Antologia - TERZO ANNO - 7^ Lezione
(Cliccare sulle parole in caratteri blu)
https://youtu.be/13JCacLnNjw
anto 3,7_Title_1_.MPG
L’ESTETISMO: HUYSMANS: A rebours-WILDE: Dorian Gray-D’ANNUNZIO: Il piacere
Settima lezione, con Diego, che sostituisce Barbara, che prima era impegnata in Spagna con Erasmus e ora..
DIEGO: …sta sostenendo l’esame propedeutico per l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Mentre il fratello di Diego, Domenico Florio, è entrato al “Piccolo” di Milano per un corso di tre anni, superando una bella selezione…
DIEGO: Una bella selezione, anche perché lì ogni tre anni formano una classe di 30 elementi, mentre le altre accademie fanno selezioni annuali.
Complimenti dunque a Domenico. Continuiamo ora il nostro percorso. Stavamo chiudendo l’esperienza del verismo, che chiude a sua volta quella del naturalismo in campo europeo. Dicemmo che nel naturalismo c’erano delle anticipazioni della sensibilità decadente. Le abbiamo trovate in Verga e le troveremo in qualche altra pagina della narrativa di questo scorcio di Ottocento. Ma ora analizziamo una fascia di più o meno un decennio, tra i primi anni ’80 e la metà degli anni ’90, in cui contemporaneamente vengono pubblicati dei lavori come “La morte di Ivàn Il’ic” di Tolstoj, , “A Rebours” di Huysmans, “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde e “Il piacere” di D’Annunzio. Questi quattro testi porremo alla vostra attenzione.
Partiamo da Tolstoj, di cui abbiamo analizzato già “Anna Karenina”, che attraversa tutto l’Ottocento, quindi praticamente tutte le sensibilità, dal romanticismo, addirittura, al naturalismo a questa forma epigona del naturalismo che è “La morte di Ivàn Il’ic”, che appartiene appunto agli anni ’80. E’ la storia di un funzionario che ha fatto anche carriera, un funzionario brillante, che a 45 anni si sente vicino alla morte per una caduta che ha causato dei danni che si rivelano irreversibili. E’ immobilizzato quasi in casa, ha bisogno di aiuto e questa esperienza si offre a lui come triste occasione per valutare l’ipocrisia, la mancanza comunque di naturalezza della gente che vive intorno a lui. Si rende conto di quanto questo mondo non sia vero, autentico. Quest’uomo che vive la sofferenza di chi sa di avvicinarsi alla morte, dovuta soprattutto al fatto che gli altri si sforzino di incoraggiarlo, quando immaginano benissimo che lui deve sapere la sua sorte, non può essere che non la conosca, trova un personaggio che conforta la sua momentanea disperazione, un semplice contadino che si chiama Geràsim. Io sarò Ivàn Il’ic, naturalmente, e tu sarai Geràsim. Leggo qualcosa e poi tu intervieni…
TOLSTOJ, LA MORTE DI IVAN IL’IC, Capitolo VII
Gli preparavano dei cibi speciali, secondo le prescrizioni dei medici; ma quei cibi diventavano sempre più insipidi per lui, e sempre più rivoltanti. Anche quando doveva defecare, usava degli aggeggi speciali, e ogni volta era una tortura. Una tortura per la sporcizia, per la vergogna, per la puzza, per il necessario intervento di un'altra persona. Ma proprio in questa spiacevole circostanza Ivàn Il'ic trovò motivo di consolazione. A svolgere quell'umile funzione veniva sempre Geràsim, il mužìk addetto alla cucina. Geràsim era un giovane contadino pulito, fresco, un po' appesantito dalle minestre cittadine. Sempre allegro, chiaro. Da principio la vista di quell'uomo tutto lindo, vestito alla russa, che compiva quella sgradevole operazione, metteva a disagio Ivàn Il'ic. Una volta, cercando di rialzarsi dalla padella, non avendo la forza di tirarsi su i pantaloni, si lasciò cadere su una poltrona morbida, guardandosi le cosce svigorite, nude, con i fasci muscolari disegnati crudamente. Entrò con i suoi stivali spessi, a passi lievi e forti, spargendo intorno a sé un gradevole odore di pece da scarpe e una dolce freschezza d'aria invernale, Geràsim: aveva un grembiule di canapa pulito e una camicia di cotone pulita, con le maniche rimboccate sulle braccia nude, giovani e forti. Senza guardare Ivàn Il'ic, e cercando di trattenere, per non offendere il malato, la gioia di vivere che gli illuminava il volto, si avvicinò alla padella.
