Antologia - 10^ Lezione
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anto 1,10 Title 1
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♦ Il Canzoniere di Petrarca (flipped classroom)
PETRARCA: CANZONIERE
Decima lezione di Antologia, con Barbara. Nella precedente ricorderete la scena dell’incendio nel “Nome della rosa” di Annoud, tratto dal libro omonimo di Umberto Eco, in cui Guglielmo da Baskerville cerca di salvare i volumi della grande biblioteca del monastero. Un segno del grande interesse per il libro nel primo umanesimo, di cui fu protagonista appunto Francesco Petrarca. Abbiamo ricordato le sue opere in latino e l’ultima, il “Secretum”, in cui recitavamo, nei panni di Petrarca e della sua coscienza, cioè di Agostino. Un altro inserimento nel preumanesimo era stata la vicenda di Marco Polo. Vedremo ora le immagini del film di Montaldo in cui il Gran Cane lo interroga sulle ragioni dei suoi viaggi, sulle curiosità che presiedono alla sua ansia di scoprire il mondo….
SCENA DAL FILM “MARCO POLO”, DI GIULIANO MONTALDO
GRAN CANE: Ora dimmi, cosa ti ha interessato di me?
MARCO POLO: Molte cose. Le diverse credenze, le abitudini, il modo di vivere, quasi tutto.
GRAN CANE. Per esempio?
MARCO POLO: Quello che la gente coltiva, l’aiuto ai malati, agli anziani, come educano i figli, il commercio, cotone, perle a Bagdad e altre cose, se estraggono dalla terra il metallo o le pietre preziose o qualcosa di misterioso come l’amianto.
GRAN CANE: L’amianto?
MARCO POLO: E’ una specie di panno che resiste al fuoco. Molti pensano che sia fatto con la pelle della salamandra, ma non è vero. E’ il minerale da cui si ricavano fili, che poi vengono tessuti. L’ho visto nelle montagne del Xiang Chang.
GRAN CANE: Continua.
MARCO POLO: La pecora selvatica delle montagne, on le corna di sei palmi ed oltre. Lo yak, il toro della foresta, la cui coda da voi è tanto apprezzata. E poi i motivi che creano i racconti, le leggende. Cosa rende un popolo forte oppure debole, deciso o incerto.
GRAN CANE: E puoi ricordarti tutto questo?
MARCO POLO: Ho preso qualche appunto per aiutarmi. Per esempio, i prodotti principali di una regione, quanti giorni ci vogliono per attraversarla, la distanza tra una città e l’altra. Poi ci sono anche…
GRAN CANE: Sì, anche…
MARCO POLO: Ogni posto, ogni città manda dei segnali ai nostri occhi…
GRAN CANE: Segnali?…
MARCO POLO: Il modo in cui sono tracciati i sentieri e le strade, l’allineamento degli alberi e le tracce dei solchi dei campi…
GRAN CANE: Ciò mostra se la gente ama l’ordine o è orgogliosa del proprio lavoro…
MARCO POLO: Sì, certo. Nella mia città, Venezia, mia madre diceva spesso: “Quello che la gente stende al sole ad asciugare racconta la storia del paese.
Nelle risposte di Marco c’è tutto l’interesse per la conoscenza di cui abbiamo parlato. Ma passiamo ora al Canzoniere, l’unica opera in volgare, che si apre con il sonetto “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”. E’ quello riassuntivo, collocato all’inizio di questa serie di centinaia di componimenti, per dare una visione d’insieme del contenuto dell’opera. Infatti, come vedremo fra poco, Petrarca vi si rivolge a tutti quelli che ascoltano in rime sparse il messaggio poetico d’amore. Ve lo leggo…
VOI CH’ASCOLTATE
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Voi che ascoltate i versi sparsi, i suoni dei miei sospiri dei quali nutrivo il mio cuore negli anni in cui si compiono gli errori giovanili, negli anni del vagare giovanile nelle varie esperienze, quando ero in parte un uomo diverso da quello che sono in questo momento (Petrarca ha spesso parlato di quella giovanile come di un’esperienza da superare e si è sempre messo in rapporto con le età precedenti, dicendo di essere migliorato, ma non abbastanza), spero di trovare tra di voi, che potete nei miei versi rileggere le esperienze d’amore dei giovani come me, pietà e anche perdono per il vario stile, per il vario modo nel quale mi lamento e ragiono, discuto, tra le vane speranze, il vano dolore, proprio tra chi intende per prova l’amore, cioè sa cos’è per averlo sperimentato, sicuro di trovare perdono per il mio cedimento alla passione presso quelle persone che hanno avuto la stessa esperienza. Però vedo bene ora come per tutto il popolo sono stato una favola, un oggetto di scherno, divertimento, per lungo tempo, per cui spesso mi vergogno di me stesso con me stesso (ricorderai i colloquio tra Francesco e la sua coscienza, Agostino, che gli rimprovera le stesse cose di cui qui, nel Canzoniere, dice di vergognarsi: si è dedicato troppo ai beni terreni). E il frutto del mio vaneggiare è la vergogna, il pentirsi, il riconoscere chiaramente che quello che piace a questo mondo, i beni terreni che inseguiamo, sono un breve sogno, qualcosa di precario, destinato a sparire.
