Relazione per la candidatura a Sito iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO
IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SEPINOIl distretto territoriale di Sepino, con tutto ciò che contempla e racchiude, disegna un contesto storico, archeologico e etnografico unico e irripetibile: chiunque abbia modo di approfondirne la conoscenza e di visitare questa terra ne risulta rapito e riesce a comprendere e riconoscere l’impronta che, durante i secoli, l’uomo ha saputo lasciare. Le scelte che, nel tempo, ne hanno determinato l’organizzazione degli insediamenti antropici e la loro frequente migrazione sono state dettate da una serie di fattori complessi e, tra di loro, interscambiabili: l’orografia dell’area, il mutare delle risorse economiche disponibili, l’evolversi delle vie di comunicazione, le strategie e le esigenze di difesa e controllo del territorio. La storia di Sepino, infatti, si sviluppa geomorfologicamente su tre piani: quello di pianura, quello collinare e quello di altura. Da questi tre piani si è generato un quadrato abitativo che, oggi, per quanto ben riconoscibile nelle vestigia, assume un carattere quasi mitologico: la città prima sannita e poi romana di Saepinum, il Santuario prima italico e poi cristiano di San Pietro in Cantoni, la città fortezza di Terravecchia anch’essa in origine italica e molti secoli dopo cinta medievale e, infine, il villaggio di Sepino, da Castello a centro moderno.
Saepinum, la città dai tanti volti
Seguendo l’ordine cronologico, tutto ha origine dalla piana del Tammaro dove sorse l’originaria palizzata di valle, il recinto, il saeptum che diede origine al nome: è questo il cuore del pagus sannitico, è questo il luogo della Saepinum imperiale, è questo il luogo dell’attraversamento tratturale Pescasseroli - Candela, è questo il luogo che vede nei secoli il passaggio della transumanza. Dunque la piana di Sepino rappresenta il posto eletto dai suoi abitanti come polo economico sociale, come fulcro di mercato, intreccio di passaggi e di culture che oggi è possibile ammirare in un eccezionale continuum di stratificazioni edilizie: la città italica, la città romana, la città paleocristiana, la città alto medievale dei bulgari e dei longobardi, la città medievale dei saraceni e dei normanni, il borgo contadino del settecento, il borgo contadino dell’ottocento, il borgo contadino del novecento. Tutte queste dimensioni risultano presenti e meravigliosamente riconoscibili grazie a quell’opera di recupero e reimpiego dell’elemento durevole della pietra calcarea di cui il Matese è estremamente prodigo e che i sepinati, nel corso dei secoli, hanno saputo rispettare e riutilizzare adattandola alle rinnovate esigenze e necessità di vita. Certamente, oggi, ciò che maggiormente colpisce il visitatore sono i resti imperiali della Saepinum romana con le sue porte monumentali, con le splendide colonne della Basilica, con il magnifico basolato del decumano, con l’area imponente del foro circondata da edifici pubblici, templi ed impianti termali, con il suo incantevole teatro che, nei tetrapili d’ingresso, nell’edificio della cavea, negli elementi strutturali dell’orchestra e del proscenio, racchiude la summa dei principi dell’architettura vitruviana. La vita della città di Saepinum, in effetti, abbraccia un periodo molto lungo che va dal V-IV secolo a.C. al IV-V secolo d.C., circa un millennio di vicende durante il quale si assiste al costante evolversi di una città di pianura ricca di sorgenti e di pascoli naturali e favorita dall’attraversamento del tratturo, una vera e propria autostrada ante litteram capace di generare un continuo interscambio socio-culturale tra l’area Abruzzese Laziale e l’area Apulo Campana. È negli anni fastosi dell’Impero che, anche a Saepinum, i magistrati locali incentivano, con i loro finanziamenti e con i fondi provenienti dalla capitale, magnifici edifici pubblici come la Basilica, il Teatro, le Terme Pubbliche di Silvano, il Tempio di Costantino, il Tempio di Giove Ottimo Massimo, la Curia, il Comitium, il Macellum, il complesso Ginnasio, Piscina, Portico alle spalle dell’edificio scenico teatrale. Numerosi monumenti onorari vengono eretti sul foro: tra questi l’arco di trionfo dedicato a Lucio Nerazio Prisco e alcune statue equestri. Nelle aree pertinenti il Decumano vengono costruiti laboratori artigianali per la lavorazione della lana, per la concia e tinteggiatura delle pelli. Tante sono le fontane pubbliche per lo sfruttamento dell’acquedotto locale: tra queste la bellissima Fontana del Grifo e la Fontana del Fauno (il cui prospetto a rilievo purtroppo è andato perduto). Al di fuori delle mura vengono, inoltre, delimitate le aree a necropoli dove campeggiano numerosi Mausolei per le sepolture delle famiglie nobili: di questi solo due risultano evidenti grazie all’opera di recupero e di restauro, il Mausoleo dei Numisi fuori Porta Boiano e il Mausoleo di Caio Ennio Marso, fuori Porta Benevento.
