SOSTARE DAVANTI A UN PAESAGGIO

Il Molise: aria, acqua e natura – Linea Verde
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♦ Immagini di paesaggi del Molise
♦ Borghi del Molise

SOSTARE DAVANTI A UN PAESAGGIO
Uno scritto di Giovanni Arpino (1927-1987)
tratto dal volume “Paesaggio italiano” di Pepi Merisio – Silvana editoriale
 
“Cos’è “un” paesaggio? Dov’è il “vero” paesaggio? E gli uomini d’oggi sono ancora capaci di “amare un paesaggio, di “sostare davanti a un paesaggio”?
Gli interrogativi sono non soltanto leciti, ma obbligati. L’uomo corre e non guarda, fotografa (da dilettante) per memorizzare attimi e cose e angoli che non ha pazienza di vedere nel momento esatto. E così il paesaggio diventa subito un fantasma del passato.
Ma tutto il paesaggio italiano è il Passato.
Maiuscolo, sublime, non imitabile, singolare in ogni zolla, miracoloso e travagliatissimo, però Passato. Anche perché il presente – il nostro minuscolo presente – non fa che logorare questo Passato, abbattendolo, inquinandolo, distraendosene, lasciando morire sia i costumi di un tempo, sia le acque, sia i boschi.
 
L’Italia è terra antica, si dice, Ma non è vero. Geologicamente parlando – come ci spiegano gli studiosi – è una terra abbastanza giovane, anche se la mano dell’uomo ha domato, con ogni sorta di artifici, di innovazioni, abbandoni, ulcerazioni, il paesaggio della penisola.
Il nostro paesaggio è – in gran parte – una natura che non ha potuto vivere libera, sola, padrona di sé. Tecnicamente schiavo alla mano dell’uomo, ogni briciolo di terra italiana o si è inselvatichito o si è sottomesso a modificazioni centenarie. E così noi, popolo vecchio in terra giovane, abbiamo dato la stura ad invenzioni continue, a offese e trasformazioni, a bonifiche e ferite, badando poco alle “bellezze” del passato e abbracciandoci avidamente alla nostra “necessità”.
Non v’è più paesaggio che non risulti umanizzato, come gli animali delle favole, che sono costretti ad imitarci ma non saranno mai più se stessi e mai saranno noi.
Solo poche costole di terra, pochi anfratti inesplorati, e quasi brutali sono riusciti a resistere, a respingere o annullare la mano dell’uomo, i suoi attrezzi. E questi angoli noi rimiriamo ancora come reliquie del mondo che fu, che non possiamo più comprendere, giustificare, possedere, divorare.
 
Vi fu un tempo in cui ogni uomo visse in ogni paesaggio, mentre quest’ultimo, oggi, è costretto a vivere con l’uomo, soggiacere all’uomo, con rischi e pericoli che si moltiplicano sotto i nostri occhi, a velocità mostruosa.
Ciascuno di noi sa perfettamente che “perdere un paesaggio” (dal chiudere una finestra all’alzare un muro, a rubar acqua al mare, fino a distruggere un campanile, ad abbattere un albero centenario) significa perdita umana. Ma non resistiamo alle tentazioni di stupro che continuamente ci spingono a violentare monti e fiumi, viali alberati e pianure, ruscelli e montagne, boschi e vallate. Anche le antiche pietre di uomini che passarono la vita ad erigere una cattedrale, ad alzare mura fortificate – che nei secoli sono diventate paesaggio -– ci temono. Perché l’uomo, filosoficamente nemico di se stesso, “feritore di se stesso”, nella sua fuga in avanti non rispetta nulla. Fa e cambia, smonta e rifà, distrugge e ricomincia. E’ un cannibale di civiltà, e quindi di paesaggi.
 
Vi furono forse albe e tramonti che videro i paesaggi ”fuggitivi” come gli occhi della fanciulla leopardiana. Oggi è arduo ricercarli, guardarli con pupille limpide, accostarsi con purezza di cuore.
Paesaggio italico: una delizia, un giardino, un sogno incastonato in altri mille sogni.
Un labirinto di immagini ora conseguenti ora contraddittorie. Una “verità” terrestre che le mani dell’uomo hanno rispettato qua e là, solo per caso. Una coloritura profonda e poi stagionale, storica e poi deserta, pensata e poi giocata dal caso. Per chi osserva l’Italia da un aereo (ma un aliante è ancor meglio: sfiora il silenzio che il paesaggio ha come anima), la penisola è veramente un dito d’Iddio. Persino dove mostra ogni sorta di rappezzi, di francobollature arate, di microcosmi avviticchiati, quel dito d’Iddio ha un significato, un arcano, una bellezza che si vorrebbe intoccabile.
Ma milioni di passi, di strumenti, di viottoli, di slavine, di terremoti, di lave, di marosi, di lavori hanno nei secoli truccato la fisionomia originaria del paesaggio peninsulare: facendo nascere nuovi scorci, dando all’occhio umano la possibilità di vedere diversamente una montagna, un declivio, un golfo, una palude.
 
