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LETTERATURA MERIDIONALISTA: CARLO LEVI, SCIASCIA, TOMASI DI LAMPEDUSA



Antologia - TERZO ANNO - 28^ Lezione

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LETTERATURA MERIDIONALISTA: CARLO LEVI, SCIASCIA, TOMASI DI LAMPEDUSA
 
Ventottesima lezione, dedicata alla letteratura meridionalista, con Mariateresa. Cominciamo con Carlo Levi, che fu confinato, lui piemontese, in un paesino della Lucania, Aliano, nel periodo del fascismo, subito dopo avere aderito al movimento “Giustizia e libertà” di Carlo Rosselli. Era un medico che aveva lasciato la professione per dedicarsi alla pittura. In questi mesi di confino si rende conto di qual è lo stato reale dell’Italia meridionale in quello che il regime considerava già un “impero”, perché si stava conquistando l’Etiopia. Era il periodo del cosiddetto consenso, della massima adesione. E Carlo Levi può costatare e registrare nel suo romanzo, “Cristo si è fermato a Eboli”, che all’apparenza di un impero, creata dalla propaganda, corrisponde una realtà di estremo disagio e bisogno, soprattutto al sud, tanto che poi questi contadini di Aliano, Gagliano nel romanzo, lo stimeranno, lo ameranno e lo considereranno, in quei mesi, un punto di riferimento importante, lo faranno tornare ad essere medico, perché gli chiederanno aiuto, quando si renderanno conto che è in grado di porgere questo tipo di assistenza. Cominciamo ad entrare subito nella narrazione con le parole di Carlo Levi…
 
Mai nessuno dalla loro parte
Questa strana e scoscesa configurazione del terreno fa di Gagliano una specie di fortezza naturale, da cui non si esce che per vie obbligate. Di questo approfittava il podestà, in quei giorni di cosiddetta passione nazionale, per aver maggior folla alle adunate che gli piaceva di indire per sostenere, come egli diceva, il morale della popolazione, o per fare ascoltare, alla radio, i discorsi dei nostri governanti che preparavano la guerra d’Africa. Quando don Luigino aveva deciso di fare un’adunata, mandava, la sera, per le vie del paese, il vecchio banditore e becchino con il tamburo e la tromba; e si sentiva quella voce antica gridare cento volte, davanti a tutte le case, su una sola nota alta e astratta: ― Domattina alle dieci, tutti nella piazza, davanti al municipio, per sentire la radio. Nessuno deve mancare. ― Domattina dovremo alzarci due ore prima dell’alba, ― dicevano i contadini, che non volevano perdere una giornata di lavoro, e che sapevano che don Luigino avrebbe messo, alle prime luci del giorno, i suoi avanguardisti e i carabinieri sulle strade, agli sbocchi del paese, con l’ordine di non lasciar uscire nessuno. La maggior parte riusciva a partire pei campi, nel buio, prima che arrivassero i sorveglianti; ma i ritardatari dovevano rassegnarsi ad andare, con le donne e i ragazzi della scuola, sulla piazza, sotto il balcone da cui scendeva l’eloquenza entusiastica ed uterina di Magalone. Stavano là, col cappello in capo, neri e diffidenti, e i discorsi passavano su di loro senza lasciar traccia.
 
E si va verso il raduno in piazza, classico rituale di quegli anni. Ma è interessante quanto si dice più avanti…
 
(…) Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.
Perciò essi, com’è giusto, non si rendono affatto conto di che cosa sia la lotta politica: è una questione personale di quelli di Roma. Non importa ad essi di sapere quali siano le opinioni dei confinati, e perché siano venuti quaggiù: ma li guardano benigni, e li considerano come propri fratelli, perché sono anch’essi, per motivi misteriosi, vittime del loro stesso destino.

 
A un certo punto, con questa persona che è confinata con loro, considerandola sfortunata come loro, concludono…
 
(…)- Peccato! Qualcuno ti ha voluto male ―. Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso malvagio, portato qua e là per opera ostile di magia. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri. Non importano i motivi che ti hanno spinto, né la politica, né le leggi, né le illusioni della ragione. Non c’è ragione né cause ed effetti, ma soltanto un cattivo Destino, una Volontà che vuole il male, che è il potere magico delle cose. Lo Stato è una delle forme di questo destino, come il vento che brucia i raccolti e la febbre che ci rode il sangue. La vita non può essere, verso la sorte, che pazienza e silenzio. A che cosa valgono le parole? E che cosa si può fare? Niente.
 