E’ un sonetto, con quattro strofe, due quartine e due terzine, con lo schema classico di rime: ABBA,ABBA,CDE,CDE. Poi ci sono le note sui suoni. Petrarca, quando è necessario, lavora molto sulle assonanze, sulle ripetizioni e allitterazioni. Per esempio, se facciamo caso, Barbara, vedi che si ripetono le sillabe con consonante “v”: voi, nudriva, giovenile, vario, vane, van, ove, prova, trovar, veggio, favola, sovente, vergogno, vaneggiar, vergogna, breve. Tutto questo per sottolineare la sillaba “va” della parola tematica “vanità”, per ribadire cioè con un artificio che tutto quello che inseguiamo in questo mondo è vano. E’nello stesso tempo perizia stilistica, ma anche la sua modernità rispetto ai suoi tempi. Un’altra ripetizione la ritroviamo nel verso 11: “di me medesmo meco mi vergogno”. Si ripete il “m” di “me”, l’altra parola tematica, cioè lui stesso, l’io: la vanità del mondo confrontata, attraverso questo doppio accorgimento stilistico, con l’impegno, il problema e la responsabilità dell’io, che non dovrebbe seguire quella vanità.
Una cosa che di solito si rileva con gli studenti è la tecnica della “ripresa”, la ripetizione di un termine, o di un concetto. In questo caso le due parole in ripresa sono “vergogno” e “vergogna”, al termine della prima terzina e nel primo verso della seconda. Questo, secondo gli schemi di quel tempo, ci indica che il sonetto si divide in due parti, di cui la prima si chiude col verso che contiene la prima parola in ripresa, la seconda contiene la seconda parola in ripresa. Quindi questo sonetto si divide in due parti, di 11 e di 3 versi.
Non abbiamo il tempo per approfondire altre cose che riguardano la struttura del componimento, il rapporto tra il passato e il presente e l’alternarsi del riferimento al mondo e a se stesso. Ripetiamo solo che è veramente il sonetto riassuntivo, in cui si riferisce a tutte le rime del Canzoniere, che dovranno essere lette e ascoltate dal suo ideale pubblico,, ali quale chiede perdono per le sue vanità, soprattutto a quelli che hanno sperimentato l’amore. Passiamo ad un altro: “Solo e pensoso”. Leggi Barbara…
SOLO E PENSOSO
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human la rena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so, ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.
Vado misurando a passi tardi e lenti, preso dai miei pensieri, i campi più deserti, cioè mi addentro nelle parti più abbandonate dagli uomini e porto gli occhi intenti per fuggire, cioè cerco di rivolgere i miei sguardi intorno per evitare i luoghi nei quali la rena stampi vestigio umano, dove la terra stampi orme umane, per evitare la gente. Altro schermo, altro riparo non trovo che mi scampi, mi salvi dal manifesto accorgere, cioè dall’attenzione chiara della gente, perché si legge di fuori come io dentro avvampi nei miei atti spenti di allegria, cioè nei miei atti privi di allegria gli altri potrebbero leggere di fuori il mio tormento interiore. Sicché io credo ormai che monti, piagge, pianure, fiumi e boschi sappiano di che tempra sia la mia vita, di che tenore, di che consistenza, quale sia la realtà della mia vita, che è nascosta agli altri. Si verifica il paradosso: poiché lui evita sempre le altre persone, forse di come sta lui sanno qualcosa più i luoghi che lui frequenta, monti, pianure, boschi, fiumi, che le persone che evita. E però, ci dice in quest’ultima terzina che è la seconda parte del sonetto, per quanto cerchi di isolarsi, è sempre in compagnia di qualcuno. Ma pure non so cercare, e quindi trovare, delle vie così aspre, così selvagge, così abbandonate da tutti che non venga qualcuno con me, cioè l’amore, parlando con me, e io parlando con lui. Per quanto voglia cercare la solitudine…
BARBARA: C’è sempre l’amore con lui.
