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Petrarca: la formazione umanistica




Antologia - 9^ Lezione
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anto 1,9 Title 1
https://www.youtube.com/watch?v=kuCs8XPqjv8

Approfondimenti letterari  (Rinvia in coda alla pagina)
PETRARCA UMANISTA
Siamo giunti al nostro nono appuntamento con Antologia. Accanto a me Barbara Petti, che è stata alunna del liceo scientifico e ora…
BARBARA: Studio Beni culturali
Quindi siamo tutti nel ramo umanistico. E di Umanesimo parleremo oggi, Barbara. Non torneremo più su Dante. Oggi la nostra lezione è dedicata a un altro grande della letteratura, Petrarca. Però abbiamo anche sacrificato il canto del conte Ugolino, per poter chiudere con quello di Ulisse e con la riflessione sul nascente, affiorante umanesimo in Dante, che emerge però nei limiti, nelle difficoltà di un uomo della fine del Duecento. Petrarca sarà il primo grande umanista. Ma già Dante aveva avviato questa idea, con la volontà di diffondere la scienza attraverso il Convivio, e con la stima, l’amore per il personaggio di Ulisse, che ha l’ansia di conoscere e di divenire del mondo esperto…
L’umanesimo di Dante e di Ulisse è in fondo anche uno dei temi chiave di un grande romanzo, “Il nome della rosa”, di cui leggeremo un passo. Vi si parla di Guglielmo da Baskerville, che ha un grande amore per i  testi antichi e ne va cercando le copie nei monasteri, in questa storia che Umberto Eco colloca nel 1327, dopo la morte di Dante, un anno importante, scelto perché è quello in cui Petrarca dice di conoscere Laura o in cui fioriva l’opera di un altro Guglielmo, di Ockam, al quale si ispira il protagonista. Ma vediamo, per entrare subito in argomento, le prime pagine del romanzo. Tu, Barbara, sei  Adso, che si chiama così da Watson, diventato Watso, poi Atso, infine Adso, dal personaggio di Conan Doyle, al quale Gulglielmo, come Sherlock Holmes, deve sempre spiegare quello che accade. Nel suo nome si allude al “Mastino dei Baskerville”, uno dei racconti della serie poliziesca. Adso dopo tanti anni, ricorda questa vicenda vissuta da giovane novizio con il vecchio Guglielmo, che gli faceva da padre, dell’ordine francescano. lui, francescano tu. State arrivando in un’abbazia delle Alpi in località imprecisata, ricostruita poi in realtà in Germania, nel film di Annoud, regista francese…
 
(leggono Barbara come il narratore Adso e il professore come Guglielmo)
UMBERTO ECO, IL NIOME DELLA ROSA
Mentre i nostri muletti arrancavano per l’ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardando intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve.
“Abbazia ricca – disse - all’Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni.”
Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità: “Benvenuto signore – disse – e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Rodrigo da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne avvisato. Tu, - ordinò rivolto a uno del seguito – risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”

 
Remigio da Varagine, seguace di Fra’ Dolcino, uno dei terroristi di quel tempo, che ammazzavano i preti…
 
“Vi ringrazio, signor cellario –rispose cordialmente il mio maestro – e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l’inseguimento.. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arivtoa la deposito dello strame, dovrà fermarsi. E’ troppo intelligente per buttarsi lungo il sentiero scosceso…”
“Quando lo avete visto?-domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, vero Adso?” disse Guglielmo rivolgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale non può che essere là dove io ho detto.”
Il cellario esitò, guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò: ”Brunello? Come sapete?”
“Suvvia,” disse Guglielmo “è evidente che state cercando Brunello, il cavallo preferito dell’Abate, il miglior galoppatore della vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie sottili ma occhi grandi. E’ andato a destra, vi dico, e affrettatevi in ogni caso.”
Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
“Mio buon Adso” disse il maestro. “E’ tutto il viaggio che ti in segno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle isole diceva che “omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum” (ogni creatura del mondo è per noi come un libro e un’immagine allo specchio) e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere.”

