Antologia - TERZO ANNO - 20^ Lezione
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Approfondimenti letterari
POETI ITALIANI DEL NOVECENTO: UNGARETTI, MONTALE
Ventesima lezione, con Mariateresa Spina, dedicata ai due grandi poeti italiani del Novecento, Ungaretti e Montale. Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888, si è poi trasferito nel 1912 a Parigi. La sua famiglia era lucchese. Già questi tre elementi importanti segnano la sua vita, l’Egitto, la Francia, l’Italia e poi vive un’altra esperienza fondamentale nella prima guerra mondiale, poi viaggia fino al Brasile. Ha pensato che la sua opera poetica descrivesse la sua esistenza, perciò la pubblicò sotto il titolo di “Vita di un uomo”. Un’altra cosa importante è la sua adesione al fascismo, che ce lo descrive come un entusiasta della visione innovatrice del movimento fascista, ma non si è reso conto, probabilmente, dei problemi che portava questa esperienza nella nostra nazione. Dice di sé Ungaretti…
Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non di lasciare una sua bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti formali, ma vorrebbe si riconoscesse una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle variazioni del suo animo, e, se qualche progresso ha fatto come artista, vorrebbe che indicasse anche qualche perfezione raggiunta come uomo. Egli si è maturato uomo in mezzo ad avvenimenti straordinari ai quali non è stato mai estraneo. Senza mai negare le necessità universali della poesia, ha sempre pensato che, per lasciarsi immaginare, l’universale deve, attraverso un attivo sentimento storico, accordarsi con la voce singolare del poeta.
Questo è quanto ci dice nella prefazione ad “Allegria di naufragi”, la prima raccolta, che poi finirà sotto il titolo di “Allegria”, contrapposta all’altra “Il dolore”, dedicata al figlio. Ancora una testimonianza dello stesso Ungaretti, su un quotidiano del 1935…
Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra, e non mancavano circostanze a farmi premura, erano tutte tese a ritrovare un ordine, un ordine anche, essendo il mio mestiere quello della poesia, nel campo dove per vocazione mi trovo più direttamente compromesso. In quegli anni, non c’era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una poesia in versi.
Il poeta esprime la sua pena per la recente esperienza della prima guerra mondiale, che, vedremo tra poco, quando cominceremo ad ascoltare Mariateresa, è anche il teatro della sua produzione. L’ultima cosa che vi voglio dire ancora di lui è quanto ci riferisce sulla missione della poesia, diversi anni dopo, in un’intervista alla radio del 1951…
La poesia riafferma sempre, è la sua missione, l’integrità, l’autonomia, la dignità della persona umana.
E la dignità dell’uomo è interessata dai suoi interventi sulla gravissima esperienza che fa sul Carso come combattente, cominciando da “Pellegrinaggio”. Leggi Mariateresa…
Valloncello dell’Albero Isolato, il 16 agosto 1916
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un'illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là mette un mare nella nebbia
Ungaretti le leggeva diversamente. Noi dobbiamo farlo alla nostra maniera, ma lui trascinava le parole. Per esempio avrebbe letto così “Italia”…
Locvizza l’1 ottobre 1916
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre
Anche a non usare la sua intonazione, quella voce troppo roca, però almeno dobbiamo riprodurre di lui la separazione delle parole, che devono essere pronunciate lentamente. Perché voleva isolarle. Infatti quello che ci colpisce dei suoi testi è l’isolare anche una parola su un verso. Rivoluziona la metrica. Leggi quest’altra, “Nostalgia”…
Locvizza il 28 settembre 1916
Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa
Su Parigi s'addensa
un oscuro colore
di pianto
In un canto
di ponte
contemplo
l'illimitato silenzio
di una ragazza
tenue
Le nostre
malattie
si fondono
E come portati via
si rimane.
Alcuni versi di Ungaretti sono straordinari, e questo è uno di quelli: “E come portati via si rimane”. Cioè si rimane come strappati da se stessi. Qui, sempre sul fronte, sta ricordando un’esperienza parigina del 1912, un amore per una ragazza, condiviso, tra l’altro con un amico. Isolata su un verso c’è addirittura la parola “quando”, un avverbio. Polverizzazione di quello che chiamerà “verso franto”. Vediamo “Vanità”. Leggi …
Vallone il 19 agosto 1917
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità
E l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra.
