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TEATRO DEL NOVECENTO: BRECHT, BECKETT, EDUARDO



Antologia - TERZO ANNO - 24^ Lezione
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TEATRO DEL NOVECENTO: BRECHT, BECKETT, EDUARDO
 
Ventiquattresima lezione. Torna vicino a me Mariateresa, che ci accompagnerà in quest’ultimo periodo. Dedichiamo questa lezione ancora al teatro. La precedente aveva riguardato quello molisano, con Tonino Armagno, passiamo ora al contesto europeo. Cominciamo con un pilastro della scena della prima metà del Novecento, Bertolt Brecht. Vissuto prima nella sua Germania, poi allontanatosi, perché non condivideva naturalmente le idee del regime nazista, e recatosi negli Stati Uniti, ha scritto opere di tipo espressionista, adottando la tecnica dello “straniamento”, che risiede nel tentativo di creare un distacco nello spettatore, in maniera che non si senta coinvolto in quello che accade sulla scena e possa riflettere. Perché il suo è un teatro “epico”, quindi pedagogico, in cui si rivisitano i problemi grandi del mondo attraverso metafore, attraverso storie che in forma traslata parlano dei grandi nodi sia esistenziali che soprattutto politici della società. Brecht tra l’altro è sempre stato un grande ideologo, interprete della corrente di sinistra del pensiero internazionale.
Partiamo dalla sua opera più importante e più nota, insieme con “L’opera da tre soldi”, che è “Vita di Galileo”, che merita una riflessione che faremo però soltanto dopo averne letto un passo. Tu, Galileo, parli con me, Sagredo…
 
SAGREDO (esitante): E…a proposito della teoria che la terra gira intorno al sole? Hai fatto qualche scoperta in argomento?
GALILEO: No. Ma martedì ho osservato  qualche cosa che potrebbe portarmi un passo avanti. Dov’è Giove? Vicino a Giove ci sono quattro stelle minori. Mi c’imbattei per caso lunedì, ma non rilevai esattamente la loro posizione. Martedì le guardai di nuovo e avrei giurato che si erano spostate…Si sono spostate ancora! Dimmi (cedendo il telescopio a Sagredo) che cosa vedi.
SAGREDO: Ne vedo tre sole.
GALILEO: E la quarta? Prendiamo le carte e mettiamoci al lavoro. (Si siedono al tavolo. La luce si abbassa, poi ritorna normale, è quasi l’alba.) La quarta stella non può che trovarsi dietro la stella maggiore, dove appunto non possiamo vederla. Ossia, ci sono delle stelle piccole che ruotano intorno a una più grande. E dove vanno a finire le famose sfere di cristallo su cui sono fissate le stelle?
SAGREDO: Già. Se altre stelle girano intorno a Giove, è impossibile che Giove sia una stella fissa.
GALILEO: Non vi sono sostegni nel cielo. (Sagredo ride scioccamente) Non stare a guardarmi così come un citrullo: quello che dico, è vero!
SAGREDO: Penso che sia vero e mi vengono i brividi.
GALILEO: Perché?
SAGREDO: Ma rifletti a quello che capiterà se dirai che c’è un altro sole, intorno al quale girano altre terre! E che ci sono soltanto stelle! E che tra terra e cielo non c’è differenza! Che il cielo non esiste! Dov’è Dio, allora?
GALILEO: Che vuoi dire?
SAGREDO: Dio! Dov’è Dio?
GALILEO (irritato): Lì, no! Allo stesso modo che non sarebbe qui, se gli abitanti della luna venissero quaggiù a cercarlo.
SAGREDO: E allora dov’è?
GALILEO: Io non sono un teologo! Sono un matematico.
SAGREDO: Tu sei un essere umano. (Quasi gridando) Dov’è Dio nel tuo sistema dell’universo?
GALILEO: In noi…e in nessun luogo.
SAGREDO: Dieci anni fa un uomo finì sul rogo per aver detto esattamente la stessa cosa.
GALILEO: Giordano Bruno? Fu un idiota. Pubblicò troppo presto. Se avesse potuto provare quello che diceva, non l’avrebbero condannato.