Forse l’uomo è, dovrebbe essere il suo paesaggio. O forse il paesaggio è l’animale più obbediente all’uomo. Il quale uomo non ha mai desistito dal raccontarlo: su atlanti, mappe, carte, in romanzi e commedie e versi, su dipinti, stoffe, “murales”. Il paesaggio, vero o sognato, autentico o immaginario, ha sovranamente, mollemente ceduto all’uomo tutte le sue suggestioni segrete. Perché l’uomo esploratore, l’uomo distruggitore, l’uomo costruttore ha in ogni età raccolto il paesaggio intorno a sé, alla propria casa, impadronendosene e modificandolo.
Ed è sempre lo stesso uomo che di fronte ad un tramonto sospira, da puro idiota: bello come se fosse dipinto; mentre quando esamina una tela sostiene: bella come se fosse vera.
 
Il paesaggio non sa di essere. Sta. L’uomo lo scopre, lo deturpa, lo esalta, lo cambia a suo uso e consumo, talvolta lo rispetta solo per distrazione cosmica. La nostra penisola ne sa qualcosa.
Non vi è praticamente zolla che non sia stata voltata e rivoltata, non vi è angolo che non abbia conosciuto emigrazioni di genti, eccidi, travagli, non vi è spigolo che non sia servito o come muro o come trincea o come feritoia o come tomba o come altare.
 
Forse l’uomo è diventato troppo vecchio per quello che potrebbe essere ancora un “suo” paesaggio. Non fa che ingombrarlo, ridisegnarlo, sbatterlo come un panno da cui vuol ricavare vestiti nuovi.
Per fortuna esistono ancora uomini che difendono il paesaggio non solo come un “bene” di natura, ma come testimonianza poetica della Storia. Perché, condizionato dall’uomo, il paesaggio è l’unica cornice che ci rimane di ciò che fummo e siamo. Il paesaggio è la nostra memoria palpabile, non un fondale, non un copione già recitato, non una quinta di teatro.
A furia d’essere assunto da noi, diventa noi, e noi ci rispecchiamo in lui assai più delle nostre carni invecchiate.
Pacifico e demoniaco, tormentato e sonnacchioso, figlio di grandi vuoti, di rocce immense, di colori mai fermi, di fuochi e di ghiacci, sotto cieli che si dilatano e lo mutano continuamente, il paesaggio italiano ha la sacralità che solo un barbaro, un imbecille non notano. Si disvela e nasconde mille volte, offre pecore e ville, corvi e torri, lapìdi e vulcani, erbe e polvere, solitudine e grumi di vitalità eccessiva, mercati e portici; sa di zolfo e di menta, ha la forma affaticata d’una mano contadina e il profilo d’un sapiente antico.
E’ questo paesaggio italiano ad incantare. Ancora ed ancora. Malgrado tutto. A dispetto di tutti.
Dal cespuglio può uscire la strega, dalla caverna può uscire un fauno, da un’acqua può risorgere Venere. Forse è invincibile anche se le brutture e gli sconvolgimenti dell’oggi lo assediano e disgregano da ogni parte. Vive persino nei brandelli delle tante civiltà che lo hanno attraversato e sono scomparse. Sta in una tomba e in un capitello, nella spuma di un’onda e in una grondaia felice di rondini. Non cede mai del tutto la sua anima, si vendica con l’ortica, l’erba che fuoriesce dai marciapiedi, il rudere che muta forma, il muro veneziano che s’insalina.
 
Bisogna leggere nel paesaggio: la vita delle pietre, la pelle leonina di certi campi laziali, la geometria così quieta delle vigne langarole, il brivido di un ruscello alpino, la fuga d’una biscia, l’accumularsi di tetti poveri, lo splendore dorato e cariato di cattedrali e fori e palazzi.
Pur sottoposto a mille minacce, il paesaggio restituisce all’uomo ciò che l’uomo fece di lui, quasi per ammonirlo e nello stesso tempo consolarlo di tante fatiche, morti, eccidi, stravolgimenti, illusioni architettoniche e rabbie esistenziali che coinvolsero gli animi e cambiarono le planimetrie.
Finché dura un paesaggio, durerà l’Italia. Ogni ulteriore laccio alla gola del paesaggio italiano cancellerebbe la penisola, tanto da relegarla in un atlante di bieca immaginazione e di funerei ricordi,
Non siamo soltanto figli di Idee, ma di luoghi, arbusti, pendii, vicoli, piazze, tufo, mattoni, granito, tronchi diventati architrave, cenere eruttata dal fuoco che ridiventa cenere, la stessa cenere che saremo, che fummo.