Antologia - 18^ Lezione
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ROMANTICISMO: POE, MELVILLE
Siamo arrivati alla diciottesima lezione di Antologia, con Barbara. L’ultima volta ci siamo lasciati con la lettura di alcuni testi romantici, di poesia e di teatro. Per quest’ ultimo la “Maria Stuarda” di Schiller, per la prima erano citazioni di Keats e Shelley. Ricordiamo qui altri di cui non leggeremo nulla, Wordsworth e Coleridge, poi Byron, il grande campione che combatté per l’indipendenza in Grecia e morì in questo gesto eroico, anche lui grande sregolato, grande prototipo di romantico.
Oggi parliamo degli sviluppi di quella poetica romantica, dalla Germania e dall’Inghilterra, in Francia e Italia. Parlammo della rivista tedesca “Athenaeum” e della Prefazione alle “Lyrical ballads” di Wordsworth e Coleridge, le due dichiarazioni di poetica. La ginevrina Madame de Stael diffonde queste idee nuove in Francia e in Italia. Il suo trattato “De l’Allemagne”, sulla Germania e la cultura tedesca, è fondamentale per lo sviluppo della poetica romantica in Europa. Agli italiani in particolare la de Stael rivolge un indirizzo intitolato “Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”, che viene pubblicato su un nostro periodico e suscita un grande fermento. Sentiamo, Barbara…
MADAME DE STAEL, SULLA MANIERA E L’UTILITÀ DELLE TRADUZIONI
Trasportare da una ad altra favella le opere eccellenti dell’umano ingegno è il maggior benefizio che far si possa alle lettere; perché sono sì poche le opere perfette, e la invenzione in qualunque genere è tanto rara, che se ciascuna delle nazioni moderne volesse appagarsi delle ricchezze sue proprie, sarebbe ognor povera: e il commercio de’ pensieri è quello che ha più sicuro profitto. (…)
So bene che il miglior mezzo per non abbisognare di traduzioni sarebbe il conoscere tutte le lingue nelle quali scrissero i grandi poeti, greca, latina, italiana, francese, spagnuola, inglese, tedesca. Ma quanta fatica, quanto tempo, quanti aiuti domanda un tale studio! Chi può sperare che tanto sapere divenga universale? e già all’universale dee por cura chi vuol far bene agli uomini. Dirò di più: se alcuno intenda compiutamente le favelle straniere, e ciò non ostante prenda a leggere nella propria lingua una buona traduzione, sentirà un piacere per così dire più domestico ed intimo provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze. (…)
Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza.
Suggerisce di tradurre le letterature straniere e lascia intendere che la nostra è una cultura antiquata. Figuriamoci le reazioni degli intellettuali italiani. Se ne distinguono tre. Una è quella dei classicisti “ante litteram”, quelli che dai romantici venivano definiti pedanti, che comunque difendevano le origini umanistiche della nostra cultura. Poi ci sono i classicisti progressisti, che dicono di conoscere benissimo la letteratura romantica ma di non voler rinunciare all’equilibrio formale degli antichi. Sono un po’ gli eredi del neoclassicismo alla Winckelmann, abituati a fare come Andrea Chenier, cioè mettere dei pensieri nuovi in versi antichi. E poi ci sono i romantici, che già esistono in Italia, e sembra che la ginevrina li abbia trascurati. Uno di questi è Giovanni Berchet, che pubblica la “Lettera semiseria di Grisostomo”, su un foglio, “Il Conciliatore”, che ebbe breve vita sotto la dominazione austriaca in Italia, chiuso quando si capì che gli interventi su questo periodico nascondevano un’anima patriottica, risorgimentale, e quindi la volontà di scalzare il governo austriaco, che pure, bisogna dire, aveva l’equilibrio di favorire la cultura, dai tempi di Parini, al punto di rischiare di far nascere quelle posizioni che potevano anche metterlo in difficoltà.
Giovanni Berchet in questo scritto ci dice che la letteratura ha prima di tutto come oggetto la realtà, si deve rivolgere a problemi reali, sostanziali, e non deve quindi inseguire quella mitologia o quelle favole di cui parlava la de Stael. E poi precisa qual è il pubblico della poesia. Questo è il punto più interessante e più presentato nei corsi di letteratura. Parlando della tendenza poetica, distingue quella attiva, del poeta che crea, e quella passiva, del lettore...