La ragione del titolo è che la gente di questi posti dice che Cristo non è arrivato oltre Eboli, l’ultima cittadina del salernitano, in Campania. Dopo cominciava la Lucania, in cui era questo paesino di Aliano. Significa dire che la civiltà, la giustizia, una vita appena decente non sono arrivate lì. E Carlo Levi così diventa un testimone, lui che è nato nel 1902, quindi di una generazione precedente rispetto a Calvino e Fenoglio, prima ancora della seconda guerra mondiale, registra nel periodo del fascismo questa realtà sociale. E il suo romanzo diventa il grande simbolo, il segno fondamentale di una denuncia di un sistema politico che non regge e di un tipo di governo che non riesce a risolvere i problemi autentici dell’Italia al di là della propaganda.
Se pensiamo a Francesco Jovine nel suo “L’impero in provincia”, ritroviamo la stessa situazione, perché in quei racconti l’autore denunciava nel Molise la stessa realtà di povertà, di abbandono, di difficoltà di vita della Lucania, in contrasto con le pretese della propaganda…
MARIATERESA: Che poi è bizzarro vedere come da una parte c’è la rassegnazione dei contadini allo stato di cose e dall’altra quasi un assecondare questa follia, queste manie di grandezza che sono descritte in modo molto ridicolo da Levi.
Infatti è questo l’assurdo, è l’ignoranza il terreno del fascismo. Cosa che sottolineava anche Jovine; ma più ancora qui ci sono dei passi molto significativi, tra cui quello in cui Levi si sofferma su una persona che addirittura conserva una registrazione del discorso pronunziato da Italo Balbo per la sua trasvolata atlantica e se la ascolta tutti i giorni, come lui ha potuto verificare passando vicino alla sua casa. Quindi in questa realtà così povera vivono dei miti creati dal fascismo, perché Italo Balbo era uno degli eroi coltivati dalla propaganda di regime. E’ come se si realizzassero in questa identificazione nel duce o nella grande impresa di un trasvolatore e dimenticassero così i loro problemi. Pensiamo poi al fatto che le donne del paese si curassero, come riferisce Carlo Levi, con una moneta sulla fronte. E lui interviene con i sistemi giusti. Oppure, dopo essere ricorse a mammane e altro, finalmente si rivolgono a lui per generare un figlio. Alla fine se li accattiva e diventa un personaggio, prima ancora di essere riportato via.
Carlo Levi, quindi, è un esempio di realismo e di impostazione del problema meridionale da parte di un settentrionale. Ma andiamo a vedere un uomo del sud che ha parlato della questione meridionale, Leonardo Sciascia. Vi presentiamo un passo da “Il giorno della civetta”, che dichiara, evidenzia, un problema fondamentale della lotta contro la mafia in Sicilia, quello dell’omertà. Cominciamo a leggere, Mariateresa…
 
L'autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell'alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell'autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde, panelle, implorante ed ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l'autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L'ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l'uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all'autista «un momento» e aprì lo sportello mentre l'autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l'uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò. Il bigliettaio bestemmiò: la faccia gli era diventata colore di zolfo, tremava. Il venditore di panelle, che era a tre metri dall'uomo caduto, muovendosi come un granchio cominciò ad allontanarsi verso la porta della chiesa. Nell'autobus nessuno si mosse, l'autista era come impietrito, la destra sulla leva del freno e la sinistra sul volante. Il bigliettaio guardò tutte quelle facce che sembravano facce di ciechi, senza sguardo disse «l'hanno ammazzato» si levò il berretto e freneticamente cominciò a passarsi la mano tra i capelli; bestemmiò ancora.     
«I carabinieri» disse l'autista «bisogna chiamare i carabinieri». 

 
Questa è la premessa. Ora vediamo cosa succede all’arrivo dei carabinieri…
 
(…)Vennero i carabinieri, il maresciallo nero di barba e di sonno. L'apparire dei carabinieri squillò come allarme nel letargo dei viaggiatori: e dietro al bigliettaio, dall'altro sportello che l'autista aveva lasciato aperto, cominciarono a scendere. In apparente indolenza, voltandosi indietro come a cercare la distanza giusta per ammirare i campanili, si allontanavano verso i margini della piazza e, dopo un ultimo sguardo, svicolavano.
 