Tuttavia, una volta assorbite queste meraviglie, il visitatore resta come estraniato, quasi perso nel tempo, perché intorno emergono ulteriori incantevoli richiami: sovrapposizioni, giustapposizioni, rimandi nascosti da una natura genitrice modellata solo in parte dall’uomo. In particolare, le case rurali sopra i ruderi di Saepinum sono tante e tutte raccontano una storia, un vissuto, un’epoca diversa: il cosiddetto borghetto Maglieri nei pressi di Porta Terravecchia e le casette che insistono sulla summa cavea del teatro, disegnando in maniera perfetta il semicerchio dell’emicilco teatrale, rappresentano esempi eccezionali di riutilizzo funzionale delle strutture preesistenti. In ognuna di queste dimore rurali, risalenti come si è detto al XVIII secolo, sono state ricavate, al piano inferiore, le cubature per il fienile e per il deposito delle derrate, al piano dell’aia, le stalle e i ricoveri per gli animali di corte, al secondo piano, mediante accessi scalinati e magnifiche loggette colonnate, gli accessi per gli alloggi dove collocare i forni per il pane, i camini per il fuoco e le camere per la notte. Queste case ci parlano dell’ultimo insediamento umano di Altilia: esse ribadiscono i luoghi della rinascita dalla lunga notte medievale nel rispetto e nel ricordo degli antichi fasti di Saepinum che divenne quella lussureggiante città termale, meta di nobili e magistrati della Roma imperiale. La scelta di destinare gli ambienti di queste case a percorsi museali per l’esposizione di parte dei reperti recuperati durante le campagne di scavo è sicuramente un plus che restituisce al visitatore un contenitore non già neutro e asettico, bensì un contesto di rara coerenza e continuità storica.
San Pietro in Cantoni, da Tempio italico a Chiesa cristiana
Risalendo la costa, in luogo riparato e intimo, in località San Pietro in Cantoni, si trovano le rovine di un antico tempio. Rinvenuto negli anni 90, durante una ricognizione sul territorio condotta dall’equipe del prof. Maurizio Matteini Chiari dell’Istituto di Archeologia di Perugia a quota 665 m. slm. La sua è una collocazione strategica per i “sepinati” perché si trova a metà strada fra la città fortezza sannitica di Terravecchia e l’area di valle destinata al mercato, alla transumanza e allo sviluppo repubblicano e poi imperiale della città di Saepinum. Il primo edificio di culto venne edificato presumibilmente tra il IV e il III secolo a.C. in una fase edilizia molto fertile per le popolazioni italiche: una volta definita l’area sacra, fu innalzato il tempio su un alto podio a basamento, in parte in opera poligonale e in parte in opera quadrata che, in seguito agli scavi, oggi è ben apprezzabile. L’ingresso venne orientato ad est come era consuetudine per i templi pagani. Successivamente alla sua costruzione, un’ampia area circostante fu adibita a luogo per la sosta ed il ricovero dei pellegrini: oggi è possibile apprezzare gli ambienti funzionali a tale scopo. Per quanto riguarda i reperti rinvenuti, essi fanno riferimento essenzialmente a donazioni, ex voto, coroplastica votiva di stampo femminile, monete, unguentari, balsamari e lucerne. Il principale riferimento di identità di culto del tempio si deve al ritrovamento di una bellissima statuetta bronzea con annesso piedistallo recante incisa un’iscrizione in lingua osca. La statuetta, alta circa 22 cm, rappresenta una dea vestita con una morbida tunica, dalle fattezze classiche nell’aspetto ma non nella postura. Infatti il volto, l’acconciatura, il panneggio della veste rientrano nei canoni della statuaria classica ma la postura non rispetta il chiasmo: il braccio destro è piegato