GIOVANNI BERCHET, LETTERA SEMISERIA DI GRISOSTOMO
Il poeta, dunque, sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini egualmente squisita.
Lo stupido Ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stenderseli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Quindi non può avere la tendenza poetica passiva lo stupido ottentotto, così definito da una popolazione africana, il primitivo insomma. Non è rivolta a lui l’opera del letterato…
Per lo contrario un Parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta Civilizzazione, è passato attraverso una folla immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di esse non lo commuovono più, perché ripetuti le tante volte.
L’altro lettore è dunque il parigino, quello che è troppo abituato alle raffinatezze, tanto che non ha più sensibilità: l’ottentotto, quindi, non arriva mai a una sensibilità poetica e il parigino non ce l’ha più. Non a loro dunque si rivolge il poeta, ma al popolo, propriamente detto, che è la classe media borghese, una via di mezzo.
Passiamo ora ad individuare gli sviluppi che la sensibilità romantica ha avuto oltre oceano. Dall’Europa ci spostiamo in America, con tre grandi letterati, Poe, autore di famosi racconti dell’orrore, Melville, fra i tanti, del romanzo “Moby Dick” e Hawthorne, della “Lettera scarlatta”. Di Poe ricordi qualcosa, dai tuoi studi liceali?
BARBARA: Ricordo che è nato nel 1809, ha vissuto una vita difficile, abbandonato dalla madre, affidato a dei commercianti, non ha avuto una presenza familiare, quindi si è dato all’alcolismo, al gioco d’azzardo, tormentato anche da due grandi amori, era un oppiomane, si rifugiava nelle droghe per trovare l’ispirazione dei suoi racconti …
Come vedete oggi Barbara mi sostituisce… Si diceva che componesse in questi deliri provocati anche dall’alcol. E’ vissuto sotto i ponti, è morto in circostanze tragiche. Di Poe leggiamo un racconto in particolare: “Lo strano caso del signor Valdemar”. Una parte fondamentale di certo romanticismo, con l’esotismo, evasione dalla realtà normale attraverso i viaggi, era l’esoterismo, come in questo caso, il culto di eventi fantastici, strani, inspiegabili, per la cui descrizione Poe era particolarmente versato. Sentiamo…
EDGAR ALLAN POE, LO STRANO CASO DEL SIGNOR VALDEMAR
Naturalmente non pretenderò di ritenere un fatto straordinario che il sorprendente caso del signor Valdemar abbia provocato tante discussioni: sarebbe un miracolo se ciò non fosse stato, date soprattutto le circostanze. In seguito al desiderio di tutte le parti interessate di tenere nascosta la vicenda al pubblico, per il momento almeno, o fino a che non avessimo avuto occasioni per una ricerca più approfondita, in seguito appunto ai nostri sforzi per ottenere questo, si è sparsa tra la gente una versione del fatto arbitraria ed esagerata, la quale è divenuta fonte di molte ipotesi sgradevoli ed errate e logicamente di grande incredulità.
È ora necessario che io dia i fatti così come li conosco. Eccoli in succinto.
La mia attenzione, in questi ultimi tre anni, è stata rispettivamente attratta dal mesmerismo (o magnetismo animale, dal nome del medico tedesco Franz Mesmer (1734-1815), ideatore di tale teoria), e circa nove mesi or sono mi venne in mente così all’improvviso che nella serie delle esperienze da me sino a quel momento compiute vi era stata un’omissione gravissima e assolutamente ingiustificabile, che cioè nessuno era ancora mai stato mesmerizzato in ARTICULO MORTIS. Era da vedere per prima cosa se in tale condizione esistesse nel paziente una suscettibilità qualsiasi all’influenza magnetica; secondariamente, nel caso che tale suscettibilità esistesse, se questa fosse diminuita o accresciuta dalla condizione predetta. In terzo luogo sino a qual punto, e per quanto tempo, potessero essere fermate mediante questo processo le pretese inesorabili della Morte. Vi erano ancora altri punti che avrebbero dovuto essere accertati, ma i suaccennati eccitavano particolarmente la mia curiosità, l’ultimo soprattutto, per la portata vastissima delle sue eventuali conseguenze.