SAGREDO (incredulo): Credi davvero che bastino delle prove per cambiare qualche cosa?
GALILEO: Sì. La prova è sempre una grande soluzione. Se io getto a terra una pietra (si toglie di tasca un sassolino e lo getta a terra), chi alzerà la voce ad affermare che non è caduta? Io credo negli uomini. Lo so: dicono che un asino è un cavallo quando vogliono venderlo, e che un cavallo è un asino quando vogliono comprarlo. Ma guarda un po' la folla, quando per la strada un uomo si fa avanti a dimostrare che un asino è un asino! Non c’è donna che non voglia dormire con lui.

 
Si allude alla grande novità che costituiva il sistema copernicano. Si perdeva  ogni punto di riferimento, la terra non era più al centro dell’universo e questa verità sconvolgente rimetteva in discussione anche la centralità della Chiesa, dell’autorità non solo papale ma anche imperiale. Il sistema politico sul quale si reggeva il mondo veniva messo in discussione. E poi naturalmente si riteneva che contraddicesse i passi dell’antico testamento, come il famoso “Fermati, o sole” di Giosuè, di cui abbiamo già parlato.
A questo punto, quando non stiamo parlando del Seicento, ma del teatro del Novecento, a noi interessa la vicenda rivisitata da Brecht per quello che l’autore vuol far dire a Galileo nella sua epoca. In realtà lui si è allontanato dalla Germania nazista e ha in fondo, secondo molti, tradito la sua nazione, non ha continuato a lottare dentro il suo paese, se ne è andato in America. E vuol dimostrare appunto che è andato via per potere poi lottare da fuori, continuare a contrastare e contestare il nazismo dagli Stati Uniti. Dunque avrebbe fatto quello che ha fatto Galileo, che ha abiurato, ma solo per potere continuare la sua opera di scienziato e scrivere i “Discorsi su due nuove scienze”, che consegna infatti, nella ricostruzione di Brecht, al discepolo Andrea Sarti alla fine del dramma, al che l’allievo capisce tutto, lo ringrazia e riacquista la stima per il suo maestro, perché comprende che ha abiurato, ma solo con questo secondo scopo. 
Poi Brecht riprenderà il suo “Vita di Galileo” e lo rifarà, in un’altra versione, quando si verificherà che gli americani sganceranno le bombe su Hiroshima e Nagasaki. A quel punto diventa protagonista questo fatto che per il nostro autore è assurdo, cioè che degli scienziati abbiano messo le loro conoscenze al servizio della distruzione dell’umanità, anziché del miglioramento delle sue condizioni, qualunque cosa ne dicano gli americani, che hanno giustificato e spiegato in mille modi questo intervento a Hiroshima e Nagasaki, che nessuno potrà mai in maniera convincente sostenere che sia stato positivo. E allora Brecht, volendo colpire questa scelta di Truman, fa di Galileo un personaggio negativo, che però è consapevole di questo, e il discorso sul tradimento della scienza, che nella prima versione faceva prima della consegna dei “Discorsi” (per cui quello che rimaneva nello spettatore era quest’ultima, quindi il fatto positivo), qui diventa l’atto finale, di denuncia e autodenuncia dello scienziato Galileo, che dice di avere tradito la scienza non mettendola al servizio dell’umanità, abiurando, colpevole come gli scienziati del Novecento, Fermi, Oppenheimer e tutti gli altri, che hanno messo quest’arma nelle mani degli Stati Uniti contro i giapponesi, consentendo appunto lo sfruttamento dell’energia atomica per distruggere decine di migliaia di persone.
