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NEOREALISMO: VITTORINI, PAVESE



Antologia - TERZO ANNO - 26^ Lezione
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Approfondimenti letterari
NEOREALISMO: VITTORINI, PAVESE
Ventiseiesima lezione, con Mariateresa, che mi aiuterà a parlare del neorealismo, per poi cominciare a trattare il tema della resistenza nella letteratura. Elio Vittorini, siracusano, con Pavese, è il protagonista di una grande svolta letteraria, perché i due hanno tradotto la narrativa americana e hanno inserito questa linfa nella nostra produzione, un po’ troppo legata al culto della forma e poco piena di sostanza, di contenuti, anche sociali. Si distinguevano dagli altri Moravia e Brancati, che abbiamo già presentato, ma il resto era letteratura accademica. C’era il culto della bella pagina, che ancora comunque rimane in questi autori, soprattutto in Vittorini, come vedremo.
Vittorini è nato nel 1908, ha esordito con un’esperienza fascista, aderì a quella parte del movimento che era più anarchica e andava incontro alle esigenze di un temperamento giovanile, che avrebbe poi abbandonato proprio in occasione della guerra di Spagna, di cui abbiamo parlato come di un momento discriminante, in cui si acquista maggiore coscienza di ciò che sta accadendo. Nel “Garofano rosso”, il suo primo romanzo, ricorda appunto la sua adesione al fascismo e la sua maturazione secondo queste idee, in un’epoca in cui, comunque, quel movimento ancora non rivelava gli aspetti più brutali.
Poi, dopo il 1936, Vittorini si schiera con la sinistra europea e scrive “Conversazione in Sicilia”, da cui traiamo questo passo dedicato agli “astratti furori”. E’ la rabbia astratta di chi sente che la società non è adeguata, non realizza quello che lui vorrebbe, durante un viaggio immaginario in Sicilia, nella terra delle origini, dove incontra la madre e altri personaggi. Ma il suo stato d’animo è ben descritto in questo passo che tu ci leggerai…
 
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire a vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.

 
L’acqua nelle scarpe è la metafora della situazione negativa che respira Silvestro, il protagonista nel quale Vittorini trasferisce la propria insoddisfazione della vita italiana. Presentiamo ora, a proposito dell’impegno politico seguito al momento rivelatore della guerra di Spagna, il suo intervento sul primo numero del “Politecnico”, una rivista da lui fondata che tra il 1945 e il 1947 indirizzò la cultura secondo il progetto di un intellettuale  organico, come lo voleva Gramsci, che quindi interpretasse i problemi quotidiani, non solo sul versante teorico ma anche su quello pratico, in modo che ci fosse un’attenzione a tutti i versanti del sapere (e questo è il motivo del titolo). Leggi, Mariateresa…
 
Da che cosa la cultura trae motivo per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l'uomo soffre nella società. L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo.
Per questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. (…) Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.

 
Sul “Politecnico” poi Vittorini avrebbe condotto una polemica con Togliatti, che avrebbe preteso, secondo il nostro autore, ma forse era proprio la realtà, che gli intellettuali che si muovevano intorno alla rivista sostenessero l’attività politica del partito comunista. Lo scrittore rispose, in un suo famoso intervento: “Noi non siamo i pifferai della rivoluzione”. Cioè l‘intellettuale deve essere libero, impegnato e anche simpatizzante del comunismo, ma non obbligato a fare come il pifferaio di Hamelin, che viene seguito dai suoi animaletti, cioè guidare coloro che dovrebbero fare la rivoluzione o votare per il partito. Infatti poi Vittorini uscirà fuori da quell’esperienza politica, come altri in un periodo attraversato da fatti che culminano nella rivoluzione ungherese. .  
“Uomini e no” è un altro romanzo in cui già il titolo ci dice della distinzione tra chi è uomo e chi non lo è. Durante la guerra si è assistito a casi di disumanità, che vede soprattutto nel campo fascista e nazista, però non esclude del tutto nel campo dei partigiani. Soltanto è così folle quella guerra voluta da Hitler, è così prevaricante l’atteggiamento nazista, che la disumanità si riversa soprattutto in quell’ambito. Tanto che l’autore arriva, in un passo, a ricordare una crudeltà assurda nei confronti di un poveraccio che, azzannato da un cane, lo uccide e viene preso dall’ufficiale nazista proprietario del cane e costretto a una morte orrenda: dopo una lunga preparazione, sarà sbranato da altri cani. Vittorini conduce questo romanzo in un modo particolare. Ci sono dei momenti in cui dialogano un protagonista e lui, l’autore, i cui interventi sono in corsivo. Uno di questi ve lo leggo…
 