Nel guardarmi attorno in cerca di un soggetto grazie al quale io potessi saggiare queste mie ipotesi, venni indotto a pensare al mio amico Ernest Valdemar, il notissimo compilatore della "Bibliotheca Forensica" e autore (sotto lo pseudonimo di Issachar Marx) delle versioni in polacco del "Wallenstein" e del "Gargantua". Il signor Valdemar, il quale aveva dimorato per lo più nel quartiere di Harlem, nello Stato di New York, sin dal 1839 è (o era) caratterizzato principalmente da un’estrema magrezza della persona (i suoi arti inferiori rammentavano moltissimo quelli di John Randolph), nonché, pure, dall’immacolato biancore dei suoi baffi stranamente in contrasto con la nerezza dei capelli, i quali, di conseguenza, venivano generalmente scambiati per una parrucca. Era di temperamento spiccatamente nervoso, il che lo rendeva un soggetto ottimo per le esperienze mesmeriche. Ero riuscito un paio di volte a farlo addormentare quasi senza difficoltà, ma ero stato deluso in altri risultati che la sua particolare costituzione mi aveva naturalmente indotto a prevedere. La sua volontà non si era mai trovata positivamente o totalmente sotto il mio controllo, e in quanto alla chiaroveggenza, non ero mai riuscito a compiere con lui nulla di concreto. Avevo sempre attribuito il mio insuccesso su questi punti alle sue alterate condizioni di salute. Già alcuni mesi prima ch’io avessi occasione di fare la sua conoscenza i medici lo avevano dichiarato irrevocabilmente tubercolotico. Del resto era sua abitudine parlare con calma della propria imminente fine, come di cosa che non poteva essere né evitata né rimpianta. Allorché incominciai a riflettere su quanto ho accennato prima, fu logicamente naturalissimo che io pensassi al signor Valdemar. Conoscevo troppo bene la salda mente filosofica dell’uomo per temere da lui scrupoli di qualsiasi genere, né d’altronde egli aveva parenti in America che potessero intromettersi. Gli parlai francamente del mio progetto, e con mia sorpresa vidi di avere fortemente suscitato il suo interesse. Dico con sorpresa perché, sebbene egli mi avesse sempre concesso di servirmi liberamente della sua persona per le mie esperienze, non aveva mai dimostrato prima d’allora una speciale simpatia per quel che io facevo. Il male che lo minava era di quelli che permettono un calcolo esatto intorno al tempo della conclusione letale, e infine ci accordammo ventiquattr’ore prima del momento che i suoi medici avrebbero decretato essere quello del trapasso.
Sono trascorsi ormai più di sette mesi da quando io ho ricevuto da parte del signor Valdemar in persona il seguente biglietto:
"Caro P...Può anche venire ora. D... e F... sono concordi nel dichiarare che io non potrò durare oltre la mezzanotte di domani, e ritengo che abbiano colto pressoché esattamente nel segno.
Valdemar".
Ricevetti questo biglietto circa mezz’ora dopo che era stato scritto, e in capo ad altri quindici minuti mi trovavo nella camera del morente. Non lo vedevo da dieci giorni, e rimasi esterrefatto dallo spaventoso mutamento avvenuto in lui durante quel breve intervallo. Il suo volto era soffuso di una tinta plumbea; gli occhi avevano perduto ogni luce, e la sua emaciatezza era tale che la pelle gli si era rotta sugli zigomi.
Soffriva di un’espettorazione abbondantissima: il polso era appena percettibile. Egli aveva conservato però in modo sorprendente non solo le sue piene facoltà mentali, ma anche una certa somma di energie fisiche. Si esprimeva udibilmente, prendeva senza aiuto alcuni medicamenti palliativi, e, allorché io entrai nella sua stanza, era intento a segnare a matita alcuni appunti su un taccuino. Era seduto sul letto appoggiato contro una montagna di cuscini. Lo vegliavano i dottori D... e F...Dopo aver stretto la mano di Valdemar presi in disparte questi signori e ottenni da loro una relazione minuta circa le condizioni del paziente.