Di Brecht voglio ricordare ancora “L’opera da tre soldi”, che è testimonianza del suo utilizzare la musica, in questo caso quella di Kurt Weil, ma soprattutto ancora “L’anima buona del Sezuan”, in cui immagina come protagonista una prostituta, Shen Te, che, dopo avere svolto per tanto tempo la sua professione, diventa l’unica capace di intervenire a favore dei poveri, dei diseredati, capace di umanità, insomma, però si deve subito rendere conto che intorno a sé c’è tanto egoismo che non apprezza il suo modo di operare. A un certo punto della vicenda, scompare Shen Te, non la si vede più, e arriva un suo cugino, Shui Ta, che comincia a fare le stesse cose di lei, ma con metodi diversi, cioè con sistemi aggressivi, e ottiene risultati. Però poi viene processato per questa stessa violenza e, al momento cruciale dell’azione, butta via il travestimento e si rivela essere Shen Te, che si era camuffata da maschio, da cugino, per fare quello che non era riuscita a fare prima con i suoi metodi con altri, nuovi.  Si vuole dimostrare che in questo mondo è difficile anche fare del bene, e però chi è più generoso è proprio quello che viene disprezzato dalla società, come questo personaggio della prostituta.
Altra opera interessante di Brecht è “Madre Coraggio e i suoi figli”, una rivisitazione della guerra dei trent’anni del Seicento, in cui una vivandiera, cioè una che vive del commercio di generi alimentari durante la guerra, quando le uccidono un figlio, diventa molto più cinica, comincia ad augurarsi la morte di tutti e pensa soltanto a guadagnare. La situazione sociale intorno a lei, la guerra, l’ha resa così esasperata e priva di umanità. E’ il solito ragionamento di Brecht: la società ci disumanizza e ci rende cinici e crudeli.
E poi ancora, di recente, ho visto al “Piccolo” di Milano “Santa Giovanna dei macelli”, un drammone di Brecht che dura quasi tre ore, messo in scena con la regia di Luca Ronconi, in cui alcune battute erano recitate da un allievo appena approdato a quella scuola prestigiosa, Domenico Florio, che non ha mai fatto mistero del legame con il mio laboratorio, in cui si è formato e motivato al teatro. E’ stata un’esperienza positiva andare a verificare come questo ragazzo abbia già avuto una sua piccola parte nello spettacolo di Ronconi. Un’opera pesante, ma che trattava un tema serio, il tema dei maneggi delle varie industrie per mantenersi a galla nella situazione molto problematica della crisi del ’29, con speculazioni varie. A un certo punto, nel campo della produzione di carni, appunto, ce n’è uno che manovra a danno di altri capitalisti, li riduce tutti sul lastrico, con le loro imprese e con i lavoratori, che fanno la fame. Sempre cinicamente, non si preoccupa delle conseguenze sulle maestranze e questa Giovanna, quando si rende conto di ciò che sta succedendo,  interpreta le loro esigenze, si schiera con loro nella protesta e si chiamerà Santa Giovanna dei macelli perché si sacrificherà in questo settore della produzione di carni. Alla fine sarà coinvolto nel dissesto finanziario da lui provocato anche il protagonista malefico, quello che aveva pensato solo ai suoi interessi e a guadagnare a danno di tutti gli altri. Quindi la crisi del ’29 analizzata da un punto di vista sociale, di rivendicazione delle esigenze delle grandi masse di lavoratori.
Ultima considerazione sul teatro di Bertolt Brecht è il suo procedere per stazioni, cioè per scene staccate, separate una dall’altra, che vuole essere una metafora del vivere sociale, nel senso che la nostra vita è fatta così, con noi divisi tra noi in situazioni divise tra loro. Cioè Brecht nel suo teatro espressionista ci dice che in questo mondo non c’è comunicazione. Il problema grosso è l’incontro tra i bisogni delle varie persone.
