Antologia - TERZO ANNO - 16^ Lezione
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JOYCE: ULYSSES – SVEVO: UNA VITA, SENILITA’
Sedicesima lezione, con Barbara. Avevamo fatto solo un accenno a Joyce. Ricordiamo, prima di leggere un passo di ”Ulysses”, la tecnica narrativa del “flusso di coscienza”, cioè la riproduzione del pensiero così come si manifesta nella nostra mente, con il suo caos, i suoi rimandi, i suoi richiami analogici. Ascoltando Barbara nella lettura del monologo di Molly Bloom, rendetevi conto di cosa sia questa tecnica narrativa. Si tratta di un momento di vita della mente della moglie di Leopold Bloom, in una sparata interiore di gelosia nei confronti del marito…
JOYCE, ULYSSES, Parte III, Capitolo III
Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il grazioso per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d’esser nelle sue grazie e lei non ci lasciò un duino tutto in messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci un po’ prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e i decolté nessuno aveva voluto vederglieli addosso si capisce io dico che era pia perché nessun uomo s’è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei miracolo che non voleva ci si coprisse la faccia ma era una donna colta certo e [quella buggerata] quelle buggerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è stato felice di levarsela di torno eil suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d'infilarmisi tra le sottane specialmente quando eppure questo mi piace in lui così gentile con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è orgoglioso di nulla proprio ma non sempre se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vadano all'ospedale dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito un'infermiera tra i piedi e lui ci metterebbe le radici finche non lo buttan fuori o una monaca forse come quella di quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono io sì perché sono così deboli e piagnucolosi quando son malati ci vuole una donna per farli guarire se gli sanguina il naso c'è da credere che sia un dramma in piena regola e quell'aria da moribondo scendendo dalla circolare sud quando s'era slogata una caviglia alla festa della corale di Monte pan di zucchero il giorno che avevo quel vestito Miss Stack gli portò i fiori i peggio che aveva trovato appassiti in fondo al paniere cosa non avrebbe fatto per entrare in camera di un uomo con quella voce da zitella cercava di immaginarsi che stesse morendo per amor suo…
La possiamo anche abbandonare. Nel caos dei pensieri di Molly Bloom troviamo appena un lume che ci indirizza, la gelosia nei confronti del marito e le sue pulsioni erotiche, qualcosa di insoddisfatto nella sua sfera sessuale. Insomma è Freud che si ritrova in Joyce, che ha utilizzato moltissimo la psicanalisi in questo romanzo degli anni venti, quasi contemporaneo alla “Coscienza di Zeno” di Svevo, che vi mostreremo fra poco.
Freudianamente appunto, Leopold Bloom-Ulisse è alla ricerca del figlio, di una persona in cui vede un figlio, Stephen Dedalus-Telemaco; così come Stephen Dedalus, a cui manca il padre, è alla ricerca di un padre che può vedere in Leopold Bloom. Nell’Odissea sappiamo che tutto si svolge come ritorno (nostos) del padre al figlio e del figlio al padre. Ma questa è una vicenda che nel Novecento è freudiana, psicanalitica, con l’idea che ogni padre cerca il figlio e ogni figlio cerca il padre in quello che fa. Ricordiamo che Freud poi arriva addirittura al complesso di Edipo e a tutte quelle cose sulle quali spesso si riflette, nei rapporti genitori-figli.
Molto ha usato Freud anche Italo Svevo, soprattutto nel terzo dei suoi romanzi, “La coscienza di Zeno”. Di Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, ricostruiamo la vita e l’opera. Intanto è uno dei due autori che Carlo Salinari, in “Miti e coscienza del decadentismo”, indica come rappresentativi del momento della coscienza del decadentismo in Italia. L’altro è Pirandello. Aggiungiamo che questi due sono i grandi autori veramente europei, di respiro internazionale, in questa fase della nostra letteratura, che Ettore Schmitz è così anche per la sua nascita a Trieste, che era una città mitteleuropea, quindi completamente inserita nel centro Europa, che andava da Venezia, che abbiamo visto prima con Mann, fino a Vienna e alla Praga di Kafka.
Dobbiamo ricordare soprattutto che questo Ettore Schmitz scrive due romanzi, nel 1892 e nel 1898, dopo “Mastro-don Gesualdo”, che sono “Una vita” e “Senilità”, molto innovativi, assolutamente ignorati dai lettori e dalla critica. Mentre impazza già D’Annunzio, con “Il piacere” e i successivi del superuomo, Svevo non vende una copia dei suoi libri e passa assolutamente nel silenzio. Ma non se ne adonta molto, perché dice, tra le altre cose, di scrivere per curarsi: per lui scrivere è un oggettivarsi per fare terapia su se stesso, ha bisogno di questo per conoscersi, capirsi e superare i suoi problemi. Sono cose che abbiamo già presentato, da Bergson a Freud agli autori trattati nella lezione precedente: vivere il passato per capire il presente.