Il polmone sinistro era da diciotto mesi in uno stato semiosseo o cartilaginoso, ed era divenuto naturalmente del tutto inservibile agli scopi della vita. Anche il polmone destro, nella regione superiore, si era parzialmente se non totalmente ossificato, mentre la regione inferiore non era più che una massa di tubercoli purulenti confondentisi gli uni negli altri. Esistevano varie perforazioni assai vaste, e in un punto era avvenuta un’aderenza permanente alle costole. Questi sintomi rivelati dal lobo destro erano di data relativamente recente. Il processo di ossificazione era progredito con rapidità assai insolita; ancora un mese prima non ne era stato notato il minimo sintomo, e l’aderenza era stata scoperta soltanto tre giorni innanzi.
Indipendentemente dal processo di consumazione, il paziente era sospetto di aneurisma dell’aorta, ma in questa regione i sistemi ossei rendevano impossibile una diagnosi esatta. Entrambi i medici erano d’opinione che il signor Valdemar sarebbe morto verso la mezzanotte dell’indomani (domenica). Erano in quel momento le sette del sabato sera.
Nell’allontanarsi dal capezzale dell’infermo per discorrere con me, i dotti D... e F... gli avevano rivolto un saluto finale. Non era nelle loro intenzioni di ritornare, ma su mia richiesta promisero che sarebbero venuti a dare un’occhiata al paziente, verso le dieci della sera successiva.
Quando se ne furono andati discussi apertamente col signor Valdemar intorno all’argomento della sua fine imminente, nonché, e con maggiori particolari, intorno all’esperienza che mi proponevo di tentare. Egli si dichiarò tuttora dispostissimo e anzi impaziente di parteciparvi, e insistette perché iniziassi subito. Ero assistito da un infermiere e da una infermiera, ma non mi sentivo d’imbarcarmi in un compito di quella fatta con testimoni così poco sicuri, nel caso avvenisse una catastrofe improvvisa. Rimandai perciò il tentativo alle otto circa della sera seguente, allorché la venuta di uno studente di medicina che conoscevo abbastanza bene (il signor Teodoro L.....l) mi liberò da ogni ulteriore scrupolo e incertezza. Era stato in origine mio desiderio di attendere il ritorno dei medici, ma fui indotto a procedere, prima di tutto dalle incalzanti suppliche del signor Valdemar, e in secondo luogo dall’intimo convincimento che non avevo un minuto da perdere, poiché lo vedevo declinare rapidamente e a vista d’occhio. Ebbe la bontà di aderire al mio desiderio che egli stendesse cioè nota di tutto quanto accadeva, ed è proprio dai suoi appunti che ho raccolto riassumendoli o copiandoli parola per parola quanto sto ora per narrare.
Mancavano circa cinque minuti alle otto quando, prendendo la mano del paziente, lo pregai di dichiarare, quanto più chiaramente gli era possibile, che egli era realmente consenziente che io iniziassi l’esperimento di mesmerizzazione della sua persona nelle sue attuali condizioni.
Mi rispose debolmente, e tuttavia con voce chiaramente udibile: - Sì, desidero essere mesmerizzato; - aggiungendo subito dopo: - Temo che lei abbia rimandato l’esperienza già di troppo.
Mentre diceva questo incominciai a eseguire i passaggi che altre volte avevo trovato particolarmente efficaci in un soggetto quale il suo. Egli rimase evidentemente influenzato dal primo movimento laterale della mia mano attraverso la sua fronte, ma benché esercitassi tutti i miei poteri non ottenni alcun ulteriore effetto notevole se non alcuni minuti dopo le dieci, quando cioè sopraggiunsero, mantenendo fede al loro impegno, i dottori D... e F... Spiegai loro in poche parole quel che avevo in animo, ed essi non mi fecero alcuna obiezione, affermando anzi che il paziente era già entrato in stato agonico. Procedetti allora senza esitazione, sostituendo però ai passaggi laterali quelli con moto verso il basso, e affissando il mio sguardo unicamente entro l’occhio destro del paziente.
Il polso era ormai impercettibile e la respirazione rantolante, con pause di mezzo minuto. Questo stato rimase pressoché immutato durante un quarto d’ora. Al termine di questo periodo però dal petto del morente sfuggì un sospiro naturale benché profondissimo, e l’affanno stertoroso cessò; vale a dire, il rantolo agonico non era più udibile; le pause non diminuirono. Le estremità del paziente erano fredde come il ghiaccio.