Passiamo ora a un altro grande protagonista dello stesso periodo, Samuel Beckett, un irlandese, con la genialità tipica del suo popolo, vissuto però per buona parte della sua vita a Parigi. E la sua produzione maggiore è in francese. E’ stato l’autore e il promotore di una drammaturgia che va sotto il nome di “teatro dell’assurdo”, di cui vi diamo un’idea attraverso un testo famosissimo, “Aspettando Godot”. I protagonisti sono due straccioni, due clochard. Quello che domina è il “nonsense”, a cui siamo già un po’ abituati attraverso i monologhi di Joyce e il flusso di coscienza. Lo stesso scollegamento è tra questi personaggi, perché si vuole indicare anche qui la difficoltà di comunicazione nel mondo moderno. L’assurdità che è in questo dialogo in realtà è nella società. Vladimiro (io) ed Estragone (tu) stanno parlando e non si sa che cosa debba accadere…
 
VLADIMIRO Ecco gli uomini! Se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede. (Per la terza volta, si toglie il cappello, ci guarda dentro, ci fa scorrere la mano, lo scuote, ci picchia sopra,  ci soffia dentro e lo rimette in testa) La cosa comincia a preoccuparmi. (Pausa. Estragone agita il piede dimenando le dita per far circolare l'aria). Uno dei ladroni si salvò. (Pausa). E’ una percentuale onesta. (Pausa). Gogo...
ESTRAGONE Cosa?
VLADIMIRO E se ci pentissimo?
ESTRAGONE Di cosa?
VLADIMIRO Be'... (Cerca) Non sarebbe proprio indispensabile scendere ai particolari.
ESTRAGONE Di esser nati?
VLADIMIRO (scoppia in una gran risata, che subito soffoca, portandosi la mano al pube, col volto contratto) Proibito anche il riso.
ESTRAGONE Bel sacrificio.
VLADIMIRO Si può solo sorridere. (Il suo viso si fende in un sorriso esagerato, che si cristallizza, dura qualche istante, poi di colpo di spegne) Non è la stessa cosa. Comunque...
(…)
VLADIMIRO Puah!
estragone -(Ritorna al centro della scena e guarda verso il fondo) Luogo incantevole. (Si volta, avanza fino alla ribalta, guarda verso il pubblico) Panorami ridenti. (Si volta verso Vladimiro) Andiamocene.
VLADIMIRO Non si può.
ESTRAGONE Perché?
VLADIMIRO Stiamo aspettando Godot.
ESTRAGONE Già, è vero. (Pausa) Sei sicuro che sia qui?
VLADIMIRO Cosa?
ESTRAGONE Che lo dobbiamo aspettare.
VLADIMIRO -Ha detto davanti all’albero. (Guardano l’albero) Ne vedi altri?
ESTRAGONE Che albero è?
VLADIMIRO Un salice, sembrerebbe.
ESTRAGONE E le foglie dove sono?
VLADIMIRO Dev’essere morto.
ESTRAGONE Finito di piangere.
VLADIMIRO A meno che non sia la stagione giusta.
ESTRAGONE A me sembra piuttosto un cespuglio.
VLADIMIRO Un arbusto.
ESTRAGONE Un cespuglio.
VLADIMIRO -Un... (S’interrompe) Cosa vorresti insinuare? Che ci siamo sbagliati di posto?
ESTRAGONE Dovrebbe essere già qui.
VLADIMIRO Non ha detto che verrà di sicuro.
ESTRAGONE E se non viene?
VLADIMIRO Torneremo domani.
ESTRAGONE E magari dopodomani.
VLADIMIRO Forse.
ESTRAGONE E così di seguito.
VLADIMIRO Insomma...
ESTRAGONE Finché non verrà.
VLADIMIRO Sei spietato.
ESTRAGONE Siamo già venuti ieri.
VLADIMIRO Ah no! Qui ti sbagli.
ESTRAGONE Cosa abbiamo fatto ieri?
VLADIMIRO Cosa abbiamo fatto ieri?
ESTRAGONE Sì.
VLADIMIRO  Be’... (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione.
ESTRAGONE Io dico che eravamo qui.
VLADIMIRO (Occhiata circolare) Forse il posto ti sembra familiare?
ESTRAGONE Non dico questo.
VLADIMIRO  E allora?
ESTRAGONE Ma non vuol dire.
VLADIMIRO  Però, però... Quell’albero... (voltandosi verso il pubblico) ... quella torbiera.
ESTRAGONE Sei sicuro che era stasera?
VLADIMIRO Cosa?
ESTRAGONE Che bisognava aspettarlo?
VLADIMIRO Ha detto sabato. (Pausa). Mi pare.
ESTRAGONE Ti pare.