 
E’ come se gli avesse detto “elementare Watson”, solo con molte più parole…
 
“Al trivio, sulla neve ancor fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità – così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale deve avere girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei crini nerissimi…Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve, e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.”
“Sì,” dissi “a il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi…”
“Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige”ut sit esigguum caput, et siccum prope ossibus adhaerente, aures breveset argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas”. Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se, “e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, “è un dotto benedettino…”
“Va bene,” dissi “ma perché Brunello?”
“Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro. “Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, no  trovò nome più naturale?”

 
Un cavallo bello si deve chiamare per forza Brunello…
 
Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornare assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l’umiliazione per non averla trovata da solo fu sopraffatta dall’orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza.
 
Questa splendida pagina del “Nome della rosa”di Umberto Eco per introdurre il discorso su Francesco Petrarca. Perché Guglielmo da Baskerville, lo splendido attore Sian Connery, soprattutto nelle scene finali del film che vi facciamo vedere, quando si sviluppa un incendio in questa abbazia immensa (immensa anche la biblioteca), non pensa tanto alla sua pelle quanto  agli antichi codici amati anche dal nostro poeta.
Ma poi tutta la vicenda del “Nome della rosa” sta a rappresentare in fondo il tema della conoscenza e dell’esperienza, che devono essere superiori alle teorie precostituite e ai pregiudizi, alle auctoritates, ai dogmi. E’ una lotta continua fra chi vive per la ragione e per la discussione di tutto, come Guglielmo, e chi invece si accontenta delle verità non dimostrate, dell’Ipse dixit aristotelico, come la Chiesa di quel Gui che alla fine accusa la ragazza di stregoneria…ma non vi voglio raccontare tutta la trama, che sarà oggetto dell’utima lezione del terzo anno, da noi dedicata a Umberto Eco.
Dicevo, questo amore per i libri, questo amore per il ragionamento, per la conoscenza, di Guglielmo, introduce benissimo la figura di Francesco Petrarca, di cui vi racconterò molto sommariamente la vita nei suoi momenti principali; poi leggeremo qualche passo, come sempre nello spirito della nostra lezione, che privilegia i testi.
E’ nato ad Arezzo nel 1304, da genitori bianchi fuorusciti da Firenze nel 1302, lo stesso anno della condanna all’esilio per Dante. Poi aveva seguito ad Avignone il padre,  funzionario presso la corte pontificia di quella città in Provenza, dove Clemente Quinto, di cui si parlava in una lezione precedente, favorito dal re di Francia, aveva portato la sede del pontificato, promettendo al sovrano di dargli per cinque anni le rendite ecclesiastiche. Petrarca fa i suoi primi studi in Avignone, poi a Montpellier, infine si reca anche a Bologna, dove vive anni più liberi, dei quali poi si pentirà, perché vedremo che Petrarca è sempre combattuto dal dilemma se si debba o meno approfittare dei beni terreni, dimenticando la superiore ricerca del bene eterno o spirituale.
Terminati gli studi, risiede in Valchiusa, luogo bellissimo nel quale aveva una villa. E lì, in Provenza, nel 1327, dice di aver conosciuto per la prima volta Laura, in un giorno di Venerdì Santo. Infatti nella prossima lezione, quando esamineremo il Canzoniere, leggeremo proprio quel sonetto nel quale ci parla di questo primo incontro. In fondo, vissuto sempre nell’ombra di Dante, cercando di essergli superiore (rosicando perché costatava che era insuperabile la sua figura, atteggiamento notato dallo stesso Boccaccio in alcune sue riflessioni),fa di Laura la donna della sua vita, come aveva fatto Dante con Beatrice. Dopo i 1330 segue il cardinale Colonna nei suoi viaggi in Europa, ed è qui che nasce il Petrarca umanista, perché nelle varie abbazie, nei conventi benedettini, nelle biblioteche dove i codici erano trascritti dagli amanuensi, rinviene le antiche opere, ritrova anche due orazioni di Cicerone. Immaginiamo l’entusiasmo per documenti che non si sarebbero mai potuti rintracciare se non in quei codici.