Quanto è diverso questo frenarsi di Geràsim dalla scoperta ipocrisia degli altri. E’ più naturale anche nella sua prudenza…
IVAN: «Geràsim»
GERASIM: Che cosa comanda?»
IVAN: «Penso che questo non sia un lavoro, molto gradevole per te. Scusami. Non posso farlo io.»
GERASIM: «Prego, prego, signore. Perché non dovrei farlo? Siete malato.»
Con mani forti e abili eseguì la solita operazione e se ne andò, con passo leggero. Dopo cinque minuti, sempre con lo stesso passo leggero, ritornò. Ivàn Il'ic era sempre seduto in poltrona.
IVAN: «Geràsim, per favore, aiutami, vieni qui.» Geràsim si avvicinò. «Sollevami. Da solo non ce la faccio e Dmitrij non c'è, l'ho mandato via.»
Geràsim si avvicinò con le sue braccia forti, con la stessa leggerezza con cui camminava, lo abbracciò, lo sollevò con delicatezza e abilità, con una mano gli tirò su i pantaloni e fece per rimetterlo a sedere. Ma Ivàn Il'ic lo pregò di accompagnarlo al divano. Geràsim, senza sforzo, quasi senza stringerlo, lo condusse verso il divano come trasportandolo in braccio, e lo mise a sedere.
IVAN: «Grazie. Riesci a far tutto così bene, così... facilmente. Senti un po': portami qui vicino quella sedia, per favore. No, quella, ecco, qui, sotto i piedi. Mi sento meglio quando ho i piedi in alto.»
Geràsim portò la sedia, la posò senza far rumore, lentamente, sul pavimento e sollevò le gambe di Ivàn Il'ic, per deporle sulla sedia; a Ivàn Il'ic era parso di sentirsi meglio, mentre Geràsim gli sollevava in alto le gambe.
IVAN: «Sto meglio, quando sto con le gambe più in alto, Mettimi sotto quel cuscino. Geràsim, hai da fare adesso?»
GERASIM: «No, niente affatto, signore, »
IVAN: «Cosa devi fare ancora? »
GERASIM: «Cosa devo fare? Ma ho fatto tutto, devo soltanto spaccare la legna per domani.»
IVAN: «Allora, tienimi le gambe un po' in alto, ce la fai?»
GERASIM: «E come no? Certo, certo.»
IVAN: «E per la legna come farai?»
GERASIM: «Non si preoccupi, non si preoccupi. Faremo in tempo.»
(…)Da quel giorno Ivàn Il'ic ogni tanto faceva venire Geràsim, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po' stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui.
E poi gli racconta che quello che lo tormenta di più è la menzogna, che non vede in quest’uomo che così naturalmente si comporta con lui. Leggi più avanti, Diego…
(…)la cosa che più tormentava Ivàn Il’ic era il fatto che nessuno aveva pietà di lui, come egli avrebbe voluto che avessero: in certi momenti, dopo lunghe ore di sofferenza, anche se si sarebbe vergognato a confessarlo, aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini. Sapeva benissimo di essere un pezzo grosso della magistratura e di avere de bianco nella barba, perciò era una cosa impossibile, ma quel desiderio lo sentiva lo stesso. E nel suo rapporto con Geràsim c'era qualcosa che si avvicinava a questo, perciò stare con Geràsim lo consolava. Ivàn Il'ic aveva voglia di piangere, aveva voglia che lo carezzassero e lo compiangessero, ed ecco che compariva un suo collega, il funzionario Šebek, e, invece di lacrime e di tenerezze, Ivàn Il'ic faceva una faccia seria, severa, pensosa, per forza d'inerzia diceva il suo parere sul significato che rivestiva una certa sentenza della cassazione e difendeva caparbiamente la sua idea. Questa menzogna che lo circondava, e che era anche dentro di lui, più di ogni altra cosa, avvelenò gli ultimi giorni di vita di Ivàn Il’ic.
