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D’ANNUNZIO: La “tregua”




Antologia - TERZO ANNO - 12^ Lezione
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https://youtu.be/sUEYI9G4TX0
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D’ANNUNZIO, LA TREGUA:
CONSOLAZIONE, LA SERA FIESOLANA, NOTTURNO
 
Dodicesima lezione, con Diego. Concludiamo il nostro ragionamento su D’Annunzio. L’ultima volta abbiamo fatto un excursus sulla vita e abbiamo presentato i romanzi. In questa lezione chiuderemo presentando la parte più poetica della sua opera. Riprendiamo intanto dal superuomo, dagli atteggiamenti che lo hanno portato ad essere un protagonista di un’epoca, e anche un punto di riferimento, in cui si è riconosciuta una generazione intera. Tanto che con il suo ascendente sulle masse riuscì, nel movimento del “radioso maggio” del 1915, a dirigere l’opinione pubblica, purtroppo, in quel caso, verso l’intervento in guerra. Fu una campagna organizzata in maniera capillare, con metodo e con grande slancio. D’Annunzio ne fu l’autentico protagonista e fu lui stesso a definire questo mese in cui si decise una delle cose più sbagliate della nostra vita storicopolitica, di entrare in una guerra che era già scoppiata nel 1914, “radioso maggio”. Già questo termine ci dimostra in fondo la capacità che aveva di coniare espressioni, con altre che poi saranno utilizzate anche nel periodo fascista, nella propaganda, che si ispira alle movenze del poeta, che con questa capacità di sintesi le forniva slogan, soprattutto quando il concetto riguardava l’arditismo, lo slancio vitale, la volontà di azione.
D’Annunzio è il punto di riferimento del futuro fascismo anche sotto l’aspetto dell’organizzazione della piazza. Il fascismo, sappiamo, prende le mosse da operazioni violente contro gli operai e contro i braccianti agricoli, dopo che nei primi mesi però le stesse azioni erano dirette contro gli imprenditori. Affronteremo bene in seguito il tema di questo spostamento del movimento da difensore a persecutore delle forze lavoro. Comunque, quando sfociò nell’organizzazione della marcia su Roma, si può dire che aveva avuto la sua prova generale nel “radioso maggio”. Ecco perché D’Annunzio è importante dal punto di vista del ritratto di un’epoca.
Ricordato questo, credo che abbiamo completato la collocazione storica dell’autore e possiamo passare ad un altro aspetto psicologico della sua personalità, per cui sentiva ogni tanto il bisogno di fare “tregua”, di allentare questa tensione superomistica. Questi momenti  li individuiamo in “Poema paradisiaco”, in “Alcyone”, una delle cinque “Laudi”, e in “Notturno”.
Cominciamo da “Poema paradisiaco” e in particolare, riferendoci a questa tregua, individuiamo in “Consolazione” la decisione del poeta di ritirarsi nella sua Pescara vicino alla madre, a cui dice questo…
 
CONSOLAZIONE
    Non pianger più. Torna il diletto figlio
 a la tua casa. È stanco di mentire.
 Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
 Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
     Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
 serba ancóra per noi qualche sentiero.
 Ti dirò come sia dolce il mistero
 che vela certe cose del passato.
     Ancóra qualche rose è ne' rosai,
 ancóra qualche timida erba odora.
 Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
 sorriderà, se tu sorriderai.
     Ti dirò come sia dolce il sorriso
 di certe cose che l'oblìo afflisse.
 Che proveresti tu se fiorisse
 la terra sotto i piedi, all'improvviso?
     Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
 Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
 sol di settembre; e ancor non vedo argento
 su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
     Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
 La madre fa quel che il buon figlio vuole.
 Bisogna che tu prenda un po' di sole,
 un po' di sole su quel viso bianco.
     Bisogna che tu sia forte; bisogna
 che tu non pensi a le cattive cose...
 Se noi andiamo verso quelle rose,
 io parlo piano, l'anima tua sogna.
     Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
 tutto sarà come al tempo lontano.
 Io metterò ne la tua pura mano
 tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
     Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
 In una vita semplice e profonda
 io rivivrò. La lieve ostia che monda
 io la riceverò da le tue dita.
     Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
 Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?
 Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.
     Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
 ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
 non so, quasi l'odore ed il pallore
 di qualche primavera dissepolta.
     Sogniamo,  poi ch'è tempo di sognare.
 Sorridiamo. È la nostra primavera,
 questa. A casa, più tardi, verso sera,
 vo' riaprire il cembalo e sonare.
     Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
 allora, qualche corda; qualche corda
 ancora manca. E l'ebano ricorda
 le lunghe dita ceree de l'ava.
     Mentre che fra le tende scolorate
 vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
 debole di viole un po' passate,
     sonerò qualche vecchia aria di danza,
 assai vecchia, assai nobile, anche un poco
 triste; e il suono sarà velato, fioco,
 quasi venisse da quell'altra stanza.
     Poi per te sola io vo' comporre un canto
 che ti raccolga come in una cuna,
 sopra un antico metro, ma con una
 grazia che sia vaga e negletta alquanto.
     Tutto sarà come al tempo lontano.
 L'anima sarà semplice com'era;
 e a te verrà, quando vorrai, leggera
 come vien l'acqua al cavo de la mano.

