Antologia - TERZO ANNO - 19^ Lezione
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PIRANDELLO: IL TEATRO
Diciannovesima lezione, con Barbara. Siamo al secondo appuntamento con Luigi Pirandello. Prima di passare ad analizzare il suo teatro, facciamo un rapido riferimento al suo breve avvicinamento al cinema nascente, con i “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, in cui, parlando di un operatore alla macchina da presa, l’autore finisce poi per stabilire come assurda quell’attività perché deforma la realtà.
Su questo rapporto fra realtà e finzione è comunque centrato tutto il teatro pirandelliano. Cominciamo da quello che è un testo fondamentale di cui non leggeremo nulla, ve lo riassumerò, “Così è (se vi pare)”, tratto da una novella dal titolo “La signora Frola e il signor Ponza suo genero”, dove tre personaggi scampati a un terremoto all’improvviso compaiono in una cittadina e si comportano un po’ stranamente.
Sono un marito, una moglie e la mamma di lei, almeno in apparenza. Vivono separati, la signora comunica con la moglie di Ponza soltanto attraverso un paniere di quelli che si calano dalla finestra. Sembrerebbe impedito da lui l’avvicinamento fra mamma e figlia. La gente comincia ad incuriosirsi, nei vari salotti si discute e si vuole sapere a tutti i costi perché questo accada. E questa insistenza provoca l’intervento sia del signor Ponza che dell’anziana signora Frola. Prima lui va a visitare queste signore che si occupano dei loro fatti per dire la sua verità, che cioè questo accade perché la signora Frola non è la mamma di sua moglie, ma loro fingono per lei perché la vera figlia, la sua prima moglie, è morta e vogliono mantenerla nell’illusione che la seconda moglie sia ancora la prima e cioè sua figlia. Sono tutti tranquilli, contenti di questa verità, quando poi compare la signora Frola a dare un’altra versione dei fatti, dicendo che quella è la prima moglie, è sua figlia e loro due hanno simulato un secondo matrimonio perché per la sua gelosia lui la distruggeva. Ponza è convinto di essersi risposato con un’altra, in realtà sta sempre con sua figlia. E mantengono questa finzione per lui, per non dargli troppa noia. La novella si chiudeva con questo dubbio, con l’autore che domandava al lettore quale fosse la verità.
Al momento della versione teatrale, Pirandello aggiunge qualcosa. Prima di tutto un personaggio, Stefano Laudisi, che, mentre questi borghesi si accaniscono per sapere la verità, ogni tanto sbotta in una grande risata, ammonendo che esiste “una” verità, non “la” verità in assoluto. Naturalmente rappresenta lo stesso autore. L’altra differenza è che nel finale compare la sola che può conoscere la verità, la moglie di Ponza, che si presenta velata, come nella comune iconografia, e dice di essere colei che la si crede, cioè la prima moglie per quello che dice la signora Frola, la seconda per quello che pensa suo marito, il signor Ponza. E Laudisi conclude con una bella grande risata, come a dire: la verità l’avete avuta, cioè non l’avete avuta.
L’altra grande opera della quale vogliamo parlare oggi è “Enrico IV”, una tragedia nella quale un poveraccio, che insieme ad altri giovani stava partecipando a una grande mascherata, cade da cavallo e impazzisce. Dopo venti anni gli amici decidono, con l’aiuto di uno psicologo che applica gli schemi di Freud, di farlo guarire. Essendo lui impazzito dal momento in cui ha cominciato a credersi l’Enrico IV che impersonava in quella maschera, quello che andava a Canossa a chiedere il perdono del papa, bisogna fargli rivivere quella situazione. E quindi si mettono d’accordo, vanno lì e gli presentano Frida, la figlia di quella che, mascherata da Matilde di Canossa, lo aveva fatto innamorare, e per la quale aveva litigato con Belcredi, suo rivale d’amore, che somiglia moltissimo alla madre di vent’anni prima. Sembra che tutto funzioni ottimamente per fargli rivivere quel momento, vista la somiglianza di Frida alla madre e la sua reazione, quando Enrico IV comincia a dire, rivolgendosi al dottore…
ENRICO IV: E allora, dottore, vedete se il caso non è veramente nuovo negli annali della pazzia! - preferii restar pazzo - trovando qua tutto pronto e disposto per questa delizia di nuovo genere: viverla - con la più lucida coscienza - la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d'un sasso che m'aveva ammaccato la testa! La solitudine - questa - così squallida e vuota come m'apparve riaprendo gli occhi - rivestirmela subito, meglio, di tutti i colori e gli splendori di quel lontano giorno di carnevale, quando voi (guarda Donna Matilde e le indica Frida) eccovi là, Marchesa, trionfaste! - e obbligar tutti quelli che si presentavano a me, a seguitarla, perdio, per il mio spasso, ora, quell'antica famosa mascherata che era stata - per voi e non per me - la burla di un giorno! Fare che diventasse per sempre - non più una burla, no; ma una realtà, la realtà di una vera pazzia: qua, tutti mascherati, e la sala del trono, e questi quattro miei consiglieri segreti, e - s'intende - traditori! (Si volta subito verso di loro.)