Quest’uomo in punto di morte ancora sta difendendo un punto di vista, perché così si sente vivo. E’ un racconto di poco più di cento pagine, però è veramente molto denso, anche se amaro. E notiamo un atteggiamento già postnaturalista, di denuncia delle pieghe strane di una società nella quale i valori si stanno affievolendo e stanno venendo fuori soltanto empiti irrazionali.
In questo periodo infatti il romanzo che apre la nuova sensibilità e viene qualificato come una sorta di “bibbia” del decadentismo è “A rebours” di Joris-Karl Huysmans, titolo tradotto “A ritroso” oppure “Controcorrente”, del 1884, data che viene considerata comunemente lo snodo, il passaggio a un’altra stagione culturale.
L’autore immagina un protagonista, Des Esseintes, che, appunto annoiato della vita così consueta, senza slanci e ipocrita come quella descritta nel racconto di Tolstoj, decide di vivere fuori di questo contesto. Ivàn Il’ic si estrania con Geràsim, per non dovere sopportare una situazione insostenibile, Des Esseintes invece si sposta in una sua villa, la arreda, nell’atteggiamento, nella direzione di un esteta, di uno che coltiva moltissimo la sensibilità artistica, addirittura arriva al punto di creare in un grande salone diversi angoli con diversi stili, che diventano il luogo delle sue letture: se è del Seicento si colloca nell’ambiente barocco, se è romantica nell’ambiente romantico e così via.
Tra l’altro il romanzo diventa spesso un pretesto per la riflessione su importanti autori del tempo. Uno dei dipinti è una “Salomè” di Moreau, che vi faccio anche vedere, per dare un’idea dell’atmosfera che il protagonista creava intorno a sé. Ora Diego leggerà un passo in cui viene bene in evidenza questo culto dell’esteriorità di Des Esseintes. Poi andremo a raccontare cosa avviene dopo tutto questo modo di atteggiarsi del personaggio nello sviluppo successivo della sua vita.
HUYSMANS, CONTROCORRENTE, Capitolo I
Quando l'architetto cui l'aveva affidata, gli consegnò la casa allestita di tutto punto in conformità dei suoi piani e desideri; quando non restò più che fissarne l'arredamento e la decorazione, daccapo egli riprese a suo agio in esame tutti i possibili colori e le loro gradazioni.
Voleva dei colori che si affermassero alla luce fittizia delle lampade; poco gli importava che a quella del giorno risultassero sfacciati o scialbi.
Quasi solo di notte viveva, stimando che di notte in nessun luogo si stava bene come in casa, in nessun luogo era più solo e che l'anima non spiccava il volo e non fiammeggiava che nell'immediata vicinanza dell'ombra.
Come vedete, già la scelta della luce artificiale, se facciamo caso al simbolismo, è coerente con il proposito di una vita anch’essa artificiale. Poi parleremo di questo vivere secondo l’arte, fare della propria vita un’opera d’arte…
Trovava pure un particolare godimento a restare in una camera bene illuminata, desta e all'erta essa sola, tra tante case piene di buio e di sonno; godimento in cui entrava forse una punta di vanità; compiacimento affatto egoistico, che conosce chi lavora sin tardi, quando, alzando le tendine della finestra, constata che tutto intorno a lui è spento, tutto è muto, tutto è morto.
A suo agio, scelse a una a una le tinte.
Ricordiamo che già in “Correspondence” di Baudelaire, che è di più di venti anni prima, si parlava della corrispondenza di colori, suoni e situazioni emotive…
L'azzurro, alla luce delle candele, dà in un verde posticcio; se è carico, come l'indaco e il cobalto, diventa nero; se è chiaro, volge al grigio; se è limpido e tenero come la turchese, s'offusca e si ghiaccia. A meno dunque di associarlo come complementare ad un altro colore, non c'era da pensare di farne la nota dominante d'un ambiente.