Tutta quella folla che c’era prima si allontana. Arriviamo al momento in cui il maresciallo interroga l’autista. Immaginiamo che io sia il maresciallo (il Franco Nero di un famoso film di Damiano Damiani, del 1968)  e tu l’autista e poi il bigliettaio, sempre modificando minimamente il testo come fosse una riduzione scenica…
 
MARESCIALLO (all’autista) «E che non viaggiava nessuno oggi?».   
AUTISTA «Qualcuno c'era» (con faccia smemorata)     
MARESCIALLO «Qualcuno vuol dire quattro cinque sei persone: io non ho mai visto questo autobus partire, che ci fosse un solo posto vuoto».   
AUTISTA «Non so (tutto spremuto nello sforzo di ricordare), non so: qualcuno, dico, così per dire; certo non erano cinque o sei, erano di più, forse l'autobus era pieno... Io non guardo mai la gente che c'è: mi infilo al mio posto e via... Solo la strada guardo, mi pagano per guardare la strada».     
MARESCIALLO (passandosi sulla faccia una mano stirata dai nervi) «Ho capito, tu guardi solo la strada; ma tu (rivolto inferocito verso il bigliettaio), tu stacchi i biglietti, prendi i soldi, dai il resto: conti le persone e le guardi in faccia... E se non vuoi che te ne faccia ricordare in camera di sicurezza, devi dirmi subito chi c'era sull'autobus, almeno dieci nomi devi dirmeli... Da tre anni che fai questa linea, da tre anni ti vedo ogni sera al caffè Italia: il paese lo conosci meglio di me...».     
BIGLIETTAIO (sorridendo) «Meglio di lei il paese non può conoscerlo nessuno».
MARESCIALLO (sogghignando) «E va bene, prima io e poi tu: va bene... Ma io sull'autobus non c'ero, che ricorderei uno per uno i viaggiatori che c'erano: dunque tocca a te, almeno dieci devi nominarmeli».     
BIGLIETTAIO «Non mi ricordo, sull'anima di mia madre, non mi ricordo; in questo momento di niente mi ricordo, mi pare che sto sognando». 
MARESCIALLO (infuriandosi) «Ti sveglio io ti sveglio, con un paio d'anni di galera ti sveglio...»

 
E così va avanti questa omertà, poi il carabiniere ricorda al maresciallo il panellaro, che mandano a chiamare e arriva con… “la faccia di un uomo sorpreso nel sonno più innocente”. 
  
MARESCIALLO (al bigliettaio, indicando il panellaro) «C’era? »    
BIGLIETTAIO (guardandosi una scarpa) «C'era».   
MARESCIALLO (con paterna dolcezza) «Dunque, tu, come al solito, sei venuto a vendere panelle qui: il primo autobus per Palermo, come al solito...».   
PANELLARO «Ho la licenza». 
MARESCIALLO (alzando al cielo occhi che invocavano pazienza) «Lo so, lo so e non me ne importa della licenza; voglio sapere una cosa sola, me la dici e ti lascio subito andare a vendere le panelle ai ragazzi: chi ha sparato?».   
PANELLARO (meravigliato e curioso) «Perché, hanno sparato?».