L'uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all'offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutta quello che in lui è offeso, e ch'era, in lui, per renderlo felice. Questo è l'uomo.  Ma l'offesa che cos'è? E’ fatta all'uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L'oppressione?
 
Un uomo ha operato questa disumanità nei confronti di un altro uomo. Riflessione esistenziale che ritroveremo in Pavese, con cui divise l’esperienza di traduttore della letteratura americana, per la Bompiani e per la Einaudi, facendo conoscere in Italia  autori come Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Steinbeck, Caldwell, produzione fatta di realtà, di problemi sociali, dopo il ’29, negli anni della “grande depressione”, che cambiò anche lo stile della nostra narrativa, lo rese più snello, più essenziale, più sostanzioso.
E passiamo dunque all’altro autore del neorealismo, che si chiamò così da questo bisogno di tornare ai problemi della realtà, dopo la letteratura troppo accademica. Questo nome lo si è dato “a posteriori”, in quanto si era affermato per indicare certo cinema, che nacque qualche anno dopo, al termine del conflitto mondiale, il cinema dei De Sica, Zavattini, Rossellini, con “Paisà”, “Sciuscià”, “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, e poi fu usato per indicare anche questo nuovo realismo che si manifesta attraverso la narrativa già negli ultimi anni ’30 e nei primi anni ’40.
Cesare Pavese è una personalità diversa da quella di Vittorini, con un carattere più chiuso, introverso, che spiega anche la sua fine. Si potrebbe cominciare a parlare della vita di Pavese dalla sua conclusione, cioè dalla morte per suicidio. Si uccide nel 1950, avendo preparato una spiegazione del suo gesto nel duo diario, pubblicato postumo, intitolato “Il mestiere di vivere”. Era un’espressione che Pavese usava per dire che è difficile imparare a vivere. Buona parte della sua decisione fu motivata da delusioni amorose (ha amato una grande attrice americana, ha avuto diverse vicende sfortunate in questo campo), però fu determinata anche da un certo irrisolto rapporto con la realtà e la società in cui viveva, di cui un’espressione è proprio la sua relazione con la resistenza, con cui Vittorini ha avuto un approccio maturo, in “Uomini e no”, ambientato nel periodo in cui i tedeschi occupavano l’Italia e ad essi si opponevano i partigiani. Ma Pavese ha vissuto sempre questo senso di colpa per non aver aderito, non avere partecipato attivamente alla lotta. E questo ce lo dice nella “Casa in collina”, uno dei due racconti, l’altro è “Il carcere”, contenuti in un libro intitolato “Prima che il gallo canti”, titolo con cui si allude al tradimento: infatti nei vangeli Pietro prima che il gallo canti tradirà Gesù. Mariateresa ora ci leggerà questo passo della “Casa in collina”…
 
Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche, dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch'io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.
Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l'orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sì. Gli sfollati dei prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente più sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch'io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce. Allora la notte si passava in città: Non si sapeva ch'era un tempo così breve. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri più futili. Si viveva, o così si credeva, con gli altri e per gli altri.
Devo dire — cominciando questa storia di una lunga illusione — che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassù dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute. Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s’era conchiusa la mia gioventù, trovò con la guerra una tana e un orizzonte.

