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LISIA : “ PER IL SOLDATO “

ANNO  ACCADEMICO  2023-2024
 Prof.ssa  ROSSANA  VARRONE
 Il PROCESSO nell’antica Grecia
 
LISIA : “ PER  IL  SOLDATO  “
 
POLIENO è un soldato, ma prima di tutto un cittadino che sente di aver subito un grave torto. Congedato da due mesi, si vede richiamato in servizio senza ragione. Probabilmente toccava a qualcun altro che, avendo dei santi in paradiso, l’aveva fatta franca. Ma non sta qui il punto. Polieno, nei fumi dell’ira, non sa tenere la lingua a freno e parla degli strateghi (responsabili, secondo lui, della situazione) in luogo pubblico presso il banco di un cambiavaluta al mercato.
Scatta la rappresaglia degli strateghi che infliggono un’ammenda a Polieno. Ma il tempo passa, gli strateghi decadono dalla loro carica, per lungaggini burocratiche la somma dovuta non è riscossa e cade in prescrizione.
Tutto finirebbe in nulla se un gruppo di Ateniesi, non è chiaro se per inimicizia personale o per istigazione degli strateghi decaduti, intenta una “grafè “, una causa pubblica, a Polieno, intimando il pagamento di una somma che, per il passare dei mesi, si era intanto “gonfiata” e ormai coincideva con l’intero patrimonio del povero soldato, che teme la confisca di tutto, la povertà  e, addirittura, l’esilio.
LISIA, ingaggiato da Polieno, gli CUCE ADDOSSO un discorso abile e secco: lui, Polieno, è un galantuomo; gli accusatori, a corto di argomenti seri, lo hanno coperto di pure calunnie.
I fatti sono lì, sotto gli occhi di tutti: è vero, lui si è sfogato contro gli strateghi, ma in luogo pubblico, non nel loro ufficio, e se non ci si può confidare con un amico neppure nell’agorà…allora è davvero la fine del mondo!!! Quanto alla somma, lui l’avrebbe anche pagata, ma chi di dovere (strateghi prima, tesorieri negligenti poi) l’aveva lasciata cadere in dimenticanza.
La conclusione viene da sé : E’ UN CASO LAMPANTE DI PERSECUZIONE PERSONALE. Polieno è una VITTIMA, non un EVASORE FISCALE!!! ( nulla ricorda a noi contemporanei una causa del genere…???)
Nella PERORAZIONE- EPILOGO (la parte più bella dell’orazione lisiana) Polieno passa dal caso particolare al generale con un ragionamento di straordinaria efficacia
.Una eventuale condanna del soldato sarebbe la prova del fatto che la corruzione dilaga ad Atene. I giudici, dunque, tengano conto dei puri fatti, non delle calunnie. Se è proprio del giudice, in alcuni casi,anche comprendere e perdonare , tanto più deve impegnarsi a porre freno all’ingiustizia ai danni di un servitore della patria che, da farsi perdonare non ha proprio nulla!
Come ho già detto, Lisia, in quest’orazione, dà la miglior prova di sé nella perorazione finale, nella quale in un primo momento fa dire al soldato che lui non si sdegnerebbe troppo se a commettere ingiustizia nei suoi confronti fossero gli strateghi, perché “è naturale che i nemici facciano del male e gli amici del bene”. Questo ragionamento ha un evidente valore strumentale in quanto è finalizzato a sostenere l’abile insinuazione dell’oratore, secondo cui, se gli accusatori sono i suoi nemici, i giudici, cioè la città, non possono che essere suoi amici e quindi tenere nel debito conto le sue ragioni. Nell’ultimo paragrafo dell’orazione, poi, di contro a quello precedente che potremmo definire “tema della vendetta”, troviamo che l’oratore mette in campo il “tema del perdono” che, insieme a quello “della compassione“, innegabilmente in tribunale assumeva una risonanza particolare.
Sentiamo, infatti, che il soldato dice ai giudici: ” Voi  sapete perdonare anche colpe manifeste!” Se è probabile che ai giudici facesse piacere sentir elogiare la loro benevolenza (in fondo la possibilità di concedere pietà e perdono era una prova in più del loro potere), è pur vero che Lisia abbia assai accortamente piazzato questa argomentazione nel paragrafo finale: il ragionamento “ i giudici sanno perdonare anche colpe manifeste, quindi non devono permettere che sia condannato chi non ha fatto nulla di ingiusto” sottintende la premessa che l’imputato sia innocente e con tale messaggio finale, affidato “alla sensibilità ” dei dicasti (“dike” = giustizia) l’orazione può ben chiudersi con quel pizzico di patetico che, secondo Aristotele, suggella alla perfezione l’epilogo.
 
“Tenendo nel massimo conto la GIUSTIZIA e considerando che avete anche concesso perdono in merito ad evidenti atti ingiusti, non lasciate che coloro che non hanno commesso ingiustizie, a causa delle inimicizie, si trovino in grandissime sventure” (perorazione finale )