Antologia - TERZO ANNO - 18^ Lezione
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Approfondimenti letterari
PIRANDELLO: NOVELLE E ROMANZI
Diciottesima lezione del terzo anno. Accanto a me una Barbara un po’ afona per le repliche del “Sogno di una notte di mezza estate” al teatro del LOTO, in cui è Titania.
BARBARA: Sì, in crisi con il suo re degli elfi, con litigi….
Che provocano la rovina di certi amori del mondo parallelo. Ricordo che Barbara, entrata con una difficile selezione al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, per la Scuola Nazionale di cinema, purtroppo ci lascerà tra poche lezioni.
Cominciamo a parlare oggi di Luigi Pirandello. Ricostruiamo la vita di questo altro grande pilastro della letteratura del primo Novecento in Italia, insieme con Svevo. E’ originario della parte opposta, della Sicilia di Agrigento, nasce nel 1867, muore nel 1936, quando si sta preparando un film sul suo romanzo “Il Fu Mattia Pascal. Si è trasferito da Agrigento a Roma, dove ha potuto iniziare la sua attività di scrittore, ma si è prima laureato in glottologia in Germania. Nella capitale scriverà i romanzi, le novelle, le opere teatrali, aderirà al fascismo, vedremo in che forme, e prenderà il Premio Nobel. Ha subito dato una classificazione della vita di questo tenore. Leggi Barbara…
Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così. La grandezza, la fama, la gloria non stimolano più l’anima mia. Vale forse logorarsi il cervello e lo spirito per essere rammentato e apprezzato dagli uomini? Sciocchezze. Soffrire i tormenti dell’arte, dare il sangue delle vene, il sogno delle notti, la pace della vita per avere in ricompensa il plauso e la lode dei vermi? Sciocchezze. Io scrivo e studio per dimenticare me stesso, per distormi dalla disperazione. Brucerò tutto prima di morire.
Scrive per dimenticare se stesso, perché non accetta il mondo in cui vive. Svevo lo faceva per terapia, lui per allontanarsi da sé. Brucerà tutto. Si farà anche cremare. Confida questo alla sorella Lina, che ha diviso con lui e con la famiglia, il problema della moglie, diventata pazza per il dissesto finanziario del padre e per diversi anni tenuta in casa. Soffriva soprattutto di una fortissima gelosia nei confronti del marito. Poi si sono dovuti rassegnare a collocarla in un ospedale psichiatrico. L’autore nelle sue opere userà molto il tema della pazzia come forma di evasione da un’esistenza dolorosa, condizionato da questo gravissimo fatto di una vita assurda, con la quale ha un rapporto di straniamento, dovuto anche a un episodio che racconta: da bambino avrebbe assistito alle effusioni di una coppia, cosa che ha stravolto la sua relazione con il sentimento dell’amore e con le persone, tanto che, anche perché siciliano, parla moltissimo di tradimenti e di adulterio.
Vogliamo subito spiegare fino a che punto è stato fascista. Nel 1924, appena è stato ucciso Giacomo Matteotti, Pirandello dice addirittura, in un telegramma a Mussolini…
Eccellenza, sento che questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l’Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò con massimo onore tenervi il posto del più umile, obbediente gregario. Luigi Pirandello
Gravissimo, considerato che è stato assassinato Matteotti, vi ripeto. Però nel 1928 sentiamo già cosa succede in una lettera a Marta Abba (8 luglio)…
Bisogna, bisogna andar via per qualche tempo dall’Italia, e non ritornarci se non in condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè da padroni. Qui è un dilaniarsi continuo, in pubblico e in privato, perché nessuno arrivi a conseguire qualche cosa a cui tutti spudoratamente aspirano. La politica entra da per tutto. La diffamazione, la calunnia, l’intrigo, sono le armi di cui tutti si servono. La vita in Italia s’è fatta irrespirabile. Fuori! Fuori! Lontano! Lontano!
Quindi si parla male del regime. Infatti c’è un rapporto della Polizia fascista, del 1933…
Pirandello, scrittore e autore drammatico, Accademico d’Italia, Fascista di coloro che portano il distintivo all’occhiello, ma non nel cuore, ambizioso, maldicente, invidioso, ciarlatano, facile a cambiare idee e padrone a seconda del tornaconto, proprietario in sociale di una compagnia di prosa, prima attrice Marta Abba(…) è’ stato per un mese circa a Milano. Ero stato informato della facilità come l’Accademico parlasse del DUCE, permettendosi sul palcoscenico e avanti a comici ed altri, di dire delle cose poco belle nei riguardi del Regime e di come il DUCE conduce le cose che riguardano la politica interna e quella estera.