 
La conclusione di questo episodio è straordinaria. Ricordiamo che Leonardo Sciascia, nato nel 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, era un maestro che poi si è dato alla letteratura. Ha scritto anche “A ciascuno il suo”, un giallo vero e proprio, in cui il protagonista, Luciano Laurana (Gian Maria Volonté, nel film di Elio Petri del 1967), si mette sulle piste del responsabile di un delitto, di mafia evidentemente, sul quale la polizia non si raccapezza. Lui ha un’intuizione, sfruttando il particolare che i messaggi che venivano mandati erano messi insieme con lettere ritagliate da un giornale, che ricostruisce come tratte dall’”Osservatore romano”, giornale del Vaticano, perché dietro i frammenti, presi evidentemente dalla seconda pagina, ci sono parti dell’espressione “Unicuique suum”, appunto “A ciascuno il suo”, che appaiono sulla testata di quel quotidiano. Da lì risale a un religioso che lo leggeva e tutto questo poi lo porta sulle piste di un insospettabile autore del delitto. Ma puntualmente non arriva in fondo alle sue indagini e viene sacrificato, viene ucciso prima che scopra tutto.
Questo intrigo continuo, la lotta contro la mafia, la violenza, diventano la grande campagna di Leonardo Sciascia, che ha scritto anche “Candido” (ovvero Un sogno fatto in Sicilia), “Todo modo”, “Il contesto”, “L’affaire Moro”. Ha aderito al PCI, è diventato consigliere comunale di Palermo in quel partito, ma dopo qualche anno si è dimesso, per entrare successivamente alla Camera con i radicali, nel 1979. Era insofferente di certi modi di condurre anche la stessa lotta alla mafia, convinto che bisognasse combattere appunto l’omertà, ma che il metodo migliore, pur essendo chiaro il legame tra politica e associazione mafiosa, non fosse quello di mettere in primo piano quest’aspetto, ma quello dell’organizzazione delle bande, per poi risalire alle eventuali effettive collusioni.
Aveva già individuato quel meccanismo che poi ha invogliato alcune procure più a cercare il coinvolgimento della parte politica contraria al loro modo di pensare che a combattere veramente la mafia. Sul Corriere della Sera, il 10 gennaio 1987, pubblicò un articolo "I professionisti dell'antimafia", nel quale denunciava il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, gli "eroi della sesta", come li definì, che secondo lui utilizzavano la battaglia per la rinascita della Sicilia per le promozioni in magistratura.
Dopo la pubblicazione dell'articolo, Sciascia fu attaccato e isolato dalle maggiori forze politiche, ad eccezione dei radicali e dei socialisti. Fu anzi definito un “quaquaraquà”, famoso appellativo del “Giorno della civetta”, da alcuni magistrati che aveva definito «una frangia fanatica e stupida».
A proposito di questa complessa questione, scrive “Candido” ispirato a Voltaire, l’autore dell’omonimo romanzo, campione di quella razionalità con cui Sciascia avrebbe voluto combattere l’irrazionalità di quel meridione che favoriva fenomeni come la mafia.
Ed ora dedichiamo l’ultima parte della lezione a un colosso, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, noto per un solo romanzo, anche se ha scritto anche altro. Nato alla fine dell’Ottocento, morto nel 1957, lascia “Il Gattopardo”, che inquadra benissimo l’atmosfera di questo meridione. Un caso letterario, come quello di Svevo, che, scrivendo per diletto, è diventato un autore affermato in Europa dopo non essere stato letto mai per lunghi anni. Anche Tomasi in vita è stato a lungo ignorato, ma per la ragione che ha scritto il suo capolavoro verso la fine della sua esistenza.
E ha deciso di parlare del principe Fabrizio Salina, suo bisnonno, detto il Gattopardo dallo stemma di famiglia, spettatore dell’arrivo dei garibaldini nel 1860, che sembra minacciare le sostanze della nobiltà terriera. E’ la stessa situazione di “Signora Ava” di Jovine, in cui i De Risio di Guardialfiera, in Molise, temono che i contadini possano approfittare della nuova situazione per togliere le terre ai loro affamatori, i vecchi proprietari.
In realtà non cambierà nulla. Questo ci diceva Jovine, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, ma ce lo ripete Giuseppe Tomasi. Sostanzialmente l’espressione ricorrente nel romanzo è che “tutto doveva cambiare perché non cambiasse nulla”. E questa grande verità l’ha capita per primo il nipote del principe, Tancredi. Ricordiamo subito il film straordinario diretto da Luchino Visconti nel 1963, con un memorabile Burt Lancaster nei panni del principe, uno splendido Alain Delon in quelli di Tancredi, una magnifica Claudia Cardinale a interpretare Angelica, la sua fidanzata, e un bravissimo Paolo Stoppa nelle vesti del padre di lei, Calogero Sedara.
Tancredi, addirittura, invece che pensare a difendere ostinatamente la proprietà contro di loro, si unisce alle truppe di Garibaldi per governare il processo e fare in modo che non muti nulla. Sa che comunque, anche se lui non lo facesse, non cambierà nulla. E il Gattopardo, ascoltando il nipote, si convince, conquistato dalle sue tesi. Ma su questa storia se ne innesta un’altra. Tancredi si innamora di Angelica, figlia di Calogero Sedara, amministratore del feudo di Donnafugata, appartenente ai Salina, che, imbrogliando, è riuscito a mettere da parte un patrimonio e ad acquistare terreni. Per cui, quando il principe si trova a dovere trattare con lui questa novità già poco sopportata della relazione del nipote con Angelica, rimane spiazzato perché, parlando di dote, si rende conto che don Calogero ha più sostanze e più proprietà di lui. Questo, insieme ad altri fatti, gli farà dire che questo non è più un mondo per i gattopardi, ma per gli sciacalli come questi, che approfittano delle varie situazioni per i loro interessi, mentre Fabrizio aveva sempre vissuto il suo privilegio con un fare disinteressato, nobile, superiore.
Poi Chevaller, inviato del re, viene a proporre al principe di candidarsi al parlamento. Solita testimonianza del fatto che si facciano i giochi politici sulle spalle della povera gente, cioè che il regno chieda di candidarsi ai nobili proprietari di terre per evitare che passino ai contadini, con una specie di patto tra i latifondisti del sud e gli industriali del nord. E Fabrizio risponde che non ne vuole sapere, proponendo, con grande schifo, ma proponendolo, l’uomo dei tempi nuovi, la persona adatta per questi maneggi, Sedara.
Ma poiché non dobbiamo qui fare la storia dell’Ottocento, ci interessa in questa sede  vedere come Tomasi abbia rielaborato una vicenda nella quale il Gattopardo si farà trascinare suo malgrado a votare “sì” al plebiscito per l’annessione al regno, in questa generale situazione storica che risulterà una beffa per la povera gente, come abbiamo già più volte sottolineato. Ci interessa appunto di più presentare qualcosa dell’analisi che l’autore fa dei vari personaggi. Qui sono di fronte, nella scena madre del romanzo e del film, don Calogero e don Fabrizio…
 
“Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell'oro zecchino!" Sedàra si era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l'ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario.
Don Fabrizio, ad un tratto, senti che lo odiava; era all'affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva questi palazzi; si doveva a lui, al suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d'inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planavano, alla ricerca di prede putride, al disopra del valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d'invitarlo ad andarsene fuori dai piedi. Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri.
“Bello, don Calogero, bello. Ma ciò che supera tutto sono i nostri due ragazzi." Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell'altro. Il nero del "frack" di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione.

 
Queste sono le riflessioni indirette, in una specie di discorso indiretto libero, del Gattopardo, che piange un po’ questi due giovani virgulti, così spensierati, innamorati e non presaghi di quello che loro accadrà…
 
Né l'uno né l'altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.
 
Fabrizio riflette sul fatto che i loro corpi sono destinati a morire, perché è lui che ci pensa, continuamente. E quando Angelica, in un passo del romanzo e in una famosa scena del film, lo trova solo, nella biblioteca, nella quale si è appartato lasciando il salone del ballo, e lo vede così mortificato, così arreso, così triste, per rianimarlo gli fa la corte, davanti allo stesso Tancredi, che non le farà scenate di gelosia ma anzi la incoraggerà, ridestando l’orgoglio e quel briciolo di giovinezza che si riscatena all’interno del vecchio. Vediamo in questo passo la situazione precedente…
 
Fino a questo momento l'irritazione accumulata gli aveva dato energia; adesso con la distensione sopravvenne la stanchezza: erano già le due. Cercò un posto dove poter sedere tranquillo, lontano dagli uomini, amati e fratelli, va bene, ma sempre noiosi. Lo trovò presto: la biblioteca, piccola, silenziosa, illuminata e vuota. Sedette poi si rialzò per bere dell'acqua che si trovava su un tavolinetto. "Non c'è che l'acqua a esser davvero buona" pensò da autentico siciliano; e non si asciugò le goccioline rimaste sulle labbra. Sedette di nuovo. La biblioteca gli piaceva, ci si sentì presto a suo agio; essa non si opponeva alla di lui presa di possesso perché era impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo lì dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della "Morte del Giusto" di Greuze.
 
Da buon siciliano, il principe ha già spiegato, in un altro luogo del romanzo, la sua filosofia. Il siciliano è filosofo, è contemplatore (in particolare lui, che infatti è appassionato di astronomia) e non gli importa ciò che accade nel contingente, è fatalista, e quindi, in un mondo così fatto, non può avere dalla storia grandi riconoscimenti. E dovrà essere sempre maltrattato da altri popoli, perché pensa sempre che ci sono ragioni superiori a quelle della vita quotidiana normale. Lui soprattutto, Fabrizio, ne è convinto.
Il romanzo è composto di diverse parti, le prime sei si riferiscono alla vita del principe, la settima alla sua morte e l’ottava parla dei discendenti, soprattutto di tre donne che restano zitelle e di una disgregazione della famiglia. Arrivederci.
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