VLADIMIRO Devo aver preso nota. (Si fruga in tutte le tasche, strapiene di cianfrusaglie).
ESTRAGONE Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà piuttosto domenica? (Pausa) O lunedì? (Pausa) O venerdì?
VLADIMIRO (guardandosi intorno affannatissimo come se la data fosse scritta sul paesaggio) Non è possibile.
ESTRAGONE O giovedì.
VLADIMIRO Come si fa?
ESTRAGONE Se si è scomodato per niente ieri sera, puoi star sicuro che oggi non verrà.
VLADIMIRO Ma tu dici che noi siamo venuti, ieri sera.
ESTRAGONE Potrei sbagliarmi. (Pausa). Stiamo un po’ zitti, se ti va.
VLADIMIRO (fisicamente) Mi va. (Estragone torna a sedersi per terra. Vladimiro agitatissimo percorre la scena avanti e indietro, si ferma di tanto in tanto a scrutare l’orizzonte. Estragone si addormenta. Vladimiro si ferma davanti a Estragone) Gogo…(Silenzio). Gogo…(Silenzio). Gogo!

 
Aspettano Godot (misto di “god”, “dio”, e “ot”, suffisso di Lancelot, insomma una specie di personaggio epico e nello stesso tempo divino), che non arriva mai. Tutto è attesa di un qualcosa che non si materializza, a dimostrare che tutta la nostra vita è un’ansia inappagata di realizzare nostri desideri. Anche il riferimento ai ladroni, pensando che uno si salvò, indica che il giusto e l’ingiusto si dividono le probabilità in parti uguali.
Di Beckett si cita soprattutto quest’opera, che più delle altre ha impressionato il pubblico europeo, ma lui ha veramente rivoluzionato tutto, in altre commedie come “Finale di partita”, “Giorni felici”. Addirittura una volta, in “Respiro”, mise in scena semplicemente la vita dell’uomo, attraverso la rappresentazione di un vagito, un respiro e un rantolo, che indicavano tre momenti fondamentali dell’esistenza; e la sua irlandesità, in fondo, è nel suo genio, ma anche nel suo porsi al di fuori delle convenzioni. Tutti gli irlandesi sono stati così perché hanno avuto una vita di grande difficoltà, nella loro e nelle generazioni precedenti, con la dominazione inglese. Sono noti i problemi sorti già nel Seicento, con la guerra per l’autonomia dell’Irlanda. Tanto che il primo grande genio di questo paese è Swift, poi si prosegue e si arriva fino a Joyce e all’autore che vi abbiamo appena presentato.
Abbiamo ancora qualche minuto per presentarvi Eduardo, che ci permette di rientrare nel campo italiano, anzi più esattamente napoletano. Ho sempre sostenuto che Eduardo vale per il suo teatro in lingua napoletana, ma anche per le traduzioni che se ne fanno in lingua italiana e in altre. E voglio darvi subito un esempio di un grandissimo testo che tutti conoscono, “Filumena Marturano”, in una scena riprodotta in italiano anziché in dialetto. Quando la proponemmo in un progetto europeo sulla figura della donna, si diceva che perdeva molto del suo sapore e che non aveva senso una Filomena Marturano che si esprimesse nella lingua nazionale. In realtà, era il 2004, traducemmo in spagnolo il passo che vi leggeremo tra poco e così lo presentammo ad Almunecar, in Andalusia, con grande apprezzamento di un collega del posto, anche lui esperto di teatro, che non conosceva l’opera di Eduardo e la scoprì ascoltandola prima in italiano, quando venne a farci visita con i suoi studenti nel Molise, e poi in spagnolo, quando gliela rappresentammo nella sua lingua, nei due spettacoli organizzati dalle due scuole per il progetto Comenius. Infatti la cultura europea è fatta anche di trasmissione in una lingua comprensibile, che ci permette di nutrirci a vicenda, uscendo fuori dai limiti del dialetto. Il progetto europeo si chiamava “La donna nella tradizione europea”, tutto basato sul teatro, con testi originali e d’autore, in italiano, inglese, francese e spagnolo, con inserimenti di contributi degli spagnoli nel nostro spettacolo “Domina” e di apporti nostri in quello loro “Ariana en el laberinto”. Un progetto premiato a Gorizia, come il migliore esempio di uso del teatro per l’apprendimento delle lingue.