Li chiama traditori perché loro hanno un po’ rivelato qualcosa. Dunque lui è rinsavito da tempo, ma ha continuato a fingersi pazzo. Il perché lo spiegherà tra poco a Belcredi. Tu sei Belcredi, Barbara…
ENRICO IV: (…)Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! -Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia.
BELCREDI: Siamo arrivati, guarda! alla conclusione, che i pazzi adesso siamo noi!
ENRICOIV: (con uno scatto che pur si sforza di contenere). Ma se non foste pazzi, tu e lei insieme, indica la Marchesa sareste venuti da me?
BELCREDI: Io, veramente, sono venuto credendo che il pazzo fossi tu.
ENRICO IV: (subito forte, indicando la Marchesa). E lei?
BELCREDI: Ah lei, non so...Vedo che è come incantata da quello che tu dici... affascinata da codesta tua «cosciente» pazzia!
Infatti segue questo gioco fra i due che tornano ad essere rivali per “Matilde” e si va verso l’epilogo. Intanto il protagonista ha spiegato perché ha continuato a fingersi pazzo per più di dieci anni. Perché aveva una posizione privilegiata, riusciva a vedere gli altri vivere senza maschera, come si fa davanti a un folle. E poteva fissarsi in una forma, quella di Enrico IV, mentre tutti nella vita reale, come abbiamo già visto nella lezione precedente, non riusciamo a fissarci perché partecipiamo ad un flusso, ad un continuo divenire. Aveva potuto anche divertirsi alle spalle degli altri, vedendo questa “enorme pupazzata” che è la nostra vita, come dice Pirandello in altri luoghi. Poi dice a Frida…
ENRICO IV: E ti sei spaventata davvero tu, bambina, dello scherzo che ti avevano persuaso a fare, senza intendere che per me non poteva essere lo scherzo che loro credevano; ma questo terribile prodigio: il sogno che si fa vivo in te, più che mai! Eri lì un'immagine; ti hanno fatta persona viva - sei mia! sei mia! mia! di diritto mia!
E si avventa su Frida, ma Belcredi reagisce…
(…) BELCREDI: (si libera subito e si avventa su Enrico IV). Lasciala! Lasciala! Tu non sei pazzo!
ENRICO IV: (fulmineamente, cavando la spada dal fianco di Landolfo che gli sta presso). Non sono pazzo? Eccoti! (E lo ferisce al ventre.)
E mentre Belcredi viene portato via ferito gravemente, Enrico IV conclude…
(…) ENRICO IV: Ora sì... per forza...(li chiama attorno a sé, come a ripararsi) qua insieme, qua insieme... e per sempre!
Si conclude così la tragedia. Mentre prima era pazzo per scelta, adesso lo diventa per necessità, per sfuggire alla punizione per l’aggressione a Belcredi. Si era convinto di potere eludere la vita, ma questa lo ha coinvolto di nuovo, per la gelosia e per altri sentimenti, e ha commesso l’errore che lo costringe ad essere pazzo per sempre.