Tra l’altro Svevo afferma di essere un dilettante e si vanta di esserlo, di non essere un professionista come D’Annunzio, che vive dei proventi dei suoi romanzi. Lui ha già un altro lavoro e scrive la sera per superare l’alienazione che in lui crea il lavoro, che è il suo particolare rapporto con la società. Si sente meno alienato se si scatena, si libera attraverso la fantasia nei suoi romanzi, che sono autobiografici.
Il primo, “Una vita”, ci presenta Alfonso Nitti, un disadattato, il primo degli inetti, uomini incapaci di vivere pienamente, di agire, strani, contorti e limitati, che Svevo ama descrivere perché ha questa sincerità di sentir vivere in loro il suo stesso limite. Sono uomini che vivono autoingannandosi e cercano alibi per giustificare i loro errori. Infatti questo protagonista, Alfonso Nitti, si invaghisce o comunque entra nella rete della figlia del suo dirigente di banca e intravede forse istintivamente nel rapporto con questa ragazza la possibilità di fare carriera, però vuole negare a se stesso di avere fatto questo calcolo. E per dimostrare di non averlo fatto addirittura arriva a rifiutare questo rapporto. Però il suo tentativo non viene capito come lui vorrebbe, si pensa semplicemente che abbia voluto trascurare la ragazza, non che abbia fatto il gesto nobile di non frequentare la figlia del suo capo. Tra parentesi in questo viene discusso il tema dell’arrivismo e dei rapporti fra impiegati nello stesso luogo di lavoro, che già si segnalava alla fine del secolo. Alfonso addirittura diventa geloso quando la donna, che si chiama Annetta (iniziano per “a” i nomi di tutte le protagoniste dei romanzi di Svevo), frequenta un cugino; prima aveva sottovalutato l’importanza di questa donna, finché non l’ha vista interessarsi a un’altra persona. Infine arriva ad uccidersi, pensando che il suo gesto sia notato e compreso, e invece passa nell’assoluto silenzio. Già il titolo indica l’andare controcorrente di Svevo. Non è un titolo come “Il piacere”, che sollecita subito l’attenzione. Invece “Una vita”, una vita qualsiasi. Questa è appunto la sua modernità.
L’altro grande romanzo è “Senilità”, del 1898, che piacque molto ad Eugenio Montale, dopo anni di silenzio della critica. Protagonista è Emilio Brentani, anche lui impiegato, che, essendo amico di Stefano Balli, uno scultore piacione, che conquista facilmente le donne, vuole mettersi al suo livello e quando incontra Angiolina ne fa la sua donna, contento di poter sfoggiare finalmente un’amante. E le fa anche un discorso molto chiaro all’inizio della relazione, invitandola a non affezionarsi troppo, per non rimanere delusa. Senonché, nel corso della storia, sarà così preso da questo rapporto che diverrà geloso, anche perché Angiolina frequenterà molti uomini, e fra questi anche lo scultore. Sulla relazione con Angiolina leggiamo questa pagina. Comincio io…
ITALO SVEVO, SENILITA’, Capitolo VI
S'appoggiò ad un paracarro e quanto più attendeva, tanto più forte si faceva la sua speranza di vederla quella stessa notte. Per essere pronto pensò anche le parole che le avrebbe dirette. Dolci. Perché no? - Addio Angiolina. Io volevo salvarti e tu mi hai deriso. - Deriso da lei, deriso dal Balli! Una rabbia impotente gli gonfiò il petto. Finalmente egli si destava e tutta la rabbia e la commozione non lo addoloravano tanto come l'indifferenza di poco prima, una prigionia del proprio essere impostagli dal Balli. Dolci parole ad Angiolina? Ma no! Poche e durissime e fredde. - Io sapevo già ch'eri fatta così. Non mi sorprese affatto. Domandalo al Balli. Addio.
Cioè si fa tutto il film. Immagina che cosa dovrà dire ad Angiolina e non l’ha proprio incontrata ancora. Infatti questi protagonisti di Svevo, gli inetti, sono persone che immaginano di agire, ma non lo fanno. Prosegui tu, Barbara…
Camminò per calmarsi perché al pensare quelle fredde parole s'era sentito bruciare. Non offendevano abbastanza! Con quelle parole non offendeva che se stesso; si sentiva venire le vertigini. - Così si uccide - pensò - non si parla. - Una grande paura di se stesso lo calmò. Sarebbe stato ugualmente ridicolo anche uccidendola, si disse, come se egli avesse avuto un'idea da assassino. Non la aveva avuta; ma, rassicuratosi, si divertì a figurarsi vendicato con la morte di Angiolina. Quella sarebbe stata la vendetta che avrebbe fatto obliare tutto il male di cui ella era stata l'origine. Dopo, egli avrebbe potuto rimpiangerla, e lo pervase una commozione che gli cacciò le lagrime agli occhi.
