Antologia - TERZO ANNO - 13^ Lezione
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CREPUSCOLARI, FUTURISTI, AVANGUARDIE
Tredicesima lezione, con Diego. Parleremo di crepuscolari e futuristi, due fenomeni letterari del primo Novecento. Per introdurli vi richiamo al già più volte citato “Miti e coscienza del decadentismo” di Carlo Salinari. Quando l’autore del saggio definisce miti del decadentismo il “fanciullino” di Pascoli, il “superuomo” di D’annunzio, e il “santo” di Fogazzaro, dice anche, come ricorderete, che a Pascoli si può associare la figura di Giolitti e a D’Annunzio quella di Crispi. Ma aggiunge che a Pascoli sono associabili i crepuscolari e a D’Annunzio i futuristi.
Partiamo dal gruppo dei crepuscolari. Anche questi, come Pascoli, evadono dalla realtà, regredendo, in questo caso nel mondo della sana provincia, delle “buone cose di pessimo gusto” di cui parla Gozzano, nell’atmosfera tranquilla, non critica, non rischiosa, del piccolo paese, perché temono il movimento e i pericoli della vita urbana. Tra l’altro questa posizione crepuscolare anticipa lo “Strapaese”, cioè quel fenomeno che, con il riferirsi a una realtà tradizionale che non dà problemi, si opporrà negli anni successivi all’altra tendenza della narrativa che prenderà il nome di “Stracittà”.
Entreremo subito in questo ambito leggendovi due testi dei crepuscolari, che prendono il nome dal definirsi e sentirsi al crepuscolo di una società che non condividono appunto nei suoi aspetti esasperati. Leggeremo prima un componimento di uno che è morto ancora molto giovane, a ventun anni, Corazzini…
CORAZZINI, DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Fanciullo che ama la morte, rifiuto della realtà, tutti temi pascoliani, come vedete. Vediamo ora Gozzano, che è vissuto un po’ di più, morto anche lui di tisi, nel suo famoso “La signorina Felicita”…
GOZZANO, LA SIGNORINA FELICITA
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto squadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.
Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…
Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m’avevano in dispregio…
M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…
Vedete qui la contrapposizione tra il mondo pubblico formato da gente insensibile e quello privato del poeta, che si rifugia in cucina perché sente di essere disprezzato dal notaio, dal medico, tutti i protagonisti della vita più riconosciuta nella società…
Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciotolio.
Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino…
Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.
E’ un quadro di vita semplice. All’interno della stessa piccola comunità ci si ritaglia una realtà ancora più limitata, la stanza, la cucina, per evitare di essere coinvolti in una dimensione più grave e più ampia. L’atteggiamento dei crepuscolari, per i quali può bastare questo cenno (non sono stati dei grandi protagonisti della nostra letteratura), è l’opposto di quello che assumeranno in quegli stessi anni i futuristi.
Tutto comincia con un manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, anzi con una serie di manifesti, di cui riportiamo uno, del 1909. C’è l’atteggiamento di aggressione nei confronti della realtà, simile a quella superomistica dannunziana. Anche qui si evade dalla norma per porsene troppo al di sopra per potere avere un rapporto positivo e quindi maturo con la dimensione naturale. Infatti le posizioni dei futuristi saranno spropositate, anche se comunque hanno rinnovato in maniera eccezionale la nostra letteratura, ma più ancora la nostra arte figurativa.
Vediamo cosa ci dice Marinetti in questo “Manifesto del futurismo” pubblicato a Parigi, città frequentata dai più grandi artisti europei e americani. Anzi sta girando nelle sale un simpatico film di Woody Allen, “Midnight in Paris”, che appunto vede ricomparire questi personaggi nella Parigi degli anni venti. Qualche anno prima, dunque, nel 1909, Marinetti dice…
MARINETTI, MANIFESTO DEL FUTURISMO, PARIGI, 1909
1-Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà
2-Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia
3-La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
4-Noi affermiamo chela magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile in corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia è più bella della vittoria di Samotracia.
5-Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene l volante, la cui asta ideale attraversa la terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita .
6-Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
I miti dell’automobile, nuovo ideale di bellezza, e della velocità. Di fronte a un tempo così lento, come quello dei crepuscolari, loro reagiscono con il dinamismo della società industriale. E il loro riferimento non è più la Nike di Samotracia, ma quest’opera moderna…
7-Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8-Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!...Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9-Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
La guerra come “igiene del mondo” o, dirà qualcuno nello tesso periodo, come “caldo bagno di sangue”. La guerra come momento in cui si dimostra chi è uomo e chi non lo è, la grande prova, in questa immatura visione della guerra, la prova di forza, la violenza che hanno qui esaltato. E poi questo riferimento alla donna, che non merita commento…
10-Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.
11-Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.
Dopo aver parlato della distruzione delle biblioteche, di tutto quello che sa di antico, esalta la società moderna, industriale e di massa. Le masse hanno però lo stesso valore che hanno per i protagonisti di D’Annunzio, sono magma da sfruttare, da rielaborare…
E’ dall’Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. E vengano dunque gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate. Eccoli, eccoli! Suvvia, date fuoco agli scaffali delle biblioteche, sviate il corso dei canali per inondare i musei! Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e estinte su quelle acque le vecchie tele gloriose! Impugnate le scuri, i picconi e i martelli e demolite senza pietà le città venerate.
Un altro manifesto di Marinetti si occupa della forma nella nuova opera d’arte. Possiamo in proposito analizzare un paio di pagine di “Zang Tumb Tumb”, un poemetto scritto in occasione della guerra balcanica del 1912, alla quale partecipò, che ci dà un’idea di come i futuristi utilizzassero i caratteri tipografici, il corsivo, il normale, il grassetto, il piccolo, il grande, la variazione, la collocazione della parola sulla pagina…
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