunia’, derivato dal termine latino pecus (bestiame), utilizzato ormai per designare il denaro con riferimento all’antica consuetudine di effettuare pagamenti in natura (precisamente in bestiame), e ha inoltre la stessa radice della parola ‘pecora’.
25 Rispoli F., cit.
Giacchè, L. (2019) ‘Ripensare il terremoto’, Scienze del Territorio, 7, 33-42.
Grossi, P. (2017): Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria. Milano, Giuffrè (ed. or. 1977).
Ostrom, E. (1990): Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge (MA), Cambridge University Press, trad.it. Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006.
Magnaghi, A. (1998) ‘Il patrimonio territoriale: un codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile’, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio degli abitanti: società locali e autosostenibilità, Dunod, Milano.
Magnaghi, A. (2015) ‘Mettere in comune il patrimonio territoriale: dalla partecipazione all’autogoverno’, Glocale, 9-10, 139-157
Luciano De Bonis, Phd
Tecnica e pianificazione urbanistica / Urban and Regional Planning
Dipartimento di Bioscienze e Territorio dell'Università del Molise / Dept. of Biosciences and Territory, University of Molise
Corsi di Studio in Ingegneria Civile / Study Programmes in Civil Engineering
Presidente dei Corsi di Studio in Scienze turistiche e Beni culturali / President of the Study Programmes in Tourism Sciences and Cultural Heritage
Coordinatore del Master di II livello in "Progettazione e promozione del paesaggio culturale" / Coordinator of the third-cycle Master Course in "Planning and Promotion of Cultural Landscape"
I risultati di ricerca conseguiti dalla cosiddetta ‘Scuola Territorialista’ nel campo delle ‘aree fragili’ mostrano chiaramente come tale fragilità sia riconducibile essenzialmente a un’estrema riduzione delle dinamiche di interazione coevolutiva, e ri-produttiva di territori e paesaggi, tra comunità umane e ambiente.
♦ Processi di riterritorializzazione dell’area appenninica
Abstract
I risultati di ricerca conseguiti dalla cosiddetta ‘Scuola Territorialista’ nel campo delle ‘aree fragili’ mostrano chiaramente come tale fragilità sia riconducibile essenzialmente a un’estrema riduzione delle dinamiche di interazione coevolutiva, e ri-produttiva di territori e paesaggi, tra comunità umane e ambiente. Allo scopo di verificare ed evidenziare le potenzialità di riattivazione di tali dinamiche, in particolare nell’area appenninica, si confrontano diversi casi/esperienze, tratti principalmente dall’Osservatorio della Società dei Territorialisti (SdT) e discussi in base ad alcuni criteri ritenuti rivelatori non solo delle suddette potenzialità ma anche delle loro valenze innovative e/o retroinnovative. Dai risultati ottenuti si conclude che significativi embrioni di processi di riterritorializzazione della montagna appenninica sono effettivamente in corso, ma affinché essi si consolidino è soprattutto necessario in questo momento un profondo ripensamento del territorio e del paesaggio come ‘beni collettivi’, anche alla luce delle tradizioni locali di assetto fondiario collettivo.
1. Introduzione
In senso ecologico, un sistema si definisce ‘fragile’ quando mostra scarsa ‘resilienza’, ovverosia notevole difficoltà a riacquistare, dopo una perturbazione, uno stato di equilibrio dinamico. La questione ritenuta qui più rilevante non riguarda tuttavia gli aspetti strettamente ed esclusivamente ecologici della fragilità/resilienza prevalentemente considerati oggi (ad esempio il cambiamento climatico), bensì i rapporti tra le comunità umane, altre comunità biotiche e habitat, che storicamente hanno prodotto territori e paesaggi. I risultati ottenuti in questo campo di ricerca dalla cosiddetta ‘scuola territorialista’ mostrano chiaramente che la suddetta fragilità, o scarsa resilienza, è attribuibile principalmente a una riduzione estrema delle dinamiche di produzione e riproduzione di territori e paesaggi per via di interazione tra comunità umane e ambiente (per l’area appenninica v. in part. Giacchè, 2019). Dalla ricerca territorialista nel campo delle aree fragili (De Bonis&Giovagnoli, 2019) e montane (Corrado&Dematteis, 2016) emerge inoltre un aspetto specifico di questa impasse nella riproduzione dei territori/paesaggi: nelle pratiche e negli studi che sottolineano fortemente le esigenze di tutela del patrimonio culturale (paesaggio quindi incluso), il turismo, o meglio le forme considerate più avanzate di turismo (culturale, esperienziale, ecc.), sono identificate come le uniche attività economiche in grado di garantirne la conservazione. Si manifesta in altre parole in tali pratiche e studi una sorta di paradosso logico, secondo il quale per preservare i territori e i paesaggi storicamente generati dall’interazione tra uomo e ambiente è necessario interrompere la stessa interazione - e quindi anche la possibilità di produzione di territori/paesaggi - o almeno ridurla ad una singola attività economica, il turismo, in forme peraltro puramente ‘contemplative’ (non riproduttive).
