Antologia - 13^ Lezione
(Cliccare sulle parole in caratteri blu)
https://youtu.be/dyDj_rfNQZw
anto 2,13_Title_1.MPG
PARINI: Dialogo sulla nobiltà, Il Giorno
Tredicesima lezione di Antologia. Accanto a me Mariateresa Spina. L’ultima volta abbiamo trattato l’illuminismo meridionale. Oggi torniamo a Milano, nella zona dell’illuminismo settentrionale, per l’analisi della grande personalità di Giuseppe Parini.
Parini è stato un funzionario dell’amministrazione milanese, ha lavorato sotto Maria Teresa d’Austria, è stato vicino all’ambiente del Caffè, intorno alla metà del Settecento, ha assunto delle posizioni particolari a proposito dell’aristocrazia, della nobiltà, che frequentava, è stato servitore di due grandi famiglie del tempo, conosciute nell’accademia, nell’Arcadia, un istituto culturale della prima metà del secolo. Anche lui, appartenendo a questo mondo, aveva scelto un soprannome, si chiamava Ripano Eupilino, perché era nato sulla riva del lago di Eupili, nome arcadico del lago di Pusiano, che ha sempre amato, luogo di benessere, di salute, di aria buona, che poi canterà nell’”Ode alla salubrità dell’aria”.
Ma prima di entrare in questo campo vi voglio ricordare i suoi atteggiamenti nei confronti della nobiltà, che sono appunto di odio-amore, di aperta critica del mondo dei nobili, che però, come vedremo, poi non si spinge oltre certi limiti. Nel “Dialogo sopra la nobiltà” Parini parla di un luogo nel quale siamo tutti uguali, quello lì… Immagina che si incontrino in una tomba, sottoterra, un nobile e un poeta…
(Il professore nei panni del nobile, Mariateresa in quelli del poeta)
GIUSEPPE PARINI, DIALOGO SOPRA LA NOBILTÀ
NOBILE: Fatt’in là mascalzone!
POETA: Ell’ha il torto, Eccellenza. Teme Ella forse che i suoi vermi non l’abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch’e’ vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d’un Poeta.
NOBILE: Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perché ardisci tu di starmi così fitto alle costole come tu fai?
POETA: Signore, s’io stovvi così accosto, incolpatene una mia depravazione d’olfatto, per la quale mi sono avezzo a’ cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le intestina! essi destano effluvii così fattamente soavi che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.
NOBILE: Poltrone! Tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a’ vermi, egli è perché in vita ero avezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.
POETA: Oh, oh, sibbene, Eccellenza! Io ricordomi ancora di quella turba di gnatoni e di parassiti, che vi s’affollavan dintorno. Oh, quante ballerine, quante spie, quanti barattieri, quanti buffoni, quanti ruffiani! Diavolo! perché m’è egli toccato di scender quaggiù vosco; ch’altrimenti io gli avrei annoverati tutti quanti nel vostro epitaffio?
NOBILE: Olà, chiudi cotesta succida bocca; o io chiamo il mio lacché, e ti fo bastonar di santa ragione.
POETA: Di grazia, Vostra Eccellenza non s’incomodi. Il vostro lacché sta ora qua sopra con gli altri servi e co’ creditori facendo un panegirico de’ vostri meriti, ch’è tutt’altra cosa che l’orazion funebre di quel frate pagato da’ vostri figliuoli. Egli non vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.
NOBILE: Linguaccia, tu se’ tanto incallita nel dir male, che né manco i vermi ti possono rosicare.
POETA: Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro pari. Voi dite ch’io dico male, perché anco quaggiù seguo pure a darvi dell’Eccellenza, eh? Quanto ho caro che voi siate morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del Tu. Noi parremo due Consoli Romani che si parlino la loro lingua. Povero Tu! Tu se’ stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna pur venire quaggiù nelle sepolture chi ha caro di rivederti; oh! tu se’ pure la snella e disinvolta parola!
NOBILE: Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch’ora m’esce del bellico che infradicia. Io dicoti, che tu se’ una linguaccia, io.
POETA: Di grazia, Signore, fatelo, se il potete; ché voi non vi avvilirete punto. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a noi altra canaglia: non ècci altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se ‘l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo stassi ricoverata la verità. Quest’aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch’escono di bocca, il sono pure.