all’indietro sul fianco così come la gamba destra è ripiegata all’indietro, mentre il braccio sinistro come la gamba sinistra sono protesi in avanti in tensione dinamica. Nel palmo sinistro la Dea reca un uccello, il mestolone o anas clipeata come in atto di liberazione o di dono. Inoltre la veste scopre una pancia rigonfia che malcela una gravidanza, segno della fertilità muliebre. La statuetta è stata datata all’epoca ellenistica (III – II secolo a.C.). La divinità, in un primo momento, non è stata identificata, successivamente grazie al ritrovamento di numerose iscrizioni abbreviate, si è riusciti ad attribuirne il culto: dovrebbe trattarsi, dunque, di MEFITE, divinità italica delle fonti e dei boschi, a riprova ulteriore della ricchezza di acque del territorio sepinate. L’iscrizione riporta la dedica fatta alla dea da un certo “TREBIUS DECIUS” magistrato sannita che per grazia ricevuta la offrì in dono al santuario. Ultimamente l’accezione più poetica attribuita alla dea, è stata data dal Prof. Matteini che ha definito la Mefite Sepinate come la “Dea dei canneti fruscianti”.
Dopo il primo periodo di intensa frequentazione il Tempio fu abbandonato intorno al II sec. A.C. probabilmente in seguito anche alla sconfitta di Terravecchia del 293 a.C. ad opera del console romano Caio Papirio Cursore. Il luogo però vide numerose successive frequentazioni: sia nel periodo strettamente imperiale che nel periodo tardo medievale. In questa ultima fase l’edificio templare subì un completo rimaneggiamento e venne trasformato in edificio di culto cristiano. Molto probabilmente, visto il toponimo, la chiesa venne dedicata a San Pietro. Le colonne sul davanti vennero trasferite all’interno, ricavando così tre navate, venne inoltre costruito un ampio abside a ridosso della parte di fondo. Sempre a questa fase appartengono i rinvenimenti relativi ad una serie di tombe a fossa che circondano la chiesa, la maggior parte senza corredi funebri, risalenti al VI – VII secolo d.C.
Una particolarità riguarda il rinvenimento di circa 20 conchiglie legate probabilmente a simboli di fertilità, all’acqua in quanto simbolo di vita e ristoro dei viandanti, forza rigeneratrice e feconda. Non dimentichiamo che il mito vuole che la stessa Venere fosse nata da una conchiglia. Un’ultima annotazione merita il luogo che riesce a evocare nel visitatore uno stupore estatico ed insieme un’ammirazione mistica, legata sia alla preponderanza della natura, all’amenità del luogo ma soprattutto a una dimensione custodita di fede che la popolazione di Sepino ha sempre coltivato nel corso dei secoli.
La città fortezza e le sue gemelle, sentinelle della Valle del Tammaro
Terravecchia rappresenta una delle opere di difesa, uno dei centri fortificati costruiti dai Sanniti Pentri, in particolare il baluardo deputato al controllo della valle per la salvaguardia del recinto. Si tratta di un punto strategico fondamentale che si ricollega ad una fitta rete di fortificazioni che si guardano a vista: la fortezza di Monte Saraceno a Cercemaggiore, la fortezza di Mirabello Sannitico in località Monteverde e l’imponente fortezza di Monte Vairano in agro di Busso. Dunque un sistema complesso e articolato che rispondeva sicuramente a esigenze di tipo militare ma non solo: gli ultimi studi e rilievi archeologici stanno propendendo per scelte di insediamento stabile soprattutto durante i periodi invernali di riduzione dei traffici e di contrazione della transumanza di valle. Il progetto di costruzione dello stato Pentro è frutto dell’arrivo delle antiche genti italiche migrate dalla Sabina in seguito alla celebrazione di una Primavera Sacra (Ver Sacrum).