Sul tema della pazzia insiste Pirandello in un’altra commedia precedente all’”Enrico IV”, che è “Il berretto a sonagli”, dove il protagonista Ciampa è un povero scrivano che, per i sospetti della moglie del suo principale, vede minacciata l’integrità della sua famiglia. Pensando che la moglie se la intenda con suo marito, la signora lo manda a sbrigare una commissione per vedere se, approfittando della sua assenza, lui vada a visitare la donna. Ciampa sospetta che sia questo il motivo della commissione, ma va dove gli è stato ordinato. Effettivamente poi il principale, quando rientra, va nello studio, che è attiguo all’appartamento dello scrivano, la polizia, che è stata allertata, li scopre insieme, c’è un grande scandalo, però poi risulta che l’uomo ha riferito di essere entrato solo per lavarsi le mani, che la signora lo ha accolto per questo motivo. Viene verbalizzato come sono andate le cose e tutto sembra rientrare, ma Ciampa intanto torna, con un paese intero che parla del fatto che li hanno trovati insieme, tutti gli fanno le corna, arriva stravolto a protestare contro la signora, le dice che prima di andare aveva tentato di girare la corda civile, per farle capire che non era il caso, che adesso le sta parlando con la corda seria e non vuole rischiare di passare alla corda pazza. Quando vede la reazione di questa donna, che ancora non ha capito quanto sia grave quello che è accaduto, e che il commissario lo vuole tranquillizzare dicendo che a verbale risulta che non c’è stato nulla (per il solito fatto che le cose non accadono se non sono nelle carte), usa la corda pazza: “Mi tocchi pure, sono freddo, le dico che li ammazzo, li ammazzo tutti e due”. Quando tutti temono la tragedia, sentendosi dire che è pazzo, gli viene l’idea: “Signora, c’è la soluzione. Lei è pazza! Deve fingersi pazza! Non sa che piacere essere pazzi!” Come in ”Enrico IV”, la follia è un privilegio, anche per potere gridare agli altri quello che si pensa, la verità, senza reazioni. Alla fine tutti convengono che è la cosa migliore per ricomporre la situazione e cercano di convincere la donna. Lei si esaspera, si comporta come una pazza e Ciampa è contentissimo, perché se lei è così tutto quello che è accaduto non ha valore ed è salvo il suo onore, il suo “pupo”, come lo chiama lui. Anche il titolo si spiega con il fatto che è come se girasse con un berretto a sonagli, visto che desta l’attenzione di tutti essendo “becco”. Grandissima interpretazione di questo personaggio da parte di Eduardo in un’ambientazione napoletana di questa commedia. Ne ricordo una memorabile anche di Salvo Randone, ma quella di Eduardo è veramente speciale.
E’ importante riflettere sulla pressione ossessiva dell’ambiente, che fa soffrire protagonisti come Ciampa e come Il signor Ponza e la signor Frola. Tanto che in un suo memorabile allestimento Romolo Valli immaginò il salotto in cui vengono convocati genero e suocera come una vera e propria “stanza della tortura”, dove si procede a un interrogatorio degno dell’Inquisizione soltanto per accanirsi a cercare una verità che deve tranquillizzare questi borghesi benpensanti.
Veniamo all’altra grandissima opera teatrale di Pirandello, “Sei personaggi in cerca d’autore”. In un teatro dove si sta provando un’opera di un certo Pirandello, “Il gioco delle parti”, si presentano, al capocomico e agli attori che sono lì per provare, sei personaggi che sono in cerca di un autore, nel senso che sono stati creati ma non è stata scritta per il teatro l’opera che li riguarda. E vorrebbero che fosse scritta e rappresentata. Il capocomico prima reagisce con assoluta ironia, per non dire fastidio, poi, ascoltando quello che raccontano, si convince a tentare di mettere in scena la loro commedia. Leggiamo ora come Pirandello nella sua didascalia introduce i personaggi. Dalla loro descrizione fisica capiremo anche le personalità dei sei individui…
Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l'uso di speciali maschere per i personaggi: maschere espressamente costruite d'una materia che per il sudore non s'afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S'interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I «Personaggi» non dovranno infatti apparire come «fantasmi», ma come «realtà create», costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori.
Personaggi che sono surreali, ma che devono apparire come reali. E poi con queste maschere…
Le maschere ajuteranno a dare l'impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell'espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il «rimorso» per il Padre, la «vendetta» per la Figliastra, lo «sdegno» per il Figlio, il «dolore» per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della «Mater dolorosa» nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganze, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l'idea che sia fatto d'una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria.
Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto e vano. Pallido, segnatamente nell'ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri.
La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d'avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi.
La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l'aria timida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch'egli di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita.
Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un'accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al collo.
Infatti la storia narra di un padre che ha il rimorso di avere abbandonato una famiglia e di una figliastra, che la moglie ha avuto da un altro compagno, che prova sdegno nel momento in cui il suo patrigno la incontra in una casa di appuntamento e poco prima del gesto irreparabile conosce la situazione. Lei si è data alla prostituzione proprio in seguito alla disgregazione della famiglia e la madre prova dolore per tutta la situazione. Ci sono poi gli altri tre protagonisti minori.
Ma non si riesce a mettere in scena questa drammatica storia perché le versioni degli stessi fatti date dai diversi protagonisti non si combinano; e a loro volta gli attori non riescono a interpretare la parte come ciascuno dei personaggi vorrebbe. “Ma non così, non proprio così come l’hai fatto tu”, protestano spesso, soprattutto il padre, perché l’attore ha un suo modo di interpretare, cosa che si aggiunge alla difficoltà di mettere insieme le diverse ricostruzioni.