 
Questo per notare la grandezza poetica di D’Annunzio e quanto fosse credibile quando aveva questi toni più pacificati con se stesso. E tra l’altro ritroveremo nella “Sera fiesolana”, che tra poco leggerà Diego, alcuni incipit di “Consolazione”: gli attacchi che si esprimono in un “io ti dirò”, attraverso i quali appare come se sua madre potesse ascoltare un oracolo da parte sua, si ripetono rivolgendosi alla donna amata. Siamo nella terza delle “Laudi”, che nell’ordine sono Maya, Elettra, Alcyone appunto, Merope e Asterope. Quattro si riferivano alle grandi imprese per terra, per cielo, per mare e degli eroi, questa invece è una raccolta di versi collegati a momenti in cui l’autore non opera, non agisce con la violenza di altre volte. Ci spostiamo in un altro periodo della sua vita, diversi anni dopo, quando sente di nuovo il bisogno di pacificazione. E però vedremo anche in questo caso che emerge il suo estetismo e il suo porsi come il poeta vate, come colui che riesce ad esprimere tutto…
 
LA SERA FIESOLANA
 
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

 
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

 
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

 
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

 
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
 
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

  
Questi sono gli “io ti dirò” di “Consolazione”, come se la donna dovesse aspettare il suo grandissimo messaggio. Vi invito a riflettere anche su alcune immagini che riguardano e ricordano il senso panico del mondo, il senso di una natura vivente. Intanto è evidente il legame con il “Cantico della creature” di Francesco, con una lode dell’universo, però in prospettiva laica ed estetica. E poi, appunto, ci sono dei riferimenti che antropomorfizzano la natura, la rendono creatura vivente, per esempio “bere la sperata pace”, “viso di perla”, “grandi umidi occhi”, “tace l’acqua del cielo”; oppure il punto in cui si parla dei “novelli rosei diti”, che sarebbero le gemme degli alberi, come le dita di questa creatura che è la natura, che “giocano con l’aria che si perde”; oppure laddove si parla del cerchio dell’orizzonte che è come il giunco che cinge il fieno. Siamo appunto nel periodo in cui si raccoglie il fieno. E ancora più evidente questa antropomorfizzazione è laddove si parla di “labbra che un divieto chiuda”: le colline cioè appaiono, con il loro profilo all’orizzonte, come due labbra appena dischiuse, che sembrano promettere di parlare e rivelare il mistero della natura, che il poeta ritrova ed esprime. Vediamo questo senso alto della poesia e della sua funzione. E infine il riferimento generale al “Cantico delle creature”, dove si parla di dolcezza, di umiltà, di pace e di fratellanza.
Andiamo ora al terzo momento della fase della “tregua”, il “Notturno”, in cui D’Annunzio ribadisce questo suo atteggiamento, in questo caso forzato dalla disavventura di essere stato colpito a un occhio e costretto all’oscurità. In questo momento scrive su striscioline di carta, non potendo vedere (rimarrà bendato anche dopo, quando potrà ritornare alla luce), portando il segno col mignolo, che gli indicava il bordo della striscia, con la necessità di passare a un altro pezzo di carta, come ci riferisce lui stesso…
 
NOTTURNO
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.

 
Quindi il “Notturno” ha questa caratteristica, di essere fatto di brevi frammenti, brevi periodi. Fra questi brani ce n’è uno che si riferisce alla morte di un commilitone, Giuseppe Miraglia, un bel testo su ciò che succede in guerra, che ci leggerà Diego…
 