Anche qui c’è una ripresa, tra le parole “selve” e “selvagge”, che conferma come la prima parte del sonetto comprenda i primi undici versi e l’altra sia l’ultima terzina. E’ il rapporto tra “selve”, cioè i luoghi della natura, e “selvagge”, l’aggettivo che indica i luoghi della natura tali da evitare l’incontro con le persone: la natura frequentata contrapposta a quella non frequentata, cercata per isolarsi. Ne leggo un altro:
ERA IL GIORNO
Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo5
contra colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s’incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,10
che di lagrime son fatti uscio et varco:
però, al mio parer, non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l’arco.
Questo sonetto parla del primo incontro di Francesco con Laura, avvenuto un Venerdì Santo, il 6 aprile del 1327. Alla fine dello stesso anno, come abbiamo ricordato, Umberto Eco ambienta “Il nome della rosa”. Quindi era il giorno in cui anche al sole si scolorirono, impallidirono, i raggi per pietà verso il suo creatore, in cui si ha pietà per la passione di Cristo, quando io fui preso, imprigionato, dall’amore e non me ne guardai, non me ne difesi, perché i vostri begli occhi, o donna, mi legarono, mi incatenarono. Non mi sembrava tempo, cioè il momento, per far riparo, per ripararmi, dai colpi dell’amore: io andavo tranquillo, pensavo che il giorno di Venerdì Santo uno non si dovesse difendere dai colpi dell’amore, perché era quello destinato alla dedizione, senza sospetto, senza potere immaginare cosa mi sarebbe accaduto. “Senza sospetto” è la stessa espressione usata da Dante per la situazione di Paolo e Francesca. Per cui i miei guai, guai d’amore, cominciarono nel momento del comune dolore, mentre tutti soffrivano per la rievocazione della morte di Cristo. L’amore infatti mi trovò del tutto disarmato, impreparato a difendermi, e aperta la via per arrivare al cuore, attraverso quegli occhi che sono uscio e varco per le lacrime, dai quali entra l’amore ed esce la sofferenza per l’amore. Però, a mio parere, non fu un onore, per l’amore, ferire me di saetta in quella condizione, cioè quando non ero preparato, armato, e invece non mostrare nemmeno l’arco a voi, amata. Si espone un paradosso; che lui era disarmato e fu colpito dall’amore, mentre Laura, ben armata, non fu nemmeno sfiorata. Che poi è la triste vicenda di un uomo che ha sempre detto che chi amava era lui, mentre Laura lo respingeva sempre, soprattutto per pudore, probabilmente. Passiamo a un altro sonetto, che leggerai tu…
ERANO I CAPEI D’ORO
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;
e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?
Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
Ricordi che era il motivo di una Laura che non è uguale nel corso della sua vita, no?
BARBARA: No, praticamente qui è ritratta come se parlasse al passato, cioè si ricorda Laura come era allora e oggi i suoi occhi son così scarsi della luce che emanava prima.
E’ un sonetto sulla corruzione della bellezza col passare del tempo; però la conclusione, spieghiamolo subito, è che, anche se Laura non è più bella come prima, il suo amore…
BARBARA: C’è ancora.
