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VERGA: Cavalleria rusticana, I Malavoglia



Antologia - TERZO ANNO - 4^ Lezione

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VERGA: CAVALLERIA RUSTICANA, I MALAVOGLIA
 
Quarta lezione, con accanto a me un’altra allieva, Mariateresa Spina, che sostituisce Diego per accompagnarci in questa analisi dell’opera di Verga.  Oggi illustriamo una novella di “Vita dei campi”, “Cavalleria rusticana”, un bozzetto drammatico, come lo definisce lo stesso autore, in cui si raccontano vicende appunto di sapore rusticano, campestre. Ve ne recitiamo una versione dialogata. E’ un intreccio, un triangolo d’amore che finisce tragicamente. Turiddu, che era fidanzato con Lola,  è andato a fare il servizio di leva e quando torna trova che qualcosa è cambiato: Lola è fidanzata con compare Alfio, un ricco mercante del paese. Questo è il momento in cui lei incontra Turiddu in una via del villaggio…
 
VERGA, CAVALLERIA RUSTICANA
TURIDDU: Beato chi vi vede!
LOLA: Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese.
TURIDDU: A me mi hanno detto delle altre cose ancora! rispose lui. Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?
LOLA: Se c'è la volontà di Dio! rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.
TURIDDU: La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola!
LOLA: Sentite, compare Turiddu, lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?...
TURIDDU: E giusto, rispose Turiddu; ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch'ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.

 
E Turiddu, con questo motto che significa “facciamo conto che non è successo nulla”, si allontana da Lola, che intanto sposa Alfio, però poi comincia a frequentare la casa vicina alla sua, quella di massaro Cola, in cui si trova Santuzza, che sei tu ora, Mariateresa. Abbiamo cominciato a frequentarci, vengo da te (non  lo sai, ma sospetti qualcosa) per potere spiare Lola…
MARIATERESA: E nello stesso tempo magari farmi vedere da Lola.
Certo, come succederà, infatti. Tocca a te…
 
(…)SANTUZZA: Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? rispondeva Santa.
TURIDDU: La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!
SANTUZZA: Io non me li merito i re di corona.
TURIDDU: Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna.
SANTUZZA: La volpe quando all'uva non ci poté arrivare...
TURIDDU: Disse: come sei bella, racinedda mia!
SANTUZZA: Ohé! quelle mani, compare Turiddu.
TURIDDU: Avete paura che vi mangi?
SANTUZZA: Paura non ho né di voi, né del vostro Dio.
TURIDDU: Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi!
SANTUZZA: Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio.
TURIDDU: Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei!
SANTUZZA: Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.
TURIDDU: Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa.
SANTUZZA: Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anch'io, quando il Signore mi manderà qualcheduno.
TURIDDU: Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo!
SANTUZZA: Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile.

 
Tu ora diventi Lola, che ascolta ogni sera e allora…
 
LOLA: E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più?
TURIDDU: Ma! beato chi può salutarvi!
LOLA:  Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! rispose Lola.

 
Il gioco poi si fa pericoloso e una sera…
 
LOLA: Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera.
TURIDDU: Lascia stare! lascia stare! supplicava Turiddu.
LOLA: No, ora che s'avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi.

 
Santa a questo punto sa tutto e va a riferire ad Alfio, quando torna con le sue mule. Tu ridiventi Santuzza, io sono Alfio…
 
SANTUZZA: Avete ragione di portarle dei regali, Perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!
ALFIO: Santo diavolone! esclamò, se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!
SANTUZZA: Non son usa a piangere! non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.
ALFIO: Va bene, grazie tante.