Sono le tre del pomeriggio, circa.
Arriviamo. Salto su l′imbarcatoio. Entro.
Chiedo di Giuseppe Miraglia all′ufficiale di guardia. M′è indicata una porta. Entro.
Sopra un lettuccio a ruote è disteso il cadavere.
La testa fasciata.
La bocca serrata.
L′occhio destro offeso, livido.
La mascella destra spezzata : comincia il gonfiore.
Il viso olivastro: una serenità insolita nell′espressione.
Il labbro superiore un poco sporgente, un po′ gonfio.
Batuffoli di cotone nelle narici.
L′aspetto di un principe indiano col turbante bianco.
Le mani conserte sul petto, giallastre.
I due piedi fasciati di garza bianca.
Il piede destro è rotto. Il pollice di una mano è rotto. Una gamba è rotta. Alcune costole son rotte.
Ha la giacca azzurra coi bottoni d′oro, quella di ieri.
Vogliono trascinarmi via. Mi rifiuto. Resto in ginocchio. Prego di lasciarmi solo.
Quando sono solo, mi chino sopra il morto, lo chiamo più volte. Le lacrime gli piovono sul viso. Non risponde, non si muove.
Ricado in ginocchio.
I romori del giorno.
Il pulsare dei motoscafi nel canale.
Il tonfo dei passi sul tavolato.
Un marinaio entra con un fascio di ceri: mette i quattro ceri agli angoli del lettuccio.
Entra Luigi Bologna; entra Carlo della Rocca. Non posso muovermi, non posso alzarmi.
Qualcuno mette ai piedi del cadavere un mazzo di fiori. Credo di riconoscere Silvio Montanarella, il più giovine aviatore.
Entrano due marinai, con le baionette in canna, e si mettono a capo del lettuccio, restano immobili.
Un altro marinaio attacca alla parete del fondo, contro la finestra, una grande bandiera di nave da guerra.
Una bandiera è stesa al capezzale.
Dopo un tempo che non so, un marinaio viene con un altro fascio di ceri e apre la porta nella parete di contro a me.
La porta era chiusa.
Odo uno scalpiccio. Due marinai portano su una barella il corpo di Giorgio Fracassini, ritrovato dopo due ore, tra le tele lacere e i fili attorti, nel trasportare a Sant′Andrea i rottami dell′apparecchio.
Passano la soglia, lo depongono nell′altra cameretta.
Mi alzo per andarlo a vedere. Mi chino su lui.
I ricordi della giornata di Trieste, le sue raccomandazioni per la pompa della benzina, la sua astuzia nel nascondere il ventunesimo sacchetto tricolore...
Sembra che dorma. Ha il viso composto, severo. Ha il suo vestito di pelle fosca.
Sembra un monaco che s′è beato nel transito. Quel suo viso maschio, quasi sempre lucido e grondante di sudore, con gli occhi chiari e arditi, con la fronte rada, col naso adunco, s′è pacificato e annobilito. Veramente riposa.
Rientro nella stanza attigua, e trovo il corpo del mio compagno ricoperto con la coltre nera dalla croce d′oro.
Il suo viso anche è coperto di garza.
Un marinaio è in punto di togliere la bandiera dal capezzale per sostituirvi una bandierina della Croce rossa. Glie lo impedisco. Egli la prendeva per tenderla nella parete dell′altra stanza.
Dispongo a destra e a sinistra, su la coltre nera, il rosso e il verde.
La vita magnetica del tricolore navale da battaglia.
La ralinga bianca [1], il cappio...
Per Giorgio vanno a cercare un′altra bandiera.
Entra Umberto Cagni, accompagnato da altri ufficiali. Lo intravedo, a traverso gli occhi bruciati. Si accosta, scopre il volto del morto, mormora non so che parola. Va a guardare anche il meccanico. Poi si avvicina a me che sono addossato al muro e mi sforzo di dominare l′orrore. Mi prende la mano, me la stringe, dicendo con una voce rude, soldatesca, quasi violenta: «Buongiorno ! » Se ne va.
Gli scoppii del motoscafo. La lancia che s’allontana.
Ecco Manfredi Gravina, ecco Alberto Blanc. Non mi muovo. Un marinaio mette sotto le mie ginocchia un cuscino nero, il cuscino dell′inginocchiatoio.
È venuta la notte. Sento il primo grido delle altane: «Per l′aria buona guardia!» Penso a Renata, penso ai fiori ch′ella ha messo nei nostri vasi per lui.
Mi levo. Esco sul pontile.
La luna d′oro splende nel cielo, bassa, di contro a me.
Scendo nel canotto, ripasso pel canale.
Il muro dei Giardini, la ripa con gli alberi brulli, la nera navata del pallone.
Genua mi accompagna, per prendere i pacchi che avevo preparati e per consegnarli ad Alberto Blanc che doveva portarli a Roma.
Ho con me la morte, l′odore della morte. Renata mi aspetta: sa tutto. Ci abbracciamo piangendo. Vuol venire a vederlo.
Entro nella sala da pranzo per prendere i fiori. Ci sono tre posti! Raccolgo tutti i fiori da tutti i vasi. Li porto con me in un fascio.
Rientro nella camera mortuaria.
I ceri ardono. Le fiammelle vacillano specchiate dalle lame delle baionette. I due marinai sono di guardia, immobili.
Dispongo i fiori ai lati del cadavere: sento la forma dei suoi fianchi, delle sue gambe.
Pongo le giunchiglie bianche sul rosso e sul verde della bandiera.
Scopro la povera faccia. La gota destra si gonfia e si annerisce. La bocca sembra chiusa.
La realità di tratto in tratto mi sfugge. Rifletto. Chiudo gli occhi. Me lo immagino vivo come ieri ; poi lo guardo e lo vedo inerte, esangue. È vero?
La veglia comincia.
Di contro a me è la porta dell′altra camera mortuaria dove giace Giorgio Fracassini, illuminata, con un tremolìo d′ombre.
I due marinai immobili ; il luccichio rigido delle baionette nude.
Lo sciacquìo del canale, sotto la finestra.
Il grido delle altane.
Un′aria singolare, come un masso di cristallo impenetrabile, intorno al cadavere.
Verso le dieci arriva il Comandante in capo. Entra con passo energico. Domina la commozione. S′inginocchia, prega. Si rialza. Entra nella camera dove giace Giorgio Fracassini. Mi stringe la mano in silenzio, parte.
S′ode pulsare il motore del canotto. Poi tutto ritorna in silenzio.