Un rapporto negativo su Pirandello, che parlerebbe male del duce. E ancora, nel 1934…
Luigi Pirandello ricomincia a sbraitare contro il Fascismo, come al tempo della tournée in Argentina (…) La tiritera investe il Regime ed il suo Capo.
E addirittura, pochi mesi dopo, quando gli viene dato il premio Nobel…
L’attribuzione del premio Nobel a Pirandello suscita una giusta considerazione da parte dei competenti, tutti si dicono se proprio il Pirandello sia un esatto esponente della realtà corporativa, egli così analitico e anatomizzatore, contrario a ogni sintesi, e che nella essenza della sua arte è quanto di meno corporativo si possa pensare. Si giudica che coloro che gli hanno assegnato il premio Nobel abbiano voluto fare una dimostrazione arguta e pacata ma ferma di anticorporativismo.
Un’analisi esattissima, anche se con un intento sbagliato, quello di criticare chi ha dato il premio Nobel a Pirandello perché già per se stesso e per la sua opera è un analitico e quindi non è corporativo. Accettiamo. Tutto dimostra come il rapporto di Pirandello con il fascismo non fosse quello che si è sempre stabilito in maniera così sbrigativa.
Vediamo ora da “Il fu Mattia Pascal” questo passaggio in cui l’autore sottolinea il difficile riferimento con la realtà nella società moderna. Leggiamo. Tu, Barbara, Mattia Pascal, narri di una conversazione con me, Don Eligio, il vecchio bibliotecario,…
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. (…) Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre.
Mentre gli antichi erano tranquilli, i moderni, poiché il mondo per loro gira, hanno perso sicurezza. In quest’altro passo un personaggio, Paleari, dice questo al protagonista, a proposito di un teatro di burattini. Tu sei Paleari, io Mattia Pascal…
Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente ! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei”.
“Non saprei”, - risposi, stringendomi ne le spalle.
“Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo”.
“E perché?”
“Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi si penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”.
Ecco la differenza tra Oreste, eroe della tragedia antica, e Amleto, eroe di quella moderna, l’uomo dell’incertezza, dell’insicurezza. Si vive il senso dell’assurdo già visto in Kafka, l’impotenza dell’uomo nei confronti della realtà. Un “buco nel cielo di carta” toglie riferimenti a un burattino, come le incongruenze della vita alienano gli uomini.
Nello sviluppo dell’opera di Pirandello abbiamo prima un romanzo del 1901, “L’esclusa”, nel quale parla di una donna che è ritenuta adultera quando è fedele e fedele quando, anche perché stanca di non essere creduta dal marito, ha cercato evasione nell’adulterio. E’ il problema dell’incongruenza di ciò che appare con ciò che è reale, di ciò che è vero per altri con ciò che è vero per noi. La verità assoluta non esiste.
Nel 1904 scrive “Il fu Mattia Pascal”, in cui si parla di una crisi di identità. Il protagonista è un bibliotecario, che a questo punto racconta del suo lavoro. Leggi Barbara…
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un Monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzobusto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di Monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.
Giacchè, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete.
E infatti il protagonista racconta la sua strana storia. E’ morto una prima volta per errore: mentre era in viaggio per andare a giocare (era il suo vizio), seppe che avevano trovato un cadavere e avevano pensato che fosse il suo. Tra l’altro evadeva da una realtà che non lo soddisfaceva: non andava d’accordo con la moglie, in biblioteca il lavoro era alienante. Allora approfitta della circostanza per rifarsi una vita, con una nuova identità, quella di Adriano Meis, conosce un’altra donna, vorrebbe sposarla, però ha bisogno dei certificati e non risulta all’anagrafe uno con questo nome. Deve rinunciare quindi alla nuova identità perché non esiste per le carte, per la burocrazia della società, ed è costretto a ritornare Mattia Pascal. Senonché non gli è consentito nemmeno questo, perché la moglie si è risposata e per tante altre cose. Si rassegnerà ad essere il “fu Mattia Pascal”, come lo definiscono, e andrà addirittura a visitare la sua stessa tomba.
Nel saggio, “L’umorismo”, del 1908, ci dice cos’è per lui l’umorismo con un esempio…
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi cosi come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.
La prima considerazione superficiale è che la vecchia signora sia ridicola. Però se uno riflette sulle motivazioni arriva a pensare che possa suscitare semmai pietà e commozione, perché tenta di tenere vicino a sé il marito, perciò si trucca talmente. Ma è importante anche questa riflessione sul contrario. L’umorismo è una sorta di contrasto tra il calore del sentimento e il freddo dell’analisi razionale. Il risultato è appunto l’atteggiamento di chi ha il sentimento profondo del contrario, cioè della mancanza di corrispondenza tra ciò che appare e ciò che è vero, reale, dentro il fatto.