La città sannitica sepinate venne fondata su un alto colle, a quota 953 s.l.d.m., intorno al V - IV sec. a.C., delimitata a Nord dal torrente Magnaluno e a Sud dal torrente Saraceno. Venne edificata per una duplice funzione: a protezione e riparo delle genti che popolavano il vicus (villaggio) di valle e come roccaforte difensiva contro le legioni romane. Definita in lingua osca Ocre Saipinatz (roccaforte sepinate), assunse le dimensioni di una vera grande città sannitica dove prosperarono, come pastori guerrieri, i figli del bove per lunghi decenni fino all’arrivo dei nemici romani. Storicamente è documentata la sua disfatta nel X libro degli Annali di Tito Livio: durante la terza guerra sannitica, nel 293 a.C. giunsero in questo luogo le legioni di Lucio Papirio Cursore, il quale, dopo aver battuto i Sanniti nell’alto Molise, aveva inseguito i fuggiaschi che si erano asserragliati nella roccaforte sepinate nell’estremo tentativo di resistenza. Sebbene la stagione ormai volgesse all’inverno, il duce romano stabilì l’assedio: i guerrieri italici, dopo lunghe settimane, uscirono sulle mura difendendole con i loro corpi fino alla fine. La città venne presa e fu distrutta e data alle fiamme. Letteralmente Tito Livio descrive: “ settemila e quattrocento difensori vennero, sul posto, passati per le armi e circa tremila, tra donne, bambini e vecchi, fatti prigionieri, in catene adornarono il cocchio del loro sterminatore.” È l’inizio lento ma inesorabile del processo di romanizzazione del Sannio e della Sepino Sannita.
Diverse sono state le campagne di scavo e di recupero dell’area che hanno riportato alla luce alcuni aspetti essenziali sebbene non esaustivi della stratificazione italica. Oggi è possibile visitare grossa parte dell’antica cinta muraria a doppia cortina e le tre porte di accesso: la “Postierla del Matese” sul lato Sud Ovest, la “Porta dell’Acropoli” sul lato Nord Ovest e la “Porta del Tratturo” verso oriente, la più importante, che metteva in comunicazione la rocca con il fondovalle.
In epoca medievale, il sito (Castellum Vetus, in Castrum Vetus) fu rioccupato nella parte più alta dell’area dove venne edificato l’abitato. Della stessa epoca sono visibili alcune torri di avvistamento ed una cisterna. All’esterno delle mura furono costruiti tre edifici a carattere religioso: le chiese di “San Vito”, “San Nicola” e “San Martino”. Ancora oggi se ne possono apprezzare i resti delle mura e delle pavimentazioni. Dopo vari attriti con gli abitanti del Castellum Sepini, per questioni di confini, furti di bestiame e legnatico, Terravecchia venne aggredita e nel XV secolo, dopo il disastroso terremoto del 1456, il sito venne definitivamente abbandonato.
Il Castellum Saepini e la Sepino moderna
Con l’arrivo dei Normanni che istituirono nelle terre del Sannio la Contea dei Conti De Molisio, molti centri di valle furono smobilitati per consentire la risalita di quota agli insediamenti, ad altezze più confacenti alle esigenza di difesa: troppe erano state nelle aree vallive le invasioni di popoli bellicosi e, da ultima ma non meno terribile, quella dei Mori che devastarono le città del Sannio e i grandi Cenacoli come quello di San Vincenzo al Volturno. Anche l’antica Saepinum venne abbandonata e la popolazione si rifugiò sulla costa, a 700 metri s.l.d.m., nel borgo costruito intorno al Castello di Roberto de Moulins, nipote di Ugo Rodolfo conte di Boiano. Fu lunga e animata la vita nel Castello di Sepino che, nel XI, secolo assistette alla nascita di un culto che avrebbe segnato per secoli la cultura e le tradizioni della gente sepinate: il culto di Santa Cristina, giovane martire cristiana, originaria di Bolsena, le cui reliquie giunsero nel borgo di Sepino all’epoca della prima Crociata e dei pellegrinaggi in terra santa.