Cinque minuti prima delle undici percepii i primi segni inequivocabili dell’influenza mesmerica. Il roteare vitreo dell’occhio si mutò in quell’espressione di inquieta disamina interiore che non si avverte mai se non nei casi di sonnambulismo, e sulla quale è del tutto impossibile ingannarsi. Con pochi rapidi passaggi laterali feci tremare le labbra come in un sonno incipiente, e con pochi altri le chiusi del tutto. Non mi sentivo soddisfatto, tuttavia, e continuai perciò energicamente nelle mie manipolazioni, esercitando al massimo la volontà, finché non ebbi irrigidito totalmente le membra del dormiente, non prima però di averle fissate in una posizione apparentemente comoda. Le gambe erano distese in tutta la loro lunghezza, e così anche le braccia, o pressappoco, e queste posavano sul letto a una giusta distanza dai lombi. Il capo era assai leggermente sollevato.
Quando ebbi terminato tutto ciò era mezzanotte in pieno, e io chiesi ai signori presenti di esaminare le condizioni di Valdemar. Dopo brevi esperimenti costoro dichiararono di trovarlo in uno stato insolitamente perfetto di trance mesmerica. La curiosità di entrambi i medici era grandemente eccitata. Il dottor D... decise subito di restare presso il paziente tutta la notte, mentre il dottor F... si congedò con la promessa che sarebbe ritornato all’alba. L.....l e gli infermieri rimasero.
Lasciammo indisturbato Valdemar sino alle tre circa del mattino. A quell’ora mi avvicinai a lui e lo trovai esattamente nelle medesime condizioni di quando il dottor F... si era allontanato; vale a dire che giaceva esattamente nella medesima posizione; il polso era impercettibile; la respirazione lieve (o per meglio dire appena avvertibile, e verificabile soltanto avvicinando alle labbra uno specchio); gli occhi erano naturalmente chiusi, e le membra rigide e fredde come marmo. Tuttavia l’aspetto generale non era certo quello della morte.
Nell’avvicinarmi a Valdemar, feci una specie di semisforzo nel tentativo di influenzare il suo braccio destro a seguire il mio, che feci passare dolcemente innanzi e indietro sulla sua persona. In questi esperimenti su di lui non ero mai del tutto riuscito prima d’allora, e certo non speravo molto di riuscirvi adesso, ma con mio stupore il suo braccio assai prontamente, seppur debolmente, prese a seguire ogni direzione da me indicata col mio. Decisi di arrischiare qualche parola di conversazione.
- Signor Valdemar, - dissi, - dorme? - Non mi diede risposta, ma avvertii un tremito intorno alle labbra e mi sentii perciò indotto a ripetere la domanda una seconda volta. Alla terza tutto il suo corpo fu agitato da un brivido lievissimo; le palpebre si dischiusero sino a lasciare intravedere un segmento bianco del globo oculare; le labbra si mossero pigramente, e da esse in un sussurro a stento udibile uscirono queste parole:
- Si; adesso dormo. Non mi svegliate! Lasciatemi morire così...
A questo punto gli tastai le membra e le sentii più rigide che mai. Il braccio destro, come prima, obbedí alla direzione della mia mano.
Interrogai nuovamente il sonnambulo:
- Sente ancora dolore al petto, signor Valdemar?
La risposta ora fu immediata, ma perfino più impercettibile della precedente:
- Nessun dolore... Sto morendo...
Non ritenni prudente di disturbarlo oltre proprio in quel momento, e null’altro fu detto o fatto sino al ritorno del dottor F..., il quale giunse poco prima dell’alba, ed espresse il piú illimitato stupore nel trovare il paziente ancora in vita. Dopo avergli tastato il polso e avergli avvicinato uno specchio alle labbra mi pregò di rivolgere nuovamente la parola al sonnambulo. Obbedii e dissi:
- Signor Valdemar, dorme ancora?
Come per l’innanzi, trascorsero alcuni minuti prima che potessi ottenere una risposta; e durante questa pausa il morente parve raccogliere tutte le sue energie per parlare. Alla quarta ripetizione della domanda disse debolissimamente, con voce appena percettibile:
- Si, sono addormentato...Sto morendo.