Anzi, è ancora più profondo. Andiamo a commentare. I capelli di Laura erano sparsi all’aria: c’è questo gioco tra “l’aura” e “Laura”, nome che sappiamo essere tale anche perché deve richiamare il “laurum”, cioè l’alloro che veniva dato ai poeti per la gloria. L’aria li avvolgeva in mille dolci nodi. Capelli ricci, mossi. E ardeva oltre misura il vago lume, cioè il bel lume, di quegli occhi che ora sono così scarsi di quella luce viva della bellezza giovanile. E mi sembrava che il viso di Laura, non so se era vero o falso, si facesse di colori pietosi. E’ il solito commento di Petrarca, che non sa se Laura qualche volta ceda nei suoi confronti. Io vedevo, cercavo di intravedere nel suo sguardo ogni tanto qualche atteggiamento di pietà. Non c’era mai, comunque. Io che avevo nel mio petto l’esca amorosa, cioè avevo dentro l’attrazione, che meraviglia c’è se subito arsi, bruciai di desiderio, di passione e di amore per una donna così bella? Non era l’andar suo cosa mortale, il suo modo di camminare non era quello di una donna comune, ma di una dea…
BARBARA: La donna angelo del Dolce Stil Novo.
In particolare la donna gentile di Dante, Beatrice, che passa in mezzo a tante donne e tanti uomini che l’ammirano. Quindi il suo procedere non era cosa mortale, ma di angelica forma, di un angelo. E le parole sue risuonavano altro che voce umana, non erano quelle di una creatura terrena, ma di una dea. Uno spirito celeste, un vivo sole fu quello che io vidi. E se pure non fosse ora tale, ammesso pure che oggi non fosse più bella e giovane come era prima, non significa nulla, perché la piaga, la ferita, non sana, non si risana, per il fatto che l’arco sia stato allentato, cioè, dopo essere stato teso per scagliare la freccia dell’amore, adesso sia rilasciato. Il fatto che non ricominci a saettare l’amore non determina che Petrarca non ami Laura. Continua ad amarla come una volta; anche se, non essendo più bella e giovane, l’arco non è teso e la freccia non viene scoccata, diretta, pungente, veloce e forte come una volta dal punto di vista fisico, dal punto di vista spirituale e mentale è sempre più forte, anzi la sua ferita non guarisce. Anche qui c’è una ripresa, non di parola ma di concetto: “spirto celeste” al verso 12…
BARBARA: E “angelica forma”.
E’ una ripresa tematica, non lessicale, per dire che il concetto fondamentale di questo sonetto è questo appunto: la forma angelica, l’idealità della figura di Laura. La ripresa ci dice che questo sonetto ha una prima parte che contiene tre strofe e una seconda che coincide con l’ultima. D’altra parte abbiamo chiarito che questa è separata dal resto, perché ci dice che, nonostante Laura non sia più giovane, il suo amore è vivo come quello di una volta. Leggiamo ora un ultimo sonetto:
LA VITA FUGGE
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
5e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi penser’ fòra.
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
10ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
E’ uno dei sonetti in cui si presenta il Petrarca più moderno, quello che parla della precarietà dell’esistenza, del passare del tempo, della vita che fugge, non si arresta mai. La morte viene dietro a grandi tappe, E combattono dentro di me le cose presenti, le passate e le future. E mi accora, mi addolora, il ricordare e l’aspettare, il ricordare il passato e l’aspettare un futuro dal quale non mi attendo nulla di buono. Sicché in verità, se non fosse che ho pietà di me stesso, sarei già fuori di questi pensieri, cioè mi sarei già suicidato. Mi ritorna davanti se ho mai avuto qualche momento di dolce, di dolcezza, di vero piacere e poi dall’altra parte vedo turbati i venti alla mia navigazione. Un’immagine che già aveva usato Dante: la vita paragonata al percorso di una nave davanti a quale già c’è la tempesta. E niente gli fa prospettare qualcosa di positivo. Veggio fortuna in porto, vedo la tempesta in porto (fortuna è termine latino) e vedo ormai stanco il mio nocchiero, cioè il mio cuore (che guida questa nave che sarebbe la mia vita) e rotti gli alberi, rotte le corde; e vedo anche spenti i lumi, cioè gli occhi belli che solevo mirare, cioè quelli di Laura. E il tempo fugge, come è fuggito il tempo di questa decima lezione.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
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Solo et pensoso
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Pace non trovo, et non ò da far guerra
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Chiare, fresche et dolci acque
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