2. Obiettivi
Per contribuire a superare la suddetta impasse la ricerca qui descritta mira a identificare, in particolare nell’area appenninica, esperienze di usi sostenibili delle risorse territoriali in grado di generare efficaci catene produttive e riproduttive di territori e paesaggi. Il quadro concettuale necessario a questo fine può essere fondamentalmente tratto dall’ibridazione del pensiero territorialista, in particolare dal concetto di ‘patrimonio territoriale’, con i concetti di ‘patrimonio culturale’ e di ‘comunità di patrimonio’ forniti dalla Convenzione di Faro. O meglio, ritengo che il framework concettuale più adatto per le attività di ricerca qui discusse possa essere ottenuto reinterpretando in chiave territorialista i capisaldi della Convenzione di Faro. Secondo quest’ultima, infatti:
i) il patrimonio culturale è «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi»;
ii) una comunità di patrimonio «è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» 1. Nel campo degli studi territorialisti, il ‘patrimonio territoriale’ (Magnaghi, 1998) è concepito come un patrimonio generato da lunghi processi coevolutivi tra l’uomo e l’ambiente, come interamente prodotto dall’azione umana (ambiente dell’uomo) e come risultato di un’intima integrazione di patrimonio naturale e patrimonio culturale. Esso non consiste quindi solo nella frazione particolarmente rilevante delle risorse che lo compongono, ed integra anche l’ambiente socio-culturale, il milieu, la conoscenza produttiva, le arti, ecc. Ne consegue che le ‘comunità di patrimonio territoriale’ potrebbero essere interpretate, in questo senso, come «insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici, multipli e integrati del patrimonio territoriale, riproducendolo attraverso l’interazione coevolutiva, nel quadro di un’azione collettiva»
3. Metodologia
L’approccio metodologico adottato per conseguire il suddetto obiettivo è di tipo abduttivo, ovverosia consiste nell’accostamento di diversi casi/esperienze per far emergere da essi le potenzialità di (ri)attivazione delle interazioni produttive e riproduttive di territorio e paesaggio, legate alle specificità dei diversi contesti locali.
A tal fine sono stati considerati alcuni casi di studio appenninici tratti dall’‘Osservatorio delle buone pratiche’ della ‘Società dei/delle “Territorialisti/e’ (SdT)3. La selezione e il confronto dei casi dell’Osservatorio SdT è stato effettuato sulla base dei seguenti criteri:
i) grado di integrazione delle attività turistiche in un più ampio complesso di attività di interazione produttiva con le risorse territoriali locali;
ii) grado di innovazione (o retroinnovazione) delle esperienze, con particolare riferimento alle questioni di sostenibilità ambientale;
iii) grado (e forme) di autonomia, autogoverno e auto-organizzazione dei processi di riterritorializzazione.
Non si illustrano qui per esteso i criteri suddetti, preferendo trattarli contestualmente alla discussione delle esperienze (v. sotto).
4. Risultati
I casi appenninici considerati sono i seguenti: (i) Ecomuseo del Casentino4; (ii) Briganti del Cerreto5; (iii) Campi aperti del Gran Sasso6. Di seguito è riportata una sintesi, tratta dalle schede dell’Osservatorio SdT, delle principali caratteristiche delle esperienze selezionate.