I medici dimostrarono ora il parere, o meglio il desiderio, che Valdemar fosse lasciato indisturbato in quel suo stato di apparente tranquillità, sino al sopravvenire della morte, la quale, secondo l’opinione generale, era ormai questione di pochi minuti. Decisi nondimeno di rivolgergli la parola ancora una volta, limitandomi a ripetere la domanda postagli in precedenza.
Mentre parlavo si produsse nell’aspetto del sonnambulo un mutamento sensibile. Gli occhi si aprirono da soli, lentamente, roteando, le pupille scomparvero all’insù; la pelle assunse una sfumatura cadaverica, venendo a rassomigliare non tanto alla pergamena, quanto a un foglio di carta bianca. E le macchie circolari tipiche dell’etisia che sino a quel momento erano risaltate con evidenza al centro di ciascuna guancia, si estinsero a un tratto. Uso quest’espressione, poiché la subitaneità della loro scomparsa mi diede la sensazione dello spegnersi di una candela sotto un soffio di fiato. Il labbro superiore, contemporaneamente, si accartocciò scostandosi dai denti, che prima ne erano stati completamente coperti, mentre la mascella inferiore cadde con uno scatto secco, lasciando la bocca spalancata e rivelando in pieno la lingua enfiata e annerita. Immagino che tutti coloro che si trovavano nella stanza fossero da tempo abituati agli orrori della morte, ma in quel momento l’aspetto di Valdemar era così terribilmente spaventoso, che tutti si ritrassero istintivamente dal letto.
Ho l’impressione di essere giunto al punto di questa mia narrazione in cui tutti i miei lettori rimarranno irriducibilmente increduli. Ma è mio compito limitarmi a proseguire nel racconto.
Il corpo di Valdemar non presentava ormai più il benché minimo segno di vita…
Gli avevo chiesto, si ricorderà, se dormisse ancora. Egli ora mi rispose:
- Si; no; ho dormito, e adesso, adesso... sono morto.
Varie le reazioni delle persone intorno, succede di tutto…
(…)Nel pomeriggio ritornammo tutti insieme a visitare il paziente. Le sue condizioni erano rimaste precisamente le stesse. Discutemmo alquanto circa la convenienza e la possibilità di risvegliarlo, ma non tardammo ad accordarci che non avremmo ottenuto con questo alcun risultato positivo. Era evidente che la morte (o ciò che di solito si definisce morte) era stata arrestata dal processo mesmerico. Tutti convenimmo che risvegliare Valdemar sarebbe equivalso a provocare la sua immediata o comunque rapida disgregazione.
Da quel momento sino al termine della scorsa settimana, durante dunque un intervallo di quasi sette mesi, continuammo a recarci giornalmente a casa di Valdemar, accompagnati di quando in quando da uomini di medicina e altri amici. In tutto questo tempo il sonnambulo è rimasto esattamente come io l’ho descritto. Gli infermieri lo sorvegliavano senza interruzione.
Fu venerdì scorso che decidemmo finalmente di tentare l’esperienza del risveglio, di cercare cioè di destarlo…(…)
- Signor Valdemar, può spiegarci quali sono attualmente le sue sensazioni o i suoi desideri?
Per un attimo le guance si reinvermigliarono delle loro caratteristiche macchie d’etisia; la lingua vibrò, o meglio roteò violentemente nella bocca (benché labbra e mascella restassero rigide come per l’innanzi) e infine quella medesima voce spaventosa che già ho descritta proruppe:
- Per amor di Dio! Presto! Presto! Mettetemi a dormire. Oppure... presto! svegliatemi! Presto! Vi dico che sono morto!
Ero indicibilmente sconvolto, e per un attimo rimasi incerto su quel che dovevo fare. Tentai dapprima di ricomporre il paziente, ma, fallito questo tentativo per la totale sospensione della volontà, ritornai sul mio operato e con altrettanta energia lottai per svegliarlo. Questa volta mi avvidi subito che sarei riuscito o per lo meno mi lusingai che tra breve il mio successo sarebbe stato completo, e sono certo che tutti nella stanza erano preparati ad assistere al risveglio del paziente.