NOBILE: Sì, ma tu mi devi concedere nondimeno che io merito onore da te in grazia della celebrità…
E comunque poi si va verso la conclusione. Dopo che il poeta gli ha fatto capire che non conta nulla quello che hanno fatto in vita e tutto si rivolta contro di lui, il nobile…
(…) NOBILE: Tu m’hai così confuso, ch’io non so dove io m’abbia il capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d’Esopo, senza pure una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla, ond’è adunque che quelle bestie che vivevan con noi, facevanmi tante scappellate, così profondi inchini, davanmi tanti titoli e idolatravanmi sì fattamente ch’io mi credeva una divinità? e voi altri autori, e voi altri poeti, ne’ vostri versi e nelle vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell’altezza della mia condizione, della grandezza de’ miei natali, e il diavolo che vi porti, gramo e dolente ch’io mi sono rimasto!
POETA: Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassù tra’ viventi; e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com’ella è. Coraggio, Eccellenza.
Qui possiamo chiudere la citazione di questo famoso “Dialogo sopra la nobiltà”, forse non tanto famoso, se nelle scuole di solito non si legge. Per bilanciare comunque il giudizio che emerge da questo dialogo, vi leggo quanto dice Parini in questo componimento poetico in cui parlano un filosofo e un ciarlatano…
IL FILOSOFO E IL CIARLATANO
Un filosofo viene
tutto modesto, e dice:
-bisogna a poco a poco,
pian pian, di loco in loco
levar gli errori del mondo morale:
dunque ciascuno emendi
prima di sé stesso, e poi de gli altri il male.-
Ecco un altro che grida:
-tutto il mondo è corrotto;
bisogna metter sotto
quello che sta di sopra, e rovesciare
le leggi, il governare;
non è che il mio sistema che possa render sano. –
Credete al primo; l’altro è un ciarlatano.
Parini esprime il suo giudizio moderato, contro i ciarlatani che vogliono sovvertire il mondo. Siamo nell’epoca in cui gli illuministi, prima della rivoluzione francese, alcuni di loro soprattutto, pensavano di cambiare dalle radici quella società. Parini, più moderato, pensa che bisogna prima di tutto correggere noi stessi e poi fare la morale agli altri e con progressione cambiare la società, non fare il passo più lungo della gamba. Questo imposta appunto l’atteggiamento prudente di Parini, di critica, di volontà di riforma, ma non oltre certi limiti.
Che Parini sia un riformatore, e sia un illuminista, è confermato dall’”Ode alla salubrità dell’aria”, nella quale parla della salubrità della sua zona di origine, cioè del lago di Pusiano, dove era nato, e la confronta con i miasmi, l’inquinamento di Milano, in cui è costretto a vivere, tra le altre cose, con l’umidità che proviene dalle marcite, cioè dai campi invasi dall’acqua per poter produrre riso, oppure dagli stessi escrementi delle carrozze, dei cavalli che sono nelle strade della città e tante altre cose che rendono irrespirabile l’aria della capitale. Oppure è confermato dall’altra ode in cui parla “Dell’evirazione” e si scatena contro questo uso della società ancora arretrata, di evirare i bambini alla prima adolescenza perché fossero le voci bianche nei cori delle chiese, un grande scandalo ancora nel Settecento.
Altro esempio della sua volontà di riformare tutto è “Il giorno”, l’opera nella quale fa sentire il suo grido contro il ceto parassitario del suo tempo e contro questo “giovin signore”, come lo chiama lui, che è il prototipo di tutti gli aristocratici dell’epoca, che vive una vita inutile: mentre quella degli altri è una vita operosa la sua è fatta di inerzia, di pigrizia e poi di divertimento sfrenato, che dura tutta la notte. Lui si finge precettore di un nobile, che appunto passa la sua giornata come stavamo dicendo, che la descrive distinguendola nelle sue fasi. Il poeta prima scrive il Mattino e il Mezzogiorno, poi aggiunge il Vespro e la Notte. E’ un’opera che rimarrà incompiuta, ma la prima metà è completa.