Filomena è una prostituta che fa la scelta di cominciare a lavorare per il futuro di tre figli che ha avuto da diversi clienti. Riproduciamo il momento in cui rivela ai ragazzi che sono figli suoi, di una prostituta. A te, Mariateresa, il merito di farci credere con la tua interpretazione che non solo il dialetto dà efficacia e verità a questo personaggio...
 
FILOMENA: Siete miei figli, e io sono Filomena Marturano. Non c’è bisogno di dire altro. Avrete sentito parlare di me. Però ho qualcosa da dire, di quando avevo 17 anni. Un basso nero, affumicato, dove l’estate non si respira il caldo perché la gente è assai e l’inverno il freddo fa sbattere i denti, dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno. In un basso di quelli stavo io con la mia famiglia. Una folla! Ci coricavamo senza dire buonanotte e ci svegliavamo senza dire buongiorno. Una parola buona me la disse mio padre. E ancora tremo. Disse: “Ti stai facendo grossa e qui non c’è da mangiare. Lo sai?” La sera ci mettevamo a tavola. Un piatto grosso e non so quante forchette. Forse non era vero, ma ogni volta che mettevo la forchetta nel piatto mi sentivo guardare. Mi pareva di rubare quel mangiare. Avevo 17 anni. Passavano le signorine vestite bene, con belle scarpe, e io le guardavo...Una sera incontrai una compagna che manco la riconobbi, tanto era vestita bene. Mi disse: “Così...così...così”. Non dormii tutta la notte...E il calore...il calore...e conobbi a te...Non li ho uccisi i figli! La famiglia! 25 anni ci ho pensato! E vi ho cresciuti, vi ho fatto uomini, ho rubato a lui (mostra Domenico) per crescervi!
 
Vi risparmiamo la sorpresa di questi ragazzi e anche le diverse reazioni: c’è chi accoglie in lei comunque una madre, chi è perplesso e chi scappa sbattendo la porta. Uno è figlio di Domenico, ma lei vuole aiutare tutti e tre. Andiamo al punto in cui Domenico viene richiamato da Filomena alle sue responsabilità. Lui le sta dicendo intanto…
 
DOMENICO: (vanno via) Sei una pazza, hai voluto guastare la pace di quei ragazzi! Perché gliel’hai detto?
FILOMENA: Perché uno di quei tre è figlio a te!
DOMENICO: E chi ti crede?
FILOMENA: Uno di quei tre è figlio a te!
DOMENICO: Ma stai zitta!
FILOMENA: Ti potevo dire che tutt’e tre ti erano figli. Ci avresti creduto.
DOMENICO: Non è vero!
FILOMENA: E’ vero, Domenico, è vero! Una sera, una di quelle tante, che quando te ne andavi mi regalavi cento lire...una sera mi dicesti: “Filomena, facciamo vedere che ci vogliamo bene”. E spegnesti la luce. Io quella sera ti ho voluto bene veramente. Tu no, avevi fatto vedere...e quando accendesti la luce un’altra volta mi desti il solito biglietto da cento lire. Io ci ho segnato la data. Tu poi partisti e ti ho aspettato come una santa! Quando capii che non avevi capito niente, tornai a fare quello che facevo prima.
DOMENICO: E chi è?
FILOMENA: Eh no, questo non te lo dico! Devono essere uguali tutti e tre.
DOMENICO: E chi è?
FILOMENA: Devono essere uguali tutti e tre!
DOMENICO: E sono uguali tutti e tre! Sono figli tuoi! Non li conosco...Vattene!
FILOMENA: Va bene. E ricordati. Se quello che ti ho detto lo dici ai miei figli, ti uccido! Domani mando a prendere la roba mia. (prende dal seno un medaglione, lo apre e ne cava un vecchio biglietto da cento ripiegato, ne strappa un pezzetto, poi, rivolta a Domenico) Ci avevo segnato un mio conto...Tieni. (poggia il biglietto sul tavolo) I figli non si pagano!