4.1 Ecomuseo del Casentino
L’Ecomuseo del Casentino, promosso dalla Comunità Montana del Casentino (oggi Unione dei Comuni Montani del Casentino), si trova nella prima Valle dell’Arno, nella Provincia di Arezzo (Toscana). L’iniziativa è nata alla fine degli anni ’90 ad opera della Comunità Montana, a valere su fondi UE (LEADER 2 e LEADER PLUS) e con il coinvolgimento diretto di alcuni Comuni7. Oltre ai Comuni, l’Ecomuseo coinvolge numerosi altri attori (associazioni e privati) che, singolarmente o in gruppi, hanno dato origine a 14 cosiddette “antenne sparse sul territorio” (musei, ecomusei, collezioni, centri di documentazione, castelli, negozi di artigianato). I rappresentanti di tutti gli attori (amministrazioni, associazioni e privati) formano un comitato consultivo, che ha il compito di discutere e approvare le linee generali di gestione e sviluppo dell’Ecomuseo. Secondo A. Rossi8: i) la dimensione più autentica dell’Ecomuseo sta proprio nel rapporto tra diversi livelli e interessi, nell’essere in grado di mettere in relazione temi e attori che altrimenti probabilmente non si collegherebbero tra di loro; ii) il ‘processo dell’Ecomuseo’ si concentra sul lavoro con le comunità locali, sia stimolando e rinnovando il senso di appartenenza degli abitanti (attraverso un’opera di interpretazione e valorizzazione del patrimonio territoriale) sia facilitando iniziative autocentrate di sviluppo economico. Come ad esempio la creazione, all'interno di alcune realtà ecomuseali, di associazioni finalizzate alla valorizzazione delle produzioni locali, evolute poi in veri e propri consorzi di produttori. È il caso del Consorzio della Patata Rossa di Cetica’ e del ‘Consorzio delle Farina di Castagne’, nonché di iniziative analoghe nel campo dell’artigianato di qualità (ferro, pietra, tessuto). Tutti segnali significativi di un più ampio e complesso processo di (ri)creazione di nuove microeconomie legate a colture di qualità realizzate da nuove figure di ‘agricoltori-custodi’, imprenditori consapevoli, spesso provenienti da fuori, sensibili e rispettosi delle iniziative di conoscenza e recupero della cultura locale.
4.2 Briganti del Cerreto
‘Briganti del Cerreto’10 è una ‘cooperativa di comunità’ che si occupa della costruzione di una microeconomia locale che combini un turismo responsabile (turismo rurale, agriturismo, turismo comunitario, turismo scolastico, coordinamento e gestione di iniziative di recupero di case abbandonate e di utilizzo di seconde case per scopi di ospitalità turistica) con una serie di azioni volte alla manutenzione, conservazione e valorizzazione del territorio, come la silvicoltura, la cura del verde, i servizi di controllo e monitoraggio ambientale, l’agricoltura biologica e l’allevamento, la commercializzazione di prodotti locali, i corsi sulle caratteristiche dell’ambiente locale (agricolo, forestale, naturalistico, storico e culturale), il rilancio di vecchi mestieri e tradizioni (ad esempio la raccolta di castagne e la produzione di farina rossa, tipica della zona, e di pecorino), il recupero delle antiche feste (Transumanza, Festa del Mulino, Notte Oscura, Festa dei Borghi del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano)11. I 16 membri della cooperativa di comunità ‘Briganti del Cerreto’ hanno sottoscritto un micro patto con l’ex Comune di Collagna, la Comunità Montana dell’Appennino Reggiano, la Provincia di Reggio Emilia, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, la società municipale Enìa (ora incorporata in Iren), più tutti gli altri attori interessati al turismo comunitario, vale a dire il Circolo Ricreativo di Cerreto Alpi, la parrocchia, la cooperativa ‘La Sorgente’ e il consorzio ‘Sentieri Aperti’ , l’azienda agricola Tronconi, i ‘Giardini’ dell’Acqua’ di Collagna, l’albergo ‘da Gian’, la società ‘La Ducale’, il Club di prodotto ‘Il Gigante del Parco’, l’Unione Regionale Cacciatori dell’Appennino. Il micro-patto è uno strumento di concertazione che formalizza la collaborazione tra gli attori di cui sopra, destinato ad evolversi verso la creazione di un’unica entità associativa o consorzio, finalizzata alla valorizzazione complessiva del territorio e delle sue risorse paesaggistiche, culturali, sociali e ambientali, al fine di combattere il processo di spopolamento e degrado della montagna causato dell’abbandono di terreni agricoli e dei pascoli12.