Poi Pirandello scriverà un altro romanzo “Uno, nessuno e centomila”. Qui prende ancora forma, in maniera più dettagliata, la questione della crisi di identità. Vitangelo Moscarda si accorge di come veramente stanno le cose soltanto quando la moglie fa riferimento a un suo difetto, il naso che pende da una parte. Solo allora si rende conto che si è visto in maniera diversa da come lo vedono gli altri e riflette anche sul fatto che la moglie in genere da sempre ha di lui un’immagine che non corrisponde alla sua. Leggi Barbara…
"No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi."
Quante volte non m'aveva detto così Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè più che non lo conoscessi io! Se l'era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
Era Gengé, un vezzeggiativo, per la moglie, ma non era quello che sentiva di essere…
(…) La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che ella s'era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro che ella non avrebbe più riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe più potuto né comprendere né amare.
(…) Ed ecco intanto, che me n'era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano. E tutti più reali di me, che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.
Gengè, sì, l’aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v'assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura più sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.
Come Moscarda, ciascun uomo è i centomila diversi che gli altri vedono di lui: uno per sé ma centomila per gli altri; e nessuno proprio perché non c’è questa corrispondenza tra l’uno che è per sé e i centomila che è per gli altri; ma nessuno anche perché è in divenire continuo, non riesce mai a fermarsi in una identità. E’ il concetto bergsoniano, che noi siamo in ogni momento della nostra vita una nuova acquisizione, nella quale entra il nostro passato, che si è arricchito di quel momento in più, nel nostro presente, che è diverso da quello precedente. Siamo un divenire continuo, un flusso.
Infine, per chiudere sul tema della narrazione, perché nella prossima lezione parleremo del teatro, facciamo riferimento a un paio di novelle di Pirandello, che poi sono state riunite, più di duecento, nella raccolta dal titolo di “Novelle per un anno”, che sarebbero dovute essere 365. Tra queste ricordiamo “La patente”, la storia di un poveraccio che è considerato uno iettatore e, disperato per questo, va dal giudice per avere la patente di iettatore, perché così pensa almeno di consolarsi sfruttando questa sua “qualità”, immaginando di andare a presentarsi davanti alle botteghe di quelli che lo denigrano per impedire loro di fare affari, visto che con la sua presenza la gente non entra in questi esercizi. Il giudice prima lo guarda esterrefatto, non riesce a capire, però poi comprende che in fondo ha una sua giustificazione quello che a prima vista è assurdo, cioè l’intendimento di avere una patente di iettatore. Questa è naturalmente una prima riflessione su quanto la società sia crudele, con i suoi assalti nei confronti dell’individuo, cosa che rivedremo meglio nelle considerazioni sul teatro della lezione successiva.
L’altra novella significativa è “La carriola”, nella quale Pirandello parla di se stesso, un se stesso che all’improvviso si vede vivere. Entrando nel proprio appartamento, si ferma sulla soglia e vede un’altra persona che sta per entrare. E’ lui appunto. Ha anche una moglie e quattro figli. Sul momento si immagina una persona diversa da quella che vede lì sulla porta e si rende conto dell’assurdità dei suoi comportamenti e della sua esistenza. Vive questa alienazione a tal punto che, quando finalmente si decide a entrare nel suo appartamento, cambia comportamento. E decide che almeno un momento della sua giornata lo debba dedicare a uno strano giochetto con una cagnetta che ha in casa, che è stata tormentata per anni dai figli e adesso ha più di dieci anni, invecchiata, e sta rannicchiata nel suo studio per sfuggire a quelle sevizie, non avendo più l’agilità e la forza di sopportare le angherie dei bambini. Ora lui la adocchia e decide, un minuto della giornata, ogni giorno, di prenderla per le zampe posteriori e portarla lì, in quei pochi metri dello studio, come appunto si porta una carriola, che dà il titolo alla novella. Poi la rimette al suo posto e continua la sua giornata, ma quel gesto di far fare la carriola alla cagnetta per lui è defatigante, dal punto di vista psicologico, è disalienante, gli serve per ricaricarsi e per riaffrontare le assurdità della vita. Quindi un gesto assurdo per correggere una realtà assurda. E questa considerazione che ci fa sorridere chiude la nostra prima lezione su Pirandello. Arrivederci.
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