E poi per un grande numero di anni scrive solo in latino, Il “De otio religioso”, il “De sui ipsius et multorum ignorantia”, il “De remediis utriusque fortunae”, il “De vita solitaria”, il “De viris illustribus”. Manca poco che parli in latino. E comunica con altri dotti della sua epoca, manda lettere in latino. Sta nascendo la figura dell’umanista che parla così con quelli come lui, perché gli altri che parlano solo il volgare sono un po’ da allontanare, non dico schifare ma evitare insomma. E di tutta la grande opera di Petrarca ci rimarrà in volgare soltanto quel Canzoniere di cui parleremo nella prossima lezione.
Il “De viris illustribus” parla dei personaggi importanti. La tensione verso le grandi vite è  umanistica, perché è l’idea che in questo mondo conti  quello che noi facciamo: e per questo parliamo degli uomini illustri. E’ il criterio sallustiano che arriva fino a Petrarca. Nel “De vita solitaria” e nel “De otio religioso” parla dei beni della vita solitaria nel convento e della possibilità di passare la vita, il giorno, nell’ozio religioso; e, sembrerà strano a voi studenti, l’ozio per Petrarca è studio: cioè mancanza di lavoro per poter studiare, poter consultare i testi. Il “De remediis utriusque fortunae” parla dei rimedi dell’una e dell’altra sorte, cioè di come l’uomo deve rimediare per trovare una soluzione sia quando la fortuna è favorevole sia quando non è favorevole. Nel primo caso bisogna gioire, ma con prudenza, con limite, per essere pronti a sopportare il mutamento che prima o poi si prospetta. E ne secondo caso dobbiamo lamentarci, ma non dobbiamo perdere completamente la speranza, perché altrimenti non saremmo pronti a cogliere i frutti del cambiamento, questa volta nuovamente positivo, della sorte. Quindi, vedendo naturalmente i precedenti nell’antica filosofia epicurea, Petrarca dice che è l’equilibrio quello che consente di superare le passioni. Nel “De sui ipsius et multorum ignorantia” parla dell’ignoranza di lui stesso  e di molti altri: è un’opera polemica nei confronti di alcuni che avevano accusato lui di esserlo, figuriamoci; soprattutto il ragionamento di Petrarca è che tutti siamo ignoranti di noi stessi, che dobbiamo prima pensare a conoscere bene noi stessi per poi  passare alla conoscenza di altro.
Infatti in una famosa lettera indirizzata a Dionigi di San Sepolcro, riferendo su un’ascesa al Monte Ventoso, dice che mentre il fratello (che si era fatto monaco) per salire alla vetta segue la via più diretta, lui, Francesco, compie un percorso più lungo, perché non vuole prendere le strade troppo ripide. Cerca di evitare la fatica, ma finisce per faticare molto di più di chi ha scelto la via più difficile. Ma soprattutto, quando arrivano sulla vetta del Mont Ventoux, prende il libro di Sant’Agostino, le “Confessioni”, apre a caso e ritrova quella famosa frase in cui dice più o meno che vanno gli uomini a cercare le vette alte dei monti, a guardare intorno a sé lo spettacolo della natura (come lui stava facendo con la vista delle Alpi) e non si preoccupano di guardare prima dentro di sé.
Questo confronto con Agostino è esaltato anche in un altro scritto di Petrarca, il “Secretum”, che ha questo titolo più esteso: De secreto conflictu curarum mearum. Il segreto conflitto delle sue preoccupazioni è quello tra la tensione per i beni terreni e l’aspirazione ai beni spirituali. Ora leggeremo. Io sarò Francesco e tu una donna, cioè…
BARBARA: la coscienza
La coscienza, cioè Sant’Agostino…
 