4.3 Gran Sasso: un’agricoltura per la permanenza del paesaggio dei campi aperti
Il paesaggio agrario a campo aperto13 persiste, in diverse forme, in tutto l’Appennino centrale, inclusa la Baronia di Carapelle in Abruzzo, sul lato sud-orientale del Monte Gran Sasso. La Baronia ha un’altitudine che va dagli 800 ai 2400 metri e una superficie di 220 km2 . Comprende i Comuni di Barisciano, Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Castel del Monte, Castelvecchio Calvisio, Carapelle Calvisio, tutti in provincia dell’Aquila, e conta oggi 2.769 abitanti14. Gran parte del territorio della Baronia fa parte del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga15. Attualmente è soprattutto l’azione dell’Ente Parco che incoraggia la permanenza di una pratica agronomica16 che, sebbene ormai molto debole, è ancora in grado di generare qualità paesaggistica, ricostruendo relazioni cognitive, culturali e produttive tra gli abitanti e il patrimonio territoriale17. I principali progetti dell’Ente Parco che interessano e sostengono la permanenza e la riproduzione del paesaggio dei campi aperti nella Baronia di Carapelle sono descritti brevemente di seguito.
La Rete degli agricoltori custodi del Parco18
Si tratta di una rete aperta a tutti coloro che sono interessati a recuperare, preservare e riprodurre antiche cultivar e che ogni anno, l’11 novembre, in occasione della Festa di San Martino, si incontrano per partecipare a ‘SeminLibertà’, un evento promosso dal Parco per favorire la conoscenza e la condivisione di informazioni ed esperienze, ma anche per promuovere la possibilità di scambio reciproco di varietà colturali.
Le antiche varietà colturali: la patata turchesa19
Dal 2003 l’Ente Parco ha lavorato per reintrodurre questa antica varietà di tuberi (presidio Slow Food), al fine di limitarne il rischio di estinzione totale, dando anche impulso alla creazione di una “Associazione Produttori della Patata Turchesa del Parco”20 tra coltivatori, venditori e ristoratori.
Marchio del Parco21
Tramite il regolamento per l’utilizzo del nome e del logo del Parco per i prodotti agroalimentari, l’Ente Parco ha attivato un sistema di valorizzazione dei prodotti agroalimentari di qualità, coinvolgendo le aziende che operano all’interno dell’area protetta. L’uso del nome e del logo del Parco è concesso a quei prodotti che soddisfano determinati requisiti specifici, come l’uso esclusivo di materie prime del territorio, ma anche requisiti di miglioramento della sostenibilità ambientale, come il risparmio idrico o la conservazione della biodiversità. Tra i prodotti della Baronia marchiati con il Logo del Parco ci sono il “Canestrato di Castel del Monte”, i cui produttori sono anche riuniti nel “Consorzio del Canestrato di Castel del Monte”22, la “Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio”, la farina di farro e di grano di Solina23, la Farina di Grano Rosciola, il formaggio Marcetto, il “Caciocavallo abruzzese”, la “Patata turchesa”, lo yogurt Yu Yo, i ceci, le cicerchie, l’orzo, il miele millefiori, di lupinella e di castagno, il polline di millefiori, la propoli.
Progetto Pecunia24
Con questo progetto l’Ente Parco ha inteso affrontare la questione del valore della lana prodotta nell’area protetta, ritenuto superiore al prezzo di vendita normalmente spuntato dagli allevatori. Partendo dal presupposto che il prezzo fosse elevabile solo attraverso un processo di miglioramento della qualità della materia prima l’Ente ha lanciato nel 2010 il progetto, che ha coinvolto direttamente un gran numero di allevatori, ora riuniti nell’“Associazione Pecunia per la valorizzazione della Lana”.
5. Discussione e conclusioni
Con riferimento ai criteri di selezione e di confronto (v. par. 3) dei casi presi in considerazione, si può affermare che tutte le esperienze mostrano che sono in corso processi embrionali ma significativi di riterritorializzazione della montagna appenninica, non basati esclusivamente su forme monofunzionali di utilizzo turistico. In tutti i casi considerati le attività turistiche, presenti in misura maggiore o minore, sono infatti integrate, più o meno organicamente, in catene di produzione che si basano in gran parte sulla riproduzione ‘attiva’ di componenti significative del patrimonio territoriale locale (cfr. par. 2).