Cullata e
piano
franta
Un’ombra, cullata e piano franta. Rottami di versi come rottami di uomini che sono vittime di una guerra. Ungaretti non fa distinzione tra italiani e austriaci, protagonisti della stessa tragedia. Vi leggo ora “Commiato”…
Locvizza Il 2 ottobre 1916
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso
Un distico importante: “scavata è nella mia vita come un abisso”. La poesia è la ricerca della parola, e questa ha una profondità tale che è come una breccia scavata dentro una pietra. Sono frequenti i riferimenti alla pietra, perché questa roccia sulla quale hanno combattuto è anche la durezza della vita che stanno vivendo. Prendiamo ora “I fiumi”…
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest'albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
in un'urna d'acqua
e come una reliquia
ho riposato
L'Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Ho tirato su
le mie quattr'ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull'acqua
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
Questo è l'Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell'universo
Il mio supplizio
e quando
non mi credo
in armonia
Ma quelle occulte
mani
che m'intridono
mi regalano
la rara
felicità
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
Questi sono
i miei fiumi
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil'anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d'inconsapevolezza
nelle estese pianure
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
contati nell'Isonzo
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch'è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
La fede di Ungaretti è una parte centrale di questo componimento, quando dice delle mani che lo sostengono. Quattro momenti della sua vita sono riassunti in questi fiumi: l’Isonzo, sul quale sta combattendo al fronte; il Serchio, della Lucchesia dei suoi genitori; il Nilo, che lo ha visto “ardere di inconsapevolezza”, in cui è vissuto quando adolescente non era ancora maturo; la Senna, in cui si è rimescolato, quando nell’esperienza parigina ha raggiunto la consapevolezza; che si ritrovano come acque portate nello stesso mare. In scabre parole si rappresenta come una reliquia, un relitto abbandonato nelle doline carsiche sulle quali si combatte. E chiude con la straordinaria immagine che la vita, in questa scena di distruzione, gli appare una “corolla di tenebre”. E’ riuscito a ritrarre una corolla nera, un fiore nero, dove i petali sono dell’oscurità della morte e della tenebra.
Abbiamo poi, dal “Dolore”, raccolta di versi per la morte del fratello e del figlio, “Giorno per giorno”, che leggerai tu, Mariateresa…
GIORNO PER GIORNO
"Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…"
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo...
Ora potrò baciare solo in sogno
le fiduciose mani...
E discorro, lavoro,
sono appena mutato, temo, fumo...
Come si può ch’io regga a tanta notte?...
Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato...
Mai, non saprete mai come m’illumina
l’ombra che mi si pone a lato, timida,
quando non spero più...
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze,
sollevava dai crucci un uomo stanco?...
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola...
Ogni altra voce è un’eco che si spegne
ora che una mi chiama
dalle vette immortali...
In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
quando anch’essi vorrà chiudere Iddio...
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!...
Anche questo è un verso famoso. E’ uno schianto continuo il dolore per la perdita del figlio, morto prima di avere dieci anni. Una tragedia per il poeta. Di Ungaretti, Pier Vincenzo Mengaldo, in “Poeti italiani del novecento”, ci dice che…
…la metrica dell’Allegria…disgrega il verso tradizionale in versicoli, frantumando il discorso in una serie di monadi verbali sillabate quasi come attonite interiezioni liriche.
Passiamo all’altro grande protagonista della cosiddetta poesia ermetica, Eugenio Montale, anche se l’ermetismo non è una formula che li riassume o li identifica pienamente. Montale è nato nel 1896 ed è morto nel 1981. E’ ligure, di una regione che attraversa tutta la sua esperienza. Le più grandi raccolte sono “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, di cui vedremo qualche componimento, poi verrà “La bufera e altro”, ispirata alla seconda guerra mondiale, appunto la “bufera” di cui si parla. Mentre quelle di Ungaretti erano origini contadine, quella di Montale è una famiglia di commercianti, benestanti. L’anno fondamentale per la sua formazione è stato il 1925, in cui ha firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti, contro il regime, con Croce e Gobetti, e ha fatto la prima dichiarazione di poetica, difendendo della letteratura il ruolo della chiarezza, del rigore; e in questi tempi poi ha scoperto e rivelato l’importanza di Svevo, con il suo romanzo “Senilità”, mentre Joyce recuperava dello stesso autore “La coscienza di Zeno”. Ricordo la sua militanza politica antifascista.
Rifiuta l’immagine della poesia come missione, che invece era prerogativa di Ungaretti, afferma di essere vissuto sempre in una forte disarmonia con la realtà, che descrive come “un inadattamento, un “maladjustement” psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche”. Però questo non è soltanto dovuto alla sua natura introspettiva, ma anche ai tempi in cui è stato costretto a vivere, cosa che poi descriverà in alcune sue poesie.