 
Cioè Pavese tendeva a isolarsi e la guerra è arrivata forse opportuna per giustificare il suo isolamento, in quanto era naturale rifugiarsi in quella situazione. E poi vedete come in fondo gli “astratti furori” di Vittorini, lì manifestazione di un carattere aperto, qui si riproducono in un temperamento chiuso. Il suo estraniarsi è dovuto anche questo a una rabbia interiore, non è solo un risentimento individuale, è anche, si sottintende, si intravede, una reazione nei confronti di un contesto. Infatti ci sono altri passi, della “Casa in collina”, ma anche del “Compagno”, un altro romanzo di Pavese, in cui si sottolinea l’egoismo e il cinismo dei contadini, che vedono gli stessi partigiani con un occhio particolare, anche negativo, perché sono quelli che vengono a requisire i loro beni, come lo fanno i nazisti; e quindi evitano quasi il contatto con queste bande, perché hanno paura che prosciughino le loro sostanze. E poi ci sono le famose repressioni tedesche, che colpiscono spesso proprio quella gente che non ha combattuto. E l’autore ricorda che addirittura tra i suoi parenti ha intravisto questo comportamento, che ha sottolineato come, sotto certi aspetti, assurdo, anche se si spiega nella povertà delle Langhe, la regione in cui è nato. Soprattutto ha la consapevolezza della contraddizione che c’è fra la lotta partigiana e la mancanza di un sostegno da parte della base contadina. Anche questo è testimonianza dell’atteggiamento più maturo, di questo Pavese così immaturo da andare verso il suicidio, nell’analisi della resistenza, che per lui, come dirà Fenoglio, lo vedremo in una prossima lezione, è una sorta di guerra civile. Quando si dice così si crea diffidenza nell’ascoltatore. Comunque è stata sì una lotta tra fascisti e antifascisti in cui il giusto era dalla parte di questi ultimi, però è stato spesso un fatto non eroico e di massa come lo si è voluto presentare dopo. O almeno, Pavese e Fenoglio, che ne sono stati protagonisti, in diversa misura, cercano di darci l’immagine che in ogni modo si è trattato di una tragedia, un aggredirsi, un azzannarsi tra italiani.
MARIATERESA: Recentemente c’è stata una rilettura….
Una rilettura un po’ più equilibrata, sempre mantenendo i grandissimi valori della resistenza, soprattutto in questo periodo di celebrazioni dell’Unità, ma ricordando certe situazioni. Infatti nell’ambito della cosiddetta letteratura della resistenza ci sono gli autori più maturi, più profondi, quelli già citati, come Vittorini, Pavese, Fenoglio, che danno, in diverse sfumature, una ricostruzione del fenomeno non eroica, non mitica…
MARIATERESA: Comunque critica.
Questa è la ragione della loro grandezza, rispetto ad interpreti che non hanno lasciato il segno. Tra questi metterei Renata Viganò con il suo “L’Agnese va a morire”, che pure ha vinto un premio Viareggio nel 1949, e ha avuto una trasposizione cinematografica con la regia di Giuliano Montaldo nel 1976. 
Pavese poi ha scritto poesie, come gli stupendi versi della raccolta “Lavorare stanca” e “La luna e i falò”, straordinaria rivisitazione mitica dei suoi paesaggi giovanili, le Langhe, la campagna che ha sempre amato. L’’esperienza d’amore con quella attrice americana di cui si diceva concluderà la sua vita e a lei dedicherà uno scritto profetico, che dà il titolo a una raccolta di dieci componimenti, inediti, del 1950…
 
VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI
    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
    Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

 
E con questa citazione così negativa, di colui che si è ucciso lasciando tracce della sua decisione nel diario “Il mestiere di vivere”, chiudiamo la lezione. Arrivederci.
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