(…)Scartati questi colori, non ne rimanevano che tre: il rosso, l'arancione, il giallo.
A tutti preferiva l'arancione. Trovava così in se stesso conferma ad una teoria ch'egli dichiarava pressoché matematicamente esatta: che una armonia, una rispondenza esiste tra la natura sensuale d'un vero artista ed il colore che i suoi occhi apprezzano meglio e cui sono più sensibili.
Trascurando infatti la grande maggioranza degli uomini che han la retina così grossolana da non apprezzare né la cadenza propria a ogni colore né l'arcano fascino delle gradazioni e delle sfumature; trascurando del pari l'occhio del borghese, insensibile alla pompa e al vittorioso squillo dei toni alti e vibranti; non prendendo in considerazione che gli individui dalla pupilla squisita, educata dalla letteratura e dall'arte, gli pareva fuori dubbio che l'occhio di quello fra di essi che sogna l'ideale, che reclama delle illusioni, che implora dei veli nei tramonti, è di solito accarezzato dall'azzurro e dai colori che ne derivano, quale il malva, il lilla, il grigio perla…
Quindi si parla già di individui speciali. Si ritiene tale, sente che pochi sono come lui. Il ritratto dell’esteta che viene fuori qui è quello di un uomo eccezionale…
…purché tuttavia essi restino tenui e non varchino il limite oltre il quale divengon altri, si trasformano in violetti puri, in meri grigi.
Quelli invece che procedono a passo di carica, i pletorici, i bei sanguigni, i solidi maschi che disdegnano i preludi e gli intermezzi e s'avventano perdendo subito la testa, per la maggior parte costoro applaudono ai luccichii sfacciati dei gialli e dei rossi, ai colpi di tamburo dei cinabri e dei cromi che li accecano e li sborniano.
Insomma, l'occhio delle persone deboli e nervose che han bisogno, per risvegliare l'appetito, di cibi affumicati o piccanti; l'occhio di chi è sovreccitato ed estenuato predilige, quasi sempre, l'arancione: questo colore dagli splendori fittizi, dalle febbri acide.
Des Esseintes poi in questa vita da isolato trova una sorta di nevrosi, per cui la sua sconfitta, perché è anche lui un vinto, sarà dover rientrare nella vita di tutti i giorni. Per spiegare il titolo del romanzo, lui ha tentato di vivere “a ritroso”, cioè “controcorrente”, di tirarsi fuori della corrente di tutti in questa villa particolare. Ma il titolo è giustificato anche dall’operazione successiva, quando il protagonista risale la corrente che ha creato, cioè ritorna indietro, sui suoi passi, ad essere quello che era prima. E’ una sconfitta, ma per non rischiare qualcosa di peggiore, la nevrosi, quando il medico gli consiglia, per risanarsi, di tornare a vivere perfettamente integrato nel suo mondo. Comunque il percorso per uscire, per poi rientrare forzato nella normalità, rivela un mondo in difficoltà, nel quale sono entrati in crisi i valori, non più la realtà oggettiva, determinata del naturalismo, ma quella del nuovo, nascente, decadentismo.
Cosa che viene confermata nell’altro pilastro della letteratura decadente, “Il ritratto di Dorian Gray”, di Oscar Wilde, inglese e irlandese. Sappiamo di lui, vissuto nell’età della regina Vittoria, in un ambiente conservatore, con una regina, definiamola pure così, bacchettona, che non sopportava le grandi novità, figuriamoci quanto potesse sostenere in quel periodo, la seconda metà dell’Ottocento, la figura di un dichiarato omosessuale come Oscar Wilde, che era contento di creare scandalo. Si potrebbero citare tante opere e giudizi, di questo scrittore che era poi anche autore di aforismi molto acuti, ma soprattutto ricordiamo la vicenda che lo portò in carcere addirittura, quando si svelò la sua relazione con il compagno e la moglie, perché Wilde era regolarmente sposato, dovette anche lei soffrire questo abbandono, questa sorta di tradimento. Quello che rimane comunque è l’atteggiamento censorio dell’ambiente vittoriano nei confronti dell’autore del “Ritratto”, che è pubblicato nel 1891, sette anni dopo “A ritroso”. Due anni prima D’Annunzio in Italia aveva già scritto “Il piacere”.