In tal senso le esperienze mostrano anche un apprezzabile grado di (retro)innovatività, dato dalla forte tensione a coniugare la conservazione e la creazione di territorio/paesaggio, se non altro nei modi di utilizzo e trasformazione intrinsecamente conservativi, proprio perché riproduttivi.
Infine, per quanto riguarda il rapporto tra processi di riterritorializzazione e pratiche di autonomia, autogoverno e auto-organizzazione essenziali per favorirne e sostenerne lo sviluppo, le esperienze considerate rappresentano un’interessante casistica delle potenziali ‘comunità di patrimonio territoriale’ che, reinterpretando e parafrasando in chiave territorialista la Convenzione di Faro, ho proposto qui di identificare con “insiemi di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici, multipli e integrati del patrimonio territoriale, riproducendolo attraverso l’interazione co-evolutiva, nel quadro di un’azione collettiva” (cfr. par. 2). Mentre la tendenza alla riproduzione co-evolutiva degli aspetti multipli e integrati del patrimonio territoriale è evidentemente comune a tutti i tre casi di studio, è tuttavia altrettanto chiaro che le forme di azione collettive sono sensibilmente differenti.
Nel caso dell’‘Ecomuseo del Casentino’ (4.1), infatti, l’azione collettiva è innescata da un’autorità pubblica territoriale (Comunità Montana) che, insieme ad altre autorità pubbliche territoriali (Comuni), coinvolge immediatamente una serie di altri soggetti privati, dando così vita a un’entità non economica indipendente (l’Ecomuseo), dalla quale a sua volta promanano ulteriori forme di aggregazione, come le diverse associazioni che tendono ad evolversi in consorzi di produttori.
Nel caso dei “Briganti del Cerreto” (4.2) è la Commissione che gestisce l’uso civico ancora esistente a Cerreto Alpi, un’antica comunità di pastori transumanti, a dare origine, d’impulso dei pochi giovani rimasti nel posto, al processo di costituzione, da parte degli stessi giovani, di una cooperativa di comunità composta da 16 membri fondatori (di cui ben 8 degli 80 abitanti totali del villaggio)25; ed è la stessa cooperativa che stipula, con tutti gli attori interessati al turismo comunitario, un micro-patto destinato ad evolversi verso la creazione di un’entità associativa o consortile unica, simile in questo senso, ma non coincidente, col soggetto autonomo ‘Ecomuseo del Casentino’.
Ancora diverso è il caso della Baronia di Carapelle (4.3) dove, in un contesto locale la cui struttura fisica riflette ancora tangibilmente forme di uso collettivo del suolo, non si innesca alcun processo associativo di costituzione di un unico soggetto ‘formalizzato’, né le autorità pubbliche locali partecipano direttamente alle iniziative di riterritorializzazione, ma viceversa un’entità sì pubblica, ma autonoma e sovralocale come l’Ente Parco Nazionale, avvia e sostiene un’azione ‘reticolarizzante’ tra soggetti locali, anche promuovendo la nascita di una pluralità di forme associative tra di essi (consorzi di produttori).
La conclusione generale che si può trarre riguarda più i possibili sviluppi di questa ricerca che non i risultati già acquisiti. Infatti, oltre ad un ulteriore sviluppo dei concetti di patrimonio territoriale e di comunità di patrimonio territoriale in grado di andare definitivamente oltre le ormai obsolete nozioni di patrimonio naturale e culturale come entità dualisticamente separate, ciò che appare necessario a questo punto è soprattutto un profondo ripensamento di territorio e paesaggio come commons (Magnaghi, 2015). Alla luce non solo delle fondamentali acquisizioni nel campo di E. Ostrom (1990), ma anche delle esperienze storiche, incluse quelle appenniniche, di proprietà collettiva e di uso civico; da considerarsi come “un altro modo di possedere” (Grossi, 2017) che attraversa tutta la storia delle interazioni coevolutive tra uomo e ambiente e che è essenziale aggiornare e declinare in forme (retro)innovative, al fine di prefigurare processi di riterritorializzazione realmente autoorganizzati e come tali fecondamente (ri)produttivi di territori e paesaggi ‘viventi’.