Ma a quanto in realtà avvenne, non era davvero possibile essere preparati. Mentre eseguivo rapidamente i passaggi mesmerici tra esclamazioni di "morto! morto!" che letteralmente prorompevano dalla lingua anziché dalle labbra del paziente, tutto il corpo di questi, immediatamente, nello spazio di un solo minuto, forse anche meno, si rattrappì, si sbriciolò, in una parola si corruppe e si dissolse sotto le mie mani. Sul letto, di fronte a tutti i presenti, non rimase che una massa quasi liquida di putridume ributtante, spaventoso.
E questo è il navigare nella fantasia tipico di Edgar Allan Poe, una specie di allucinazione.
L’altro grande americano di questo periodo, Herman Melville, ha avuto una vita avventurosa, ha navigato tantissimo, ecco perché il suo romanzo più famoso, “Moby Dick”, è ispirato alla vita del mare. E’ un racconto particolare. Comincia con queste parole: Chiamatemi Ismaele. Che è colui che racconta l’accaduto, l’unico sopravvissuto. Questo nome ci ricorda l’origine ebraica, il riferimento culturale di tutto il romanzo, che infatti è pieno di rimandi biblici. La balena bianca fa risalire a quella di Giona e a tutto il messaggio religioso, e sociale in fondo, di quella grande tradizione.
Ma noi leggiamo li romanzo da un punto di vista un po’ più laico, come appunto desiderava lo stesso Melville. L’idea era che questo straordinario capitano Achab, ossessionato dalla balena bianca, che ha perso la gamba nella lotta contro Moby Dick, tenta di catturare il suo nemico mortale con l’aiuto dell’equipaggio del Pequod, questa imbarcazione sulla quale molti sono saliti senza sapere quale fosse il loro destino. Lo scoprono ascoltando quello che il capitano Achab dirà loro sul cassero della nave, dopo che In realtà per diverse ore, da quando si sono imbarcati, non lo avevano mai visto. Nel racconto di Ismaele c’è tutta una serie di pagine che, con una suspense che fa pensare a Poe, prepara il momento in cui compare Achab, che ora vi facciamo vedere in una sequenza già utilizzata per il canto di Ulisse nella Commedia…
(Filmato con una scena dello spettacolo “Don Chisciotte” del liceo “Galanti” di Campobasso)
HERMAN MELVILLE, MOBY DICK
ACHAB: Che cosa fate, marinai, quando vedete una balena?
MARINAI: La segnaliamo!
ACHAB: Bene! E che cosa fate dopo, marinai?
MARINAI: Ammainiamo e la inseguiamo!
ACHAB: E a che canto remate, marinai?
MARINAI: Balena morta o lancia sfondata!
ACHAB: Vedete quest’oncia d’oro spagnola? Chiunque di voi mi segnali una balena dalla testa bianca, dalla fronte rugosa e dalla mandibola storta, che ha tre buchi nella pinna dritta della coda, riceverà quest’oncia d’oro, marinai!
MARINAI: Urrà! Urrà!
ACHAB: E’ una balena bianca, vi dico. Cavatevi gli occhi per cercarla, guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche solo una bolla, segnalate!
TASHTEGO: Capitano Achab, quella balena bianca deve essere la stessa che molti chiamano Moby Dick.
ACHAB: Conosci dunque la Balena Bianca, Tash?
CAPO ALLEGRO: Dibatte la coda in un modo curioso prima di tuffarsi, signore?
DEGGU: E ha uno spruzzo curioso, molto grosso e rapidissimo, capitano?
QUIQUEG: E ha uno, due, tre...molti ferri sul corpo, tutti contorti, storti come il...
ACHAB: Cavatappi! Sì, Quiqueg, i ramponi gli stanno nel fianco tutti storti e divelti, sì, Deggu, il suo spruzzo è grosso come un fascio di grano e bianco come un mucchio della lana di Nantucket dopo la grande tosatura annuale; sì, Tashtego, e dibatte la coda come un fiocco sbrindellato nella raffica. La morte e i diavoli! È Moby Dick che avete visto, marinai, Moby Dick, Moby Dick!
STARBUCK: Capitano Achab, ma non è stato Moby Dick a strapparvi la gamba?