Il suo modello ideale sono “Le opere e i giorni” di Esiodo, un’opera seria sulla distribuzione del lavoro nei campi, da cui prende spunto per mettere in contrasto la vita severa e austera del contadino e anche dell’artigiano con quella dissoluta e inutile di questo “giovin signore”. Vediamo naturalmente subito qualcosa, perché non rimanga tutta teoria…
IL GIORNO
Sorge il mattino in compagnìa dell'alba
innanzi al sol che di poi grande appare
su l'estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidìr la notte;
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da' curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all'opre torna
l'altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all'inquieto
ricco l'arche assecura, o se d'argento
e d'oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.
Questa prima parte riguarda appunto contadini e artigiani, la cui operosità si manifesta già quando ancora non sorge il sole. E lavorano per chi? Per i ricchi, come abbiamo visto, il contadino per i prodotti della terra e l’artigiano per i gioielli, il lusso, il divertimento…
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell'incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr'arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
E poi passa a descrivere l’inizio della giornata di questo “giovin signore”. Sentite a che punto arriva l’ironia di Parini, la sua arma nei confronti di questo mondo…
Tu tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e stanco alfine
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestìo
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.
Quindi paragona a una grande divinità questo giovane signore che fende il buio della notte con la sua carrozza…
Così tornasti a la magion; ma quivi
a novi studj ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di francesi colli,
o d'ispani, o di toschi, o l'ongarese
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona; e disse: siedi
de le mense reina…
E continua a diffondersi sui passatempi di questa gente per dire che la sua giornata poi si è chiusa quando il canto del gallo apriva quella del contadino e dell’artigiano. Poi c’è il passo in cui descrive il risveglio del signore, quando i servi si affollano intorno a lui: chi apre appena un po’ le imposte perché la luce non arrivi troppo diretta sul giovane, chi gli sprimaccia il cuscino, glielo solleva un poco, perché non si deve alzare troppo rapidamente ma deve essere preparato per gradi…e poi i suoi sbadigli, il suo cominciare appena appena ad aprire gli occhi. Insomma tutto questo palazzo di servitù si scatena intorno a lui per rendere più piacevole il suo risveglio.
Ma un episodio vi voglio rileggere per chiudere la nostra presentazione di questo poeta o avviarci alla chiusura. E’ quello della “vergine cuccia”. Vi faccio subito capire il contesto dicendo che la vergine cuccia di cui si parla qui è la cagnetta di un’aristocratica donna, vergine. Sta parlando in questo salotto una gran dama, scandalizzata per un episodio che le è accaduto. E’ il precettore che racconta, con ironia…
Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l'eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l'impietosita Eco rispose:
e dagl'infimi chiostri i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide tremanti
precipitâro. Accorse ognuno; il volto
fu spruzzato d'essenze a la tua Dama;
ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore
l'agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d'arcani uficj: in van per lui
fu pregato e promesso; ei nudo andonne
dell'assisa spogliato ond'era un giorno
venerabile al vulgo. In van novello
signor sperò; ché le pietose dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiâr l'autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
Quindi questo povero servo perde il posto, non solo, ma non può più riavere lavoro da nessun altro, perché nel frattempo c’è stato il tam-tam tra le dame, che si sono riferite l’una all’altra di questo servo ed hanno concluso che non era degno.
Su Parini concludiamo dicendo che è stato abbastanza vario il giudizio su di lui. Quello su cui tutti i critici moderni concordano è che è stato una persona dalla figura molto degna, onesta, rigorosa, che non è scesa a compromessi. Lui stesso ha creato questa sua immagine nell’ode “La caduta”, in cui dice che un giorno, cadendo per strada, viene soccorso da un passante che gli chiede perché non giri in carrozza, come tutti i poeti. E lui sdegnato a questo punto rifiuta l’aiuto, rispondendo che non è cosa da lui scendere a questi compromessi, la sua penna sarà sempre libera. Vedremo questo affermato anche da Alfieri nella prossima lezione. Parini infatti sarà un maestro di lui e di Foscolo, quello che più ha creduto nella sua figura, esaltandola nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, laddove Ortis lo incontra addirittura e segue le sue istruzioni, i suoi ammaestramenti.
Su questo giudizio quindi tutti concordano. Altro invece è il giudizio sulla sua figura politica. Certamente è stato un riformatore, al servizio dell’Austria, ha pensato a migliorare le condizioni della sua società, ha criticato il mondo aristocratico, dal quale ha preso anche comunque qualche vantaggio. Arrivederci alla prossima lezione.
Indice