La cosa più importante da ricordare della sua poetica è il “correlativo oggettivo”, già immaginato da Eliot: diversamente da Ungaretti, che crea immagini indefinite, Montale ama ripercorrere la sua tragedia esistenziale attraverso degli oggetti, che diventano i simboli di alcune situazioni psicologiche. Prendiamo questo famoso componimento. Leggi Mariateresa…
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Vedete glii oggetti in cui esemplifica il fatto che ha conosciuto solo il male di vivere e che non c’è consistenza nella nostra esperienza. Ha visto soltanto la “divina Indifferenza”. L’accento è su “Indifferenza”, che infatti ha la lettera iniziale maiuscola, e non su “divina”. Sono immagini di stenti: l’accartocciarsi della foglia, lo strozzarsi della corrente del ruscello, lo stramazzare al suolo del cavallo. Anche quello che sembra essere fuori da questo destino di dolore, il “falco alto elevato”, è comunque un falco, che non è associato a un’idea di serenità. Leggi ora quest’altra…
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Soffermandoci solo un momento su questa “aria di vetro”, che è una bellissima espressione per dire questa trasparenza dura dell’aria, il concetto fondamentale è questo: un mattino forse mi volgerò all’improvviso e vedrò dietro di me il nulla. Vuole dire che, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla nostra esistenza, ne cogliamo la inconsistenza. Poi aggiunge: chissà se altri uomini riescono ad avere la stessa sensazione. E risponde che no, perché si sente circondato da gente che non si volta indietro. Quindi è caratterizzata la sensibilità del poeta, che vede l’inconsistenza della vita individuale, ma anche politica, in mezzo a gente che non avverte la straordinaria inadeguatezza del reale alle nostre esigenze. E’ scritto prima del 1923, quando già coglie l’impreparazione dell’ambiente politico italiano che porterà all’affermarsi del fascismo. In proposito ne leggo io un’altra…
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Il poeta dice al lettore di non chiedergli la parola rivelatrice; non ha questa possibilità lui che trascura l’uomo che se ne sta sicuro e non si preoccupa dell’ombra sua stampata sul muro. Si riferisce, come prima, agli uomini che non si voltano, che non si vedono vivere e non si rendono conto di quello che fanno. E poi, rivolgendosi ancora al lettore, aggiunge: non chiederci una formula che possa aprirti i mondi, non siamo dei profeti, non diamo il segreto della felicità. Non si sente un vate. Ma il poeta può dire ciò che non siamo e che non vogliamo. E’ sottinteso probabilmente che non siamo liberi e non vogliamo la dittatura del fascismo. Così, velatamente, Montale si esprime contro il regime.
Ora vi presentiamo una poesia delle “Occasioni”, “Non recidere, forbice, quel volto”. Leggi Mariateresa…
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Prima di leggervi un passo dei “Limoni”, vi voglio ricordare cosa disse Montale quando fu premiato con il Nobel nel 1975, all’Accademia di Svezia…
In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile.
Vedete la semplicità con cui raccoglie questo premio. Ma dice ancora più avanti…
In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?
Sembrerebbe il caso di concludere che non c’è spazio per la poesia. Eppure, dice poi…
Se s'intende per poesia la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura.
Se si intende quella imbellettata ce ne sarà spazio, ma per quale poesia? Per quella che non è tale, quella veramente fatta di ornamento, inconsistente. Se invece…
Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c'è morte possibile per la poesia.
Nel momento stesso in cui diciamo che c’è spazio per la poesia deteriore, è proprio per questo, perché c’è una società che dà questo spazio, che è possibile ancora la poesia, quella vera, con la “p” maiuscola, che non può morire laddove c’è da cantare l’nconsistenza della realtà e l’inadeguatezza dell’uomo.
Da “Ossi di seppia”, leggo ora la conclusione dei “Limoni”. Il titolo della raccolta si spiega con quello che resta delle seppie abbandonate sul lido, che rappresenta bene ciò che Ungaretti diceva “reliquia”, quello che sente di essere l’uomo: qualcosa di abbandonato dal mare che vorrebbe ritornare al mare, che per Montale è libertà…
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
All’improvviso la vita prende un altro senso quando vediamo uscire da un portone che abbiamo appena costeggiato nella nostra passeggiata il giallo dei limoni, come appunto notare all’improvviso qualcosa di consolante (la ginestra per Leopardi) nella natura stessa. Il limone rappresenta la poesia, lo spirito, la speranza.
Ora da “La bufera e altro” Mariateresa leggerà “Piccolo testamento”…
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
In un mondo minacciato da divisioni e possibili nuovi conflitti, il poeta lascia la sua eredità morale a una donna. Con questo chiudiamo la lezione sui grandi poeti italiani del Novecento, Ungaretti e Montale. Arrivederci.
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I grandi della letteratura italiana: Giuseppe UngarettiI grandi della letteratura italiana: Eugenio Montale