FRANCESCO PETRARCA, SECRETUM, III
FRANCESCO: Almeno questo non vorrei tacere, fosse esso da ascrivere a gratitudine o a stoltezza: che tutto quel poco che mi vedi, sono per essa; né sarei mai giunto a questo grado- se qualcosa vale – di rinomanza o di gloria, se costei non avesse coltivato, con nobilissimi sentimenti, la tenuissima semente di virtù che natura aveva posto in questo cuore. Fu lei a distogliere il mio animo giovanile da ogni turpitudine, a ritrarlo, come dicono, con l’uncino, a farlo mirare ad alte mete. Perché non sarei cambiato secondo i costumi di chi amavo? Eppure non si è mai trovato nessuno così maldicente e malevolo che assalisse, per distruggerla, la fama di lei, che osasse dire – per non parlare delle sue azioni – di aver visto alcunché di condannabile nei suoi gesti e nelle sue parole: così coloro che non avevano lasciato nulla di intatto la risparmiarono, ammirandola e venerandola. Quindi non c’è affatto da meravigliarsi se questa sua fama tanto insigne arrecò anche a me il desiderio di una fama più fulgida e alleviò le mie durissime fatiche sostenute per conseguire ciò che desideravo. Che altro infatti desideravo da giovane, se non di piacere a lei sola, che proprio sola a me era piaciuta? E per raggiungere questo scopo, disprezzate le mille attrattive delle voluttà, tu ben sai a quanti affanni e fatiche mi sottoposi anzitempo. E mi comandi di dimenticare o di amare più tiepidamente colei che mi ha allontanato dal volgo, che ha spronato il mio torpido ingegno e svegliato il mio animo semisopito?
AGOSTINO: Disgraziato! Quanto ti sarebbe stato meglio tacere che non aver parlato. E’ vero che, anche nel tuo silenzio, guardandoti dentro avrei scorto lo stesso; ma tuttavia il fatto stesso della tua pertinace affermazione mi muove la nausea e lo sdegno.
FRANCESCO: Perché mai?
AGOSTINO: Perché pensare il falso è segno di ignoranza, asserire impudentemente l’errore è segno di ignoranza insieme e di superbia.
FRANCESCO: Qual è la prova che io senta o enunci così falsi errori?
AGOSTINO: Ma tutto ciò che hai ricordato! E prima di tutto quando dici d’essere ciò che sei in grazia sua. Se con ciò intendi che ti abbia dato ella questo essere, senza dubbio tu menti; se invece che ella non ti abbia permesso di essere da più, allora dici la verità. Ah, che grand’uomo saresti potuto riuscire, se ella con le seduzioni della bellezza non te n’avesse allontanato. Quello che sei, dunque, te l’ha dato la benignità della natura; ciò che potevi essere te l’ha tolto lei, o piuttosto l’hai gettato via tu, perché ella è innocente. La sua bellezza veramente ti è apparsa così lusinghiera, così dolce, che attraverso gli ardori dell’acceso desiderio e le continue piogge del pianto ha inaridito in te ogni messe che poteva sorgere dalla virtuosa tua semenza nativa. Che ella poi ti abbia trattenuto da ogni atto turpe, te ne vanti a torto; ti ritrasse forse da molti, ma ti ha sospinto in affanni maggiori. Perché né chi, pur ammonendoci di evitare una via lorda di brutture, ci spinga poi in un precipizio, né chi, pur guarendoci da minori piaghe, ci dia frattanto alla gola una ferita mortale, sarà da dirsi nostro liberatore piuttosto che nostro uccisore (…)
FRANCESCO: l’agile schermitore fa la finta e dà la botta; io sono impaurito così dalla finta come dalla botta, e già comincio a vacillare gravemente.
AGOSTINO: Quanto più gravemente vacillerai, quando ti avrò inferto una ferita gevissima. Perché costei che esalti, alla quale asserisci di dovere ogni bene, è quella che ti rovina.
FRANCESCO: Buon Dio, in che modo potrò persuadermene?
AGOSTINO: Ella ti ha allontanato l’animo dall’amore celeste, ed ha deviato il tuo desiderio dal creatore alla creatura, che è sempre stata l’unica e più spedita via verso l’errore.
FRANCESCO: Non dare, ti prego, una sentenza precipitosa: l’amore di lei giovò, te l’assicuro, a farmi amare dio.
AGOSTINO: Ma invertì l’ordine.
FRANCESCO: In che modo?
AGOSTINO: Perché mentre tutto il creato deve essere tenuto caro per amore del creatore, tu al contrario, preso dalle grazie di una creatura, hai amato il creatore non come si conveniva, bensì ammirando in lui l’artefice di quella, quasi non avesse creato nulla di più bello, mentre la venustà corporea è l’ultima delle bellezze.
FRANCESCO: Chiamo per testimonio quella che è qui presente e faccio conteste la mia coscienza che, come ho detto dianzi, non ho amato il corpo più che l’animo suo. Il che potrai vedere da ciò; che quanto più ella è avanzata nell’età, che è la rovina inevitabile della bellezza corporea, tanto più fermo io sono rimasto nel mio pensiero; perché, quantunque il fiore della giovinezza visibilmente appassisse col passare del tempo, cresceva con gli anni la bellezza dell’anima, la quale come dette inizio all’amore così mi ci fece perseverare dopo che vi fui entrato. Altrimenti, se mi fossi smarrito dietro il corpo, già da gran pezzo sarebbe stato tempo di mutare proposito.
AGOSTINO: mi can zoni? Forse che se quell’animo stesso abitasse in un corpo squallido e rozzo ti sarebbe ugualmente piaciuto’
FRANCESCO: non oso dire questo, dacché né l’animo si può intravedere né l’immagine corporea me l’avrebbe fatto sperare tale; ma se apparisse alla vista amerei senza dubbio la bellezza di un animo anche se avesse un corpo deforme.
AGOSTINO: Tu cerchi di puntellarti sulle parole; perché se puoi amare solo ciò che appare alla vista, segno è che amasti il corpo. Né vorrò tuttavia negare che anche l’animo di colei e i costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, appunto come il suo nome stesso (secondo quello che dirò a breve) contribuì non poco, anzi moltissimo, a questi tuoi furori. Accade infatti in tutte le passioni dell’animo, ma specialmente in questa, che da piccole faville insorgano grandi incendi.
FRANCESCO: Vedo a che tu mi costringi: a confessare cioè con Ovidio: “l’animo amai insieme al corpo”.