Immagina anche di commuoversi, e si commuove, prima ha detto di aver paura di se stesso, come se si vedesse già uccidere la donna…
Pensò che con Angiolina egli avrebbe dovuto seguire lo stesso sistema adottato col Balli. Quei due suoi nemici dovevano essere trattati nello stesso modo. A lei egli avrebbe detto che non l'abbandonava causa il tradimento ch'egli s'era atteso, ma per il sozzo individuo ch'ella aveva scelto a suo rivale.
Come Orlando non sopporta che Angelica si sia fidanzata con un semplice fante, invece che con un conte come lui, Emilio ha scoperto con rabbia che Angiolina se ne è andata con un ombrellaio!
Egli non voleva più baciare dove aveva baciato l'ombrellaio. Finché s'era trattato del Balli, del Leardi e magari del Sorniani, aveva chiuso un occhio, ma l'ombrellaio! Nell'oscurità studiò la smorfia di schifo con cui avrebbe detta questa parola.
Più avanti, nel romanzo, si va verso una conclusione amara, ma sardonica, beffarda, ironica, anche divertente, anche se in maniera crudele. La sorella di Emilio, Amalia…
BARBARA: E’ innamorata del Balli.
Brava! L’hai letto? Si innamora del Balli perché frequenta casa di Emilio e lei fraintende questa presenza assidua interpretandola come attenzione nei suoi confronti. Ma Amalia è una donna grigia, spenta, che non può reggere il confronto con le grandi amanti dello scultore. E quando capisce che non c’è quello che pensava, si ammala, si deprime, fino a morire. Qui ha origine il senso di colpa di Emilio (altra categoria freudiana che viene ripresa da Svevo), perché, all’inseguimento delle sue inquietudini, delle sue illusioni di playboy con Angiolina, ha trascurato la sorella e non si è reso conto di quello che stava accadendo a casa sua. Avendo rimorso per la morte di Amalia, soffre, ma nel frattempo gli è scappata Angiolina. Leggi, Barbara…
SENILITA’, Capitolo XIV
Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui é stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.
Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolantemente inerte, ed ebbe l’occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore é ammirazione e desiderio. Ella rappresentava tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo avesse pensato od osservato.
Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l’orizzonte, l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L’immagine concretava il sogno ch’egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso.
Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell’universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque.
La conclusione quindi è un’identificazione delle due donne, che risolve i suoi problemi, perché Angiolina, vista come Amalia, non è colei che lo ha abbandonato, Amalia era attaccata al fratello, e Amalia, in quanto Angiolina, non è morta, ha la vitalità di Angiolina e non rappresenta più per lui un senso di colpa. Non si sente più tradito e non si sente più in colpa, identificando le due donne. E’ l’estremo autoinganno che opera questo secondo grande inetto di Svevo.
L’inettitudine viene qualificata anche come oblomovismo, perché Oblomov, il protagonista del romanzo omonimo di Goncarov, un narratore russo, del 1859, era un inetto, che comunque poi ha una sua rivalsa. Ricostruiamo la vicenda sulle immagini del film omonimo del regista Nikita Mikhalkov. Oblomov si trova all’interno di un triangolo, con la donna di cui è innamorato, Olga, attratta invece dal più bello e più capace Stolz. Quest’ultimo, vitale, dinamico, addirittura aggressivo, vuole scuoterlo dal suo torpore, dal suo dormire tutto il giorno, lo sveglia all’improvviso, lo porta di qua e di là, cerca di recuperarlo. E quando la donna ovviamente cade nella rete di Stolz, Oblomov subisce, accetta, osserva impotente. Ma nel corso del romanzo si verifica un fatto straordinario, che Oblomov, pur nella sua inettitudine, rivela tali qualità di sensibilità, di profondità, anche poesia della vita, che Olga finisce per staccarsi da Stolz e innamorarsi di lui.
Senza andare a raccontare quello che accade dopo, che sarebbe molto interessante e recupererebbe il rapporto di Stolz con il padre, difficile tipo quello kafkiano, ricordando soltanto questo processo della inettitudine, sottolineiamo che è una caratteristica di tutto il secondo Ottocento fino al primo Novecento la creazione del personaggio che figura come incapace però ha qualità che non hanno quelli efficaci. E’ l’antidannunzianesimo, che si sta svelando come reazione a quella superficiale esaltazione dell’azione nel superuomo. L’inetto diventa l’eroe dei tempi moderni, che si oppone all’eroe finto, falso di D’Annunzio. Si ritrova anche nel “Demetrio Pianelli” di Emilio de Marchi, per poi arrivare ai nostri giorni, con il “Fantozzi” di Paolo Villaggio, che è una straordinaria riflessione sul protagonismo di questi soggetti in una società che divora. Ma continueremo questa nostra analisi nella prossima lezione. Arrivederci.
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