Riferiamo molto rapidamente la storia. Il protagonista Dorian Gray, un bellissimo giovane, conosce un pittore che gli fa un ritratto. Henry Wotton, un altro frequentatore del pittore, chiaramente omosessuale, viene subito attratto da questo giovane e cerca di indirizzarlo verso una vita di piacere, di godimento del bello, come vedremo in questo dialogo. Tu, Diego, sarai Wotton, io sarò Dorian Gray. Siamo in un giardino. Si sono appena conosciuti e questo è il primo dialogo tra i due…
WILDE, IL RITRATTO DI DORIAN GRAY, Capitolo II
"Andiamo a sederci all'ombra" disse lord Henry. "Parker ha portato da bere, e se restate ancora un poco nel riverbero vi sciuperete, e Basil smetterà di ritrarvi. Non dovete davvero lasciarvi scottare dal sole. Sarebbe inopportuno".
"Che importanza può avere?" esclamò Dorian Gray, ridendo, sedendosi sulla panchina in fondo al giardino.
HENRY: "Dovrebbe essere per voi d'importanza capitale, signor Gray".
DORIAN: "Perché?"
HENRY: "Perché possedete la gioventù più splendida, e la gioventù è l'unica cosa degna di essere posseduta".
DORIAN: "Non mi sembra, lord Henry".
HENRY: "Non vi sembra adesso. Un giorno, quando sarete vecchio e aggrinzito e brutto, quando il pensiero avrà segnato la vostra fronte coi suoi solchi, e la passione marcato le vostre labbra col suo orribile fuoco vi sembrerà, vi apparirà terribile. Adesso, ovunque voi andiate incantate il mondo. Sarà sempre così?... Avete un volto meravigliosamente bello, signor Gray. Non accigliatevi. È vero. E la bellezza è una forma di genio... più alta, invero, del genio, e non abbisogna di spiegazioni. È uno dei grandi fatti del mondo, come la luce del sole, o la primavera, o il riflesso nell'acqua cupa di quella conchiglia d'argento che chiamiamo luna. Non può essere discussa. Ha diritto divino di sovranità. Rende príncipi coloro che la posseggono… Sorridete? Ah! quando l'avrete perduta smetterete di sorridere... la gente a volte dice che la bellezza è solo superficiale. Può anche essere, ma almeno non è superficiale come il pensiero. Per me, la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile... Sì, signor Gray, gli dei sono stati buoni con voi. Ma quello che dànno gli dei subito si riprendono. Non avete che pochi anni da vivere veramente, perfettamente e pienamente. Quando la vostra gioventù se ne sarà andata, la vostra bellezza si partirà con essa, e allora scoprirete che per voi non ci sono più trionfi, o dovrete accontentarvi di quei trionfi insignificanti che la memoria del vostro passato avrà reso più amari delle sconfitte. Ogni mese che se ne va vi avvicina a qualcosa di terribile. Il tempo è geloso di voi e muove guerra ai vostri gigli e alle vostre rose. Diventerete giallastro, le guance scavate, lo sguardo spento. Soffrirete orribilmente... Ah! godetevi la giovinezza finché l'avrete. Non sprecate l'oro dei vostri giorni a ascoltare i noiosi, cercando di migliorare un fallimento inevitabile, o gettando la vostra vita agli ignoranti, agli ordinari, ai volgari. Questi sono i traguardi malsani, i falsi ideali della nostra epoca. Vivete! Vivete la vita meravigliosa che è in voi! Niente di voi vada perduto. Siate sempre alla ricerca di nuove sensazioni. Non abbiate paura di niente... Un nuovo edonismo: ecco quello che manca al nostro secolo. Potreste esserne il simbolo visibile. Con la vostra personalità non c'è nulla che non possiate fare. Il mondo è vostro per una stagione. Quando vi vidi m’accorsi che voi ignorate completamente quello che siete in realtà, quello che voi in realtà potreste essere. Tante cose di voi mi piacquero, che io sentii di dovervi svelare qualche cosa di voi stesso. Immaginai il vostro dramma, se voi viveste inutilmente. E la vostra gioventù durerà un tempo così breve, così breve. Gli umili fiori del prato avvizziscono, ma rifioriranno ancora. Quest’altro giugno l’acacia sarà d’oro, come è ora.