 
E con queste parole di Petrarca e Agostino chiudiamo questa nona lezione di Antologia.
♦ Indice


Approfondimenti letterari dal sito “letteritaliana.weebly”
Questo è un sito senza fini di lucro dedicato ai principali autori e testi della letteratura italiana dalle Origini al Novecento, con pagine descrittive e dedicate ai testi antologici più importanti. Sono presenti anche pagine di approfondimento su alcuni temi particolarmente rilevanti e "link" a video di interesse su argomenti culturali e sulle opere trattate.

In questa sezione si trovano le pagine relative ad alcuni percorsi della storia letteraria italiana, con particolare attenzione ad alcuni periodi significativi, ai generi letterari più importanti, a scuole e movimenti di un certo rilievo, tenendo conto della tradizione storico-letteraria. 

♦ I grandi della letteratura italiana: Francesco Petrarca


(Testi di Petrarca)
In questa sezione si trovano i testi (passi antologici) tratti dalle opere più significative della tradizione letteraria italiana e, occasionalmente, straniera, con una sintetica introduzione, note esplicative, una breve interpretazione. 
Francesco Petrarca
    L'ascensione del Monte Ventoso (Fam., IV, 1)
    L'amore per Laura (Secretum, III)
    Elogio dell'uomo solitario (De vita solitaria, I, 2)
    La morte di Laura (Triumphus mortis, I, 72-138)
    Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono (Canz., 1)
    Era il giorno ch'al sol si scoloraro (Canz., 3)
    Movesi il vecchierel canuto et biancho (Canz., 16)
    Solo et pensoso (Canz.Canz, 35)
    L'oro et le perle (Canz., 46)
    Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina (Canz., 50)
    Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (Canz., 90)
    Piangete, donne, et con voi pianga Amore (Canz., 92)
    Chiare, fresche et dolci acque (Canz., 126)
    Italia mia, benché 'l parlar sia indarno (Canz., 128)
    Di pensier in pensier, di monte in monte (Canz., 129)
    Fiamma dal ciel su le tue treccie piova (Canz., 136)
    O cameretta che già fosti un porto (Canz., 234)
    La vita fugge, et non s'arresta una hora (Canz., 272)
    Tutta la mia fiorita et verde etade (Canz., 315)
    I' vo piangendo i miei passati tempi (Canz., 335)
    Vergine bella, che di sol vestita (Canz., 336)