Molte famiglie nobili si alternarono nei secoli nella gestione delle terre di Sepino: con il dominio angioino i De Molisio dovettero cedere il feudo ai signori De Capua Altavilla, che lo detennero fino a quando Scipione Carafa, nell’anno 1566, acquistò la Baronia di Sepino per 50.000 ducati dal Conte Giovanni d’Altavilla. In questo periodo Don Francesco Carafa, sotto la spinta della moglie Donna Lucrezia Caracciolo, si prodigò molto per Sepino finanziando due opere importanti: la Cappella del Tesoro di Santa Cristina e la splendida fontana lavatoio della Canala. Le ultime famiglie feudatarie di Sepino furono i Della Leonessa, il cui stemma è rinvenibile in molte opere pubbliche e all’interno delle Chiese e i Pignatelli che detennero molti beni immobili e opifici, come le taverne di valle, la cartiera, i numerosi mulini. L’eversione del feudalesimo nel 1806 ad opera di Giuseppe Bonaparte decretò la fine della Baronia di Sepino e l’annessione di tutti i suoi beni alla corona di Napoli. La storia recente di Sepino vede la nascita di un borgo operoso, basato sul piccolo artigianato locale e ben curato, con le sue sobrie architetture in pietra e legno, con i tetti in coppi e il ricorso al ferro battuto per gli abbellimenti più impegnativi: si pensi al bellissimo “buttiglione” del campanile della Chiesa Madre di Santa Cristina con la sua suggestiva forma che anche in questo si caratterizza dalle usuali coperture a guglia o a cipolla delle Chiese del Sud Italia.
La Sepino moderna è un ridente centro turistico dove è possibile soggiornare piacevolmente soprattutto durante la stagione estiva, immergendosi nel verde dei monti che lo avvolgono, beneficiando della qualità dell’aria, dell’acqua e delle tante peculiarità che la cucina locale offre. Al culmine del paese, una piazza salotto diventa punto di ritrovo e di raccordo delle dinamiche locali. A parte la citata Chiesa di Santa Cristina che è prospiciente la piazza, antichi edifici di culto risultano delocalizzati rispetto al centro e si svelano solo percorrendo i vicoli scalinati (Santo Stefano - San Lorenzo - Santa Maria), altri sono disseminati in placide contrade (Convento della Santissima Trinità – Chiesa di San Giuseppe), altri ancora purtroppo abbandonati e ridotti a ruderi ma ancora pieni di fascino autentico (Conventino di Santa Maria degli Angeli).
Ma a Sepino il cerchio non si chiude mai, anzi qui la storia si rincorre, si reinventa e finisce per creare le premesse per nuovi inaspettati itinerari: all’ingresso del borgo il visitatore viene folgorato dal volto ineluttabile di un Mascherone di fontana che, da secoli, con il suo sguardo accigliato, si erge a salvaguardia del flusso inesauribile delle acque, nume tutelare di una città sine tempore. Si tratta di una imponente raffigurazione di Oceano sicuramente proveniente dall’antica Saepinum. Ma tutto il luogo, a ben vedere, è un vero e proprio Lapidarium, un piccolo museo all’aperto che costituisce una delle tante liaison tra la città antica e la città moderna. Alla maestosa maschera di fontana, infatti, è affiancata una vasca ricavata da un antico sarcofago e due importantissime epigrafi (la CIL IX 2455 e la CIL 2472). Le relative iscrizioni, trascritte e studiate dallo storico Theodor Mommsen, riguardano Lucio Oriente, Lucio Nerazio Prisco padre e Lucio Nerazio Prisco figlio: si tratta di personaggi della gens Neratia, una delle famiglie nobili più importanti del Sannio.