6. Riferimenti
Corrado, F., Dematteis, G. (a cura di, 2016) ‘Riabitare la montagna’, Scienze del Territorio, 4. De Bonis, L., Giovagnoli, M. (a cura di, 2019) ‘Territori fragili. Comunità, patrimonio, progetto’, Scienze del Territorio,
1 https://tinyurl.com/y5vcd82z
2 De Bonis L., La ri-produzione dei patrimoni territoriali come forma di prevenzione dei rischi, presentazione al convegno “Le decisioni amministrative tra prevenzione dei rischi e gestione delle emergenze”, Università del Molise, Campobasso, 20 novembre 2019.
3 https://tinyurl.com/y25opkpk
4 Rossi A., Ecomuseo del Casentino, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/rnu83ap).
5 Rispoli F., Briganti del Cerreto, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/wdprvxu).
Ciccozzi E., Gran Sasso: un’agricoltura per la permanenza del paesaggio a campi aperti, Osservatorio delle buone pratiche territorialiste (https://tinyurl.com/vdfqfz8).
7 Rossi A., cit.
8 Ivi.
9 Ivi.
10 Cerreto Alpi, antica comunità di pastori transumanti, è il borgo più antico dell’ex Comune di Collagna (Provincia di Reggio Emilia, Regione Emilia-Romagna). Il borgo, situato nel cuore dell’Appennino reggino alla confluenza tra il Canale di Cerretano e il Fiume Secchia, aveva circa 1.000 abitanti all’inizio del secolo scorso, mentre attualmente registra solo 80 residenti (Rispoli F., cit.).
11 Rispoli F., cit.
12 Ivi.
13 Vale la pena ricordare che il campo aperto (open-field) era il sistema agrario prevalente in gran parte dell’Europa fino a quando il processo di recinzione delle terre comuni (enclosures), iniziato nel XIII secolo in Inghilterra, cominciò ad essere una caratteristica diffusa del paesaggio agricolo inglese durante il XVI secolo, portando alla fine del XVIII secolo all’accumulazione concentrata di capitale e alla diffusione massiva della disoccupazione che costituirono le premesse della rivoluzione industriale.
14 2659 nel 2019.
15 Ciccozzi E., cit.
16 Evidentemente legata a forme di uso civico (o collettivo) del territorio
17 Ivi.
18 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=88
19 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=291
20 http://www.gransassolagapark.it/associazione-produttori-patata-turchesa.php
21 http://www.gransassolagapark.it/marchio-parco-prodotti.php
22 http://www.gransassolagapark.it/consorzio-produttori-canestrato-castel-del-monte.php
23 La farina di farro e di grano di Solina sono oggetto del progetto “Antiche varietà colturali: i cerali minori”, realizzato dall’Ente Parco in collaborazione con l’Università di Teramo e finalizzato allo studio di tale peculiare patrimonio agricolo dell'area protetta (http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=89).
24 http://www.gransassolagapark.it/pagina.php?id=105. Il nome del progetto sfrutta l’ambiguità linguistica del termine arcaico italiano ‘pecunia’, derivato dal termine latino pecus (bestiame), utilizzato ormai per designare il denaro con riferimento all’antica consuetudine di effettuare pagamenti in natura (precisamente in bestiame), e ha inoltre la stessa radice della parola ‘pecora’.
25 Rispoli F., cit.
Giacchè, L. (2019) ‘Ripensare il terremoto’, Scienze del Territorio, 7, 33-42.
Grossi, P. (2017): Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria. Milano, Giuffrè (ed. or. 1977).
Ostrom, E. (1990): Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge (MA), Cambridge University Press, trad.it. Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006.
Magnaghi, A. (1998) ‘Il patrimonio territoriale: un codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile’, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio degli abitanti: società locali e autosostenibilità, Dunod, Milano.
Magnaghi, A. (2015) ‘Mettere in comune il patrimonio territoriale: dalla partecipazione all’autogoverno’, Glocale, 9-10, 139-157
Luciano De Bonis, Phd
Tecnica e pianificazione urbanistica / Urban and Regional Planning
Dipartimento di Bioscienze e Territorio dell'Università del Molise / Dept. of Biosciences and Territory, University of Molise
Corsi di Studio in Ingegneria Civile / Study Programmes in Civil Engineering
Presidente dei Corsi di Studio in Scienze turistiche e Beni culturali / President of the Study Programmes in Tourism Sciences and Cultural Heritage
Coordinatore del Master di II livello in "Progettazione e promozione del paesaggio culturale" / Coordinator of the third-cycle Master Course in "Planning and Promotion of Cultural Landscape"