ACHAB: Chi ti ha detto questo? Sì, Starbuck, sì, miei coraggiosi, è stato Moby Dick che mi ha disalberato, Moby Dick che mi ha ridotto a questo tronco su cui mi reggo ora. Sì, sì! È stata quella maledetta Balena Bianca a rasarmi, a far di me per sempre un buono a nulla incavigliato! Sì, sì! E le darò la caccia oltre il Capo di Buona Speranza, al di là del Capo Horn, al di là del grande Maelstrom di Norvegia, oltre le fiamme della perdizione, finché non sfiati sangue nero e si rivolti con le pinne all’aria. Che cosa rispondete, marinai? A vedervi sembrate coraggiosi.
MARINAI: Sì, sì! Occhio puntato alla Balena bianca, lancia puntata contro Moby Dick!
ACHAB: Che Dio vi benedica! Dispensiere, va’ a prendere la grande misura di grog!
STARBUCK: Vendetta sopra un bruto che non ha la parola! Che ti colpì soltanto per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato contro una creatura muta, capitano Achab, mi sembra un’empietà.
ACHAB: Ascolta ancora, una parola più profonda, Starbuck. Tutti gli oggetti visibili, vedi, sono soltanto maschere di cartone, ma in ogni evento qualcosa di sconosciuto, ma sempre ragionevole, mostra il suo volto sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla maschera! Come può il prigioniero tirarsi fuori se non si caccia attraverso il muro? Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Lei mi occupa, mi sovrasta: io vedo in lei una forza atroce scatenata da una cattiveria imperscrutabile. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena bianca la causa secondaria o la causa primaria, io sfogherò su di lei questo mio odio. Non parlarmi d’empietà, marinaio: io colpirei il sole, se mi facesse offesa. Vedi quelle facce dalle chiazze abbronzate, quei quadri dipinti dal sole, vivi e respiranti? I leopardi pagani, gli esseri senza pensieri e senza culto che vivono e non danno ragioni della torrida vita che sentono! L’equipaggio, marinaio, l’equipaggio! Non sono tutti dal primo all’ultimo con Achab, in questa impresa della balena? In questa piccola caccia certo la miglior lancia di Nantucket non vorrà tirarsi indietro! Ah! Le voglie ti pigliano, lo vedo! Il tuo silenzio ti svela!
STARBUCK (mormora): Dio mi guardi! Guardi tutti noi!
ACHAB: La misura di grog! La misura di grog! Morte a Moby Dick! Che Iddio dia la caccia a tutti noi, se non la diamo noi a Moby Dick fino alla morte!
Avete rivisto un allievo del nostro laboratorio, Simone Brundu, nei panni di Achab e un altro, Francesco Ippolito, in quelli di Starbuck. Avete visto lo struggimento con cui Achab deve spiegare a Starbuck, che lo rimprovera di inseguire un sogno impossibile, verso l’autodistruzione, che per lui è vitale sconfiggere, uccidere Moby Dick, perché la balena rappresenta tutto quello che dentro di lui non si è risolto. Moby Dick possiamo interpretarlo come il male che è in noi, come la parte oscura di noi che non conosciamo, e che vorremmo rivelare a noi stessi conquistandola e quindi annullandone l’insidia, nel momento in cui la conosciamo. E’ l’inconoscibile kantiano, è il noumeno.
E’ anche qui lo spirito romantico, cioè nella passione dell’individuo che si scatena contro l’elemento naturale e cerca di dominarlo. Il “Prometeo liberato” era un’opera di Shelley. E ritroviamo questo spirito prometeico in Achab, che sfida la balena bianca come un gigante sfidava gli dei trovando la morte. Nel naufragio periscono tutti quei giovani o vecchi ai quali ha imposto questa avventura pericolosa, e lo stesso Starbuck. E sopravvive questo Ismaele, che ha il destino di raccontare tutto.
Il mito ulisseo di Achab, che tenta di conoscere, tenta di affondare il suo sguardo e la sua azione in tutto quello che gli elementi gli vorrebbero negare di affrontare, rappresenta la inestinguibile carica dell’uomo alla ricerca di se stesso, del suo valore nel mondo e di ciò che spieghi quello che nel mondo non si spiega pienamente. E con questo vi lasciamo. Arrivederci.
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