 
Famosa battuta di Filomena. Il tema è chiaro. Si è sempre responsabili delle proprie azioni, anche quando si sta usando una donna per un rapporto a pagamento.         L’opera di Eduardo, sul quale faremo un grande volo generale, è piena di riflessione esistenziale. Pensiamo a “Napoli milionaria”, una commedia, tragedia anzi, si potrebbe dire, in cui si parla di una Napoli che durante la guerra fa la borsa nera. Il vero tema è la famiglia, che si disgrega perché pensano tutti a fare soldi, tra l’altro su problemi e sfortune degli altri. C’è già un giudizio sull’egoismo della gente, prima che sui problemi dell’unità familiare, che viene messa in discussione. Il protagonista mette ogni cosa a posto, con grande pazienza interviene per far capire a tutti che stanno sbagliando.
La stessa cosa accade in “Natale in casa Cupiello”, dove un padre cerca di coltivare nel suo presepe l’idea di una famiglia unita. Nessuno se lo fila, compreso Lucariello (“Scetate, song ‘e nnove ecc.), che appunto non si sveglia, e non apprezza il presepe (Te piace ‘o ppresepe?- No, nun me piace). Si va avanti così. Ma in questo ostinarsi a tentare di fare amare il suo presepe, sta la volontà di difendere la stabilità del nucleo familiare, che in una società consumistica e aggressiva si sta perdendo. Anche qui ci sono delle storie veramente gravi, che in questo caso non si risolvono nemmeno nel finale.
In “Questi fantasmi”, a tutti nota, la storia di una casa abitata dai fantasmi, che perciò nessuno vuole, un poveraccio trova un fitto bassissimo proprio perché è accompagnata da questa fama. La realtà è che, e qui si innesta sempre il tema della famiglia, non si accorge, o finge di non accorgersi, questo lascia alla nostra interpretazione Eduardo, che il fantasma è l’amante di sua moglie, che le fa continuamente dei regali. Tanto che lei pensa che lui sappia benissimo cosa accada e faccia quindi il cornuto contento per ottenere il sostegno economico che questa persona assicura in cambio del rapporto. E’ quindi la tragedia dell’opportunismo che è generato dalla povertà.
E poi ancora “Non ti pago”, tragedia della rivalità nata dai numeri del lotto che vengono in sogno al protagonista e sono presi da un altro che se li gioca e vince; e si disputa se la vincita sia di chi ha giocato o di chi ha sognato.
Infine, tra le tante altre, la più significativa secondo me è “Le voci di dentro”. Un vecchio  non parla più, ritirato in un sopralzo comunicante con l’appartamento, e si esprime soltanto con i fuochi d’artificio, che erano il suo lavoro. C’è però chi sa interpretarlo: un tricchetracche e un bengala significa una cosa, due bengala un’altra e così via. Si rifiuta di parlare per significare il suo dissenso nei confronti di una società che non condivide.
Eduardo, figlio naturale di Eduardo Scarpetta, ha recitato già da bambino nel teatro del padre, a sua volta ha creato una compagnia con e anche contro il fratello Peppino e la sorella Titina (non sono mai andati d’accordo). Tutta realtà che sembra essere dominio napoletano, ma questo forse è l’orgoglio, ma anche il difetto, il limite della posizione di Eduardo nella letteratura. La rivendicazione della napoletanità può costituire il giusto orgoglio di un ambiente che è votato al teatro. Però questo insistere eccessivamente su questo motivo chiude questa produzione nell’ambito nazionale e addirittura regionale. In fondo l’autore ha dato ottime prove nelle traduzioni, intervenendo sulla “Tempesta” di Shakespeare, su Pirandello, come abbiamo visto, con una memorabile interpretazione del “Berretto a sonagli”, sia in teatro che in televisione, ha compiuto atti di apertura al mondo della scena italiana, europea e mondiale, ma è stato frenato dalla “napoletanità”.   
Chiudiamo con questo la lezione dedicata al teatro europeo del Novecento. Arrivederci.
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