Con questo Pirandello ha voluto fare teatro nel teatro e giocare sul rapporto fra realtà e finzione. Cosa che fa anche nella altre due opere della trilogia, “Questa sera si recita a soggetto” e “Ciascuno a suo modo”. Nella prima si parla dell’improvvisazione e un’attrice che deve simulare un malore poi sta male veramente: la finzione diventa realtà. Nella seconda si mette in scena la storia di due amanti, ma quelli veri sono tra il pubblico e si dirigono verso il palco protestando che quello che viene rappresentato non corrisponde alla realtà che loro hanno vissuto.
Fondamentale comunque è il fatto che Pirandello ha utilizzato due grandi categorie: la persona e il personaggio. Persona è quello che l’uomo sente di essere per sé, personaggio è il ruolo che è costretto a recitare per gli altri nella società. Usando termini hegeliani, l’es è quello che siamo per noi, il super-io è il nostro dovere essere per gli altri e l’io naviga tra questi due estremi, combattuto, con la crisi di identità. Pirandello chiama il personaggio “forma”, per cui diventa un conflitto tra persona e forma. Alla base di tutto c’è la crisi di identità dell’uomo moderno in una società che non ci realizza, che ci spersonalizza.
Voglio riportare il giudizio di un critico, Giovanni Macchia, in un suo saggio, “Luigi Pirandello”…
In “Così è (se vi pare)”, nei “Sei personaggi”, nell’ “Enrico IV” la scena non accoglierà più personaggi che agiscono, ma persone che hanno agito. “quando tu, comunque, hai agito” dice uno di loro “anche senza che ti sentissi e ritrovassi, dopo, negli atti compiuti, quello che hai fatto resta, come una prigione per te…nella prigione di questa forma non mia…”. Ciò spiega il carattere sempre più ergotante (cavilloso) dei personaggi più tipici del Pirandello maturo. (…) Sulla scena il dramma diviene una cosa sola con la discussione sul dramma. (…) Gli eroi shakespeariani nascono e vivono sul palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, e continuano a vivere quando il sipario è calato. I personaggi di Pirandello non hanno alcuna posterità. Calato il sipario, sono veramente morti. Il teatro è il luogo, insieme, della loro reincarnazione e della loro morte. Nati altrove, fuori del teatro, vi sprofondano per sempre, una volta che la rappresentazione è finita. Hanno bruciato se stessi in una deserta ansia d’eternità, su un palcoscenico ove non hanno mimato, né “ripetuta” la vita. Ed un senso di vuoto, di esistenziale tristezza prende lo spettatore che abbandona il teatro.
Quindi teatro senza azione, di riflessione, raziocinante. Spesso ci si annoia a seguirlo, perché prevale la riflessione sull’azione. Per questo motivo i personaggi di Shakespeare vivono anche dopo che li abbiamo visti sulla scena, mentre quelli di Pirandello muoiono con il chiudersi del sipario. L’ultima cosa che vi voglio riportare è quanto si dice da parte di Elio Gioanola sul rapporto fra Pirandello e la follia, , chiudendo il cerchio e ritornando a quello che abbiamo detto all’inizio…
In Pirandello la follia è sventura familiare, tema ricorrente dell’opera e potenzialità latente della condizione psichica privata. Nessun timore, da parte nostra, di coinvolgere la psicologia dello scrittore: non si tratta di curiosità diagnostica ma dell’individuazione di una struttura profonda che è la matrice, nel vissuto, di tutto il progetto creativo dell’opera.
Sta parlando della follia della moglie, all’origine della riflessione di Pirandello…
(…)Pirandello si maschera molto più di quanto non si confessi, anche se si confessa molto più di quanto non si pensi, dentro le maschere del suo narrare oggettivo e per “casi“ generalizzati. Pirandello è il più “savio” degli scrittori, oltre che il più tranquillo dei buoni borghesi del suo tempo: nessuna traccia di écriture en folie, evidentemente, ma, ed è questa l’ipotesi che abbiamo assunta, scrittura come difesa ed esorcizzazione contro una potenzialità psicotica latente.
E’ come se Gioanola volesse dire che anche Pirandello è ai limiti della follia e scrive per evitarla. Altra considerazione è quella sull’intervento del caso nella vita secondo il nostro autore. Tutto è casuale, niente è analizzabile come un fatto sicuro, tutto è magmatico, tutto è in divenire, di niente si può essere certi. Con questa ultima considerazione possiamo chiudere, ricordando che in fondo quello di Pirandello è uno dei rari casi in cui si fissi già a diciannove anni, nella lettera con cui abbiamo iniziato, un modo di vedere la realtà che poi si manterrà per tutta l’esistenza: “la vita sembra un’enorme pupazzata”. Arrivederci.
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