 
Queste sono alcune pagine del “Notturno”. Una splendida prosa quella di D’Annunzio. Voi la usate qualche volta…
DIEGO: E’ un testo che in questi anni ho incontrato, soprattutto in fase di studio, anche perché è un monologo perfetto.
Ricordo che Diego si è diplomato appunto all’Accademia “Silvio D’Amico”, in cui ha fatto gli studi di cui parlavamo, per diventare l’attore affermato di oggi.  Comunque, continuando, D’Annunzio, con tutti i suoi limiti, i suoi pregi e i suoi difetti, è stato, come abbiamo detto, il ritratto di una generazione. Ora, per concludere, due giudizi critici. Uno è quello di Carlo Salinari, che leggerai, che merita una premessa. Nella parte che non riproduciamo dice che in fondo il fenomeno D’Annunzio non lo si deve spiegare come un’impresa di un solitario, a cui attribuire la responsabilità di tutto. E’ l’espressione di un’epoca, di un clima e di una generazione, in tutti  i suoi aspetti, quelli che vi abbiamo descritti e che Salinari riprende, che è inutile ricordare nei dettagli, ma che nella sintesi sono la vocazione superomistica, il mito dell’azione e il protagonismo anche nel campo sessuale. Vediamo la conclusione del suo ragionamento…
 
E’ dunque in questo sviluppo della realtà italiana e di quella parte dello spirito pubblico che ad essa si opponeva e da essa veniva alimentata, è nell’intreccio dei sentimenti delle generazioni posteriori all’unità d’Italia, nella corruzione operatasi con le vicende della storia nostra ed europea dei grandi miti risorgimentali che possiamo ora riconoscere senza sforzo una delle componenti di quei motivi che stanno alla base del superuomo dannunziano: la potenza, la guerra, la gloria, il disprezzo per le plebi, la concezione aristocratica del mondo, l’idea di Roma e della missione dell’Italia, il culto della bellezza. Quei miti dannunziani, dunque, ormai dovrebbe esser chiaro, non hanno un’origine soltanto individuale, psicologica o addirittura sessuale, come mostrano di credere alcuni critici. Essi ci appaiono il frutto dell’elaborazione di un’esperienza storica di una generazione, o meglio, di alcuni gruppi della generazione postunitaria.
 
Quindi la volontà di potenza, il mito della bellezza, il mito della guerra, l’irrazionalità e anche l’imperialismo di quest’epoca, tutti confluiscono nel personaggio D’Annunzio, che era poi un grande assimilatore di esperienze europee. E’ quello che ha avuto questa capacità, rispetto a molti altri autori italiani chiusi nella propria provincia, di aprirsi alla cultura del continente.
Ancora un altro grandissimo critico, Giorgio Barberi Squarotti, in un giudizio un po’ più estetico, più raffinato del precedente, che era intessuto sull’elemento sociopolitico…
 
Del resto il D’Annunzio ha piena coscienza della posizione che si è scelta, di raccoglitore della più completa ed esaustiva enciclopedia del detto, che coincide per lui con il dicibile: “Quanto mi piace che la natura abbia privilegiato me per adunare, mescolare, trasmettere, sublimare in un attimo le più remote e diverse prodighe e peregrine e squisite essenze dello spirito”: che è poi la risposta alla rivelazione della volgarità del mondo borghese, retto dalla norma economica, quale il D’Annunzio espone nelle “Vergini delle rocce”, ma che già era apparsa nella premessa al “Convito” di De Bosis, cioè proprio quella rivista su cui il romanzo dannunziano sarebbe uscito a puntate. L’invito cioè a “salvare qualche cosa bella e ideale dalla torpida onda di volgarità che ricopre ormai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili”. Si noti la consonanza fra la citazione di Leonardo e il titolo del romanzo di D’Annunzio.
 
Questo ci serve a concludere il percorso con Gabriele D’Annunzio. Arrivederci.
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