Questo è il messaggio che Wotton manda a Dorian Gray, che recepisce la lezione, segue il dettame del vivere alla giornata, del godere del bello, del giovane, del momento, perché poi la nostra gioventù si corrompe, con un invito all’edonismo implicito nell’estetismo. E, per una specie di sortilegio, il ritratto che gli ha fatto Basil invecchia al posto suo. Lui, corrotto, consumato dal vizio, dovrebbe invecchiare, ma rimane sempre bello e giovane come prima, finché il dipinto gli diventa insopportabile, tanto che un giorno, dopo molto tempo, vedendosi raffigurato come un vecchio, squarcia questa tela e all’improvviso la vecchiaia si riproduce su di lui, che cade morto. Questa è la grande invenzione fantastica di Oscar Wilde per rappresentare il mito della bellezza.
Questo mito viene ripreso da D’Annunzio nel romanzo “Il piacere”, dove il protagonista, Andrea Sperelli, vive anche lui secondo un ideale estetico. Il grande culto dell’arte glielo ha trasmesso il padre. Vive la vita come un’opera d’arte. Vi leggo un passo significativo…
D’ANNUNZIO, IL PIACERE, Libro I, Capitolo II
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte.
Vediamo quindi come l’ideale estetico sia anche un ideale aristocratico. L’esteta si distingue dalla massa. E’ un discorso molto importante da un punto di vista sociale…
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Ricordiamo che la stessa distinzione sociale avevamo visto nei “Viceré”. Qui è in direzione estetica, non politica, però ha un suo risvolto politico…
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre a punto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna “fare” la propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita di un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.
Si introduce anche il tema della superiorità. In D’Annunzio questo percorso sarà portato a termine. L’esteta diventerà un superuomo, ma lo è già, anche se in una forma ancora embrionale, qui nel “Piacere”, e maturerà nei romanzi successivi, che analizzeremo nella prossima lezione…
Anche, il padre ammoniva: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: ― Habere, non haberi.„
Cioè “possedere, non essere posseduti”. Essere padrone della realtà. Si svilupperà poi il tema nel senso di padrone anche degli altri. E l’esteta diventerà il tribuno, quello che, come Consalvo nei “Viceré”, riesce a regolare e governare le masse.
La storia di Andrea Sperelli è anche quella di un uomo combattuto fra due donne. Conosce Maria Ferres, poi Elena Muti, poi torna con la prima, ma l’altra è quella che lo intriga di più dal punto di vista erotico, un campo per cui D’Annunzio ebbe tanto successo: era letto moltissimo soprattutto dal pubblico femminile, perché i suoi romanzi erano pieni di passione. La storia di Sperelli, con un risvolto, se vogliamo, banale, è che, quando ritorna con Maria Ferres, in un rapporto d’amore pronuncia il nome della donna con cui aveva avuto una lunga relazione, Elena, e scombina tutto con Maria.
Maria ed Elena in fondo, al di là di questo spunto superficiale, sono due esemplificazioni dell’essere femminile nella fantasia di un uomo: quella più regolare e classica (Maria Ferres) e quella fuori della norma, più intrigante e più attraente (Elena Muti). In questa dicotomia viene rappresentata la stessa che fondavano Des Esseintes e Wotton, tra una vita normale e una vita da esaltato, che è la vita dell’esteta e poi del superuomo. Ma continueremo questo ragionamento nella prossima lezione. Arrivederci.
Indice