Oggi tutto questo merita una diversa attenzione, una programmazione sistematica che sia volta alla tutela di un patrimonio inestimabile in parte ancora nascosto e da rivelare: una vera e propria fucina, un enorme laboratorio a disposizione degli studiosi che racconta una storia lunga più di 2500 anni. Centro di una antica civiltà, quella dei Sanniti, che non è stata cancellata dal diluvio latino ma che, anzi, ha lasciato tracce profonde nelle civiltà future attraverso la lingua, le usanze, la capacità di condensazione e di resilienza, attraverso quell’articolazione originale dell’urbanistica e delle tipologie edilizie che la rende unica e riconoscibile, attraverso quel rispetto della natura che la rende diffidente e impenetrabile.
“Eccola, la città, splendida e quanto mai indecifrabile. Fui colto da una sensazione non ancora provata all’ingresso delle tante città che fino ad allora avevo visitato. Era come se, in quel luogo, esistessero due entità talmente distinte da essere inconciliabili ma pur sempre imprescindibili l’una dall’altra. Da un lato l’extramondo con tutto ciò che si trovava fuori le mura e dall’altro il recinto, il saeptum, con il suo contenuto. Due unità incomunicabili, laddove l’esistenza dell’una non necessitasse per forza dell’esistenza dell’altra e, tuttavia, dove il trapasso non escludesse la possibilità del ritorno. Un senso di risucchio aveva pervaso il mio essere: era come se stessi precipitando in un pozzo antico, in una voragine senza fondo che si perdeva nelle viscere della terra. Rintronato dai rumori stridenti, trascinato da un’orda inconsueta di bestie. In fondo nulla era cambiato. Era lo stesso schifo di sempre. Il riverbero di quella pozza di sangue eruttato dal moncone della pecora. La nausea mi riempì l’esofago mentre una saliva amara m’impastava il palato. La città pulsava tranquilla investita dalle luci del tramonto, sommersa dai riflessi del primo crepuscolo che tingevano di rosso le facciate degli edifici. Urlava la strada per la folla impazzita, per i muggiti, i campanacci, i ragli degli asini,i sonagli appesi alle cupole dei portici,le mole e i pestatoi manovrati sugli usci delle popinae. I gatti randagi ciondolavano sulle crepidini a margine degli edifici, miagolavano e si lisciavano la schiena tra le lische delle colonne scanalate. Grassi maialetti grufolanti si rincorrevano sotto le gambe dei mercanti inseguendo galline spennacchiate. Vecchie megere urlavano bestemmie a bambini cenciosi e sporchi che scomparivano e riapparivano tra i banconi affastellati di paccottiglie. Il fastidioso stridere dei carri accompagnato al pesante cigolio delle ruote amplificava il cocciolare dei bicchieri, il tintinnare delle ciotole e delle anfore di creta e dei calici in terracotta urtati dagli avventori sui tavoli delle pitissatorie. Tutte le taverne avevano gli usci spalancati, i passanti entravano e uscivano di continuo, molti barcollavano in preda ai fumi, altri, seduti sulle panche, bevevano senza sosta in barba al proprio destino. Mendicanti curiosi, dall’andatura impacciata, intralciavano il passaggio delle strade. Ne vidi uno che arrancava, era ben ancorato a una stampella a forca. Strascinava il piede falso sul lastricato, procedeva fischiando e, a ogni sosta, chiedeva l’elemosina appendendo le labbra come un cane da punta. Empie donne, con indosso poche velette trasparenti, si esibivano in risate sguaiate, sostenendosi i seni osceni e scostando gli spacchi delle tuniche per abbindolare i passanti vagliati in base alla qualità delle vesti. Questuanti insolenti si destreggiavano dietro i banconi traballanti e utilizzavano le argomentazioni più smielate per esaltare le loro mercanzie e raggirare i malcapitati. Sotto le logge dei porticati, tra gli spazi degli slarghi concessi dalle aperture delle serrande a scorrimento, si esibivano saltimbanchi, suonatori di liuto, ammaestratori di belve, nani e mangiatori di fuoco. Altro che morta, “aliter erit vita quae fuit in urbe Saepini”, così era scritto a chiare lettere sull’insegna di una taverna.”
Tratto da “Il Cervo volante” - testo inedito di Antonio Tammaro