 
Dopodiché si ritrovano all’osteria e c’è questa sfida con compare Alfio, diremmo un duello, ma per quell’ambiente è una sorta di giudizio di Dio: chi vince ha ragione. Dopo il morso all’orecchio tipico del rituale, i due si incontrano nei campi e la novella si chiude con la morte di Turiddu.
Di questa novella, come dicevamo,  Verga darà una versione per il teatro molti anni dopo, con qualche variante, ma la struttura nella sostanza non cambierà. Ma dopo avere affrontato questa materia originaria, tradizionale, di quel mondo della campagna e dei pescatori di Acitrezza, che aveva abbandonato per andare a Milano, pochi mesi dopo “Vita dei campi”, pubblica “I Malavoglia”, romanzo in cui presenta la storia che aveva già accennato nella novella “Fantasticheria”. I “Malavoglia” sono preceduti da una Prefazione, che presenta il cosiddetto Ciclo dei Vinti. Leggi Mariateresa…
 
PREFAZIONE AI “MALAVOGLIA”
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.

 
La fiumana del progresso è lo scorrere della società in evoluzione, che lascia ai margini quelli che lui chiamerà i “vinti”. In questa società ci sono livelli diversi. Quello elementare delle passioni negli ambienti più poveri può essere analizzato con maggiore facilità. Ma sta già prospettando l’idea di passare poi a livelli più elevati, dove l’analisi sarà sempre più complicata, muovendo dal semplice al complesso, come accade nella evoluzione della specie.
 
Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.
 
Il massimo livello è quello dell’uomo che ha ottenuto tutto e allora si dà al lusso, al vizio. Nella scala sociale Verga ha presentato diversi strati sociali, quello dei Malavoglia che lottano per sopravvivere, quello di Mastro-don Gesualdo, dove non è più la sopravvivenza il tema, ma l’arricchimento, quello della Duchessa de Leyra, in cui non si è contenti della ricchezza, quello dell’onorevole Scipioni, che entra in parlamento per difendere i suoi interessi, tema che ritroveremo nei “Viceré” di De Roberto, e quello dell’”Uomo di lusso”, di cui si diceva.
 
A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà.
 
Verga dice che diventa sempre più difficile analizzare le passioni degli uomini salendo di livello, non solo perché quelli più alti sono più complicati per se stessi, ma anche perché aumenta il mascheramento delle persone. Mentre cioè nei bassi strati ci si comporta in maniera più naturale e quindi è facile capire cosa si pensa, nei più elevati ci si infinge di più e quindi lo scrittore fa maggiore fatica a decifrare, entrando nella psicologia dei personaggi, le motivazioni nascoste.
 
(…)Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
 
Il progresso fa delle vittime e solo l’osservatore attento riesce a percepire le esperienze, l’esistenza di queste vittime, che per il resto della società passano inosservate. Questo è lo scopo del narratore, soffermarsi su quei personaggi che sono ai margini di questa fiumana del progresso, come dei sassi abbandonati dal percorso del fiume. Non dimentichiamo che Verga per i cinque diversi livelli sociali prevede cinque registri linguistici adeguati e che due romanzi sono stati completati, uno è stato interrotto e gli altri due non sono che abbozzi.
Entriamo ora nella vicenda dei “Malavoglia”, questa storia amara di una famiglia di pescatori. Cominciamo prima a descriverla. Leggi Mariateresa… 
 
I MALAVOGLIA, Capitolo I
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere.
 
I soprannomi, come spesso, sono costruiti per antitesi. Nei “Promessi sposi” il “figliolo” era la vetta più alta e così qui i Malavoglia sono pieni di buona volontà e sono soprannominati tali per caratterizzarne l’abitudine opposta…
 
Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro.
Diceva pure, - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.

 
Questa è l’elementare filosofia di padron ‘Ntoni: bisogna aiutarsi in famiglia, e ognuno nel suo ruolo. Il dito grosso deve fare da grosso. Il piccolo da piccolo. Cioè non si deve uscire fuori dai rispettivi ruoli. Il dito grosso era lui stesso, più tozzo, più corto, più largo, come un vecchio. E’ necessario aiutarsi come le dita di una mano, che non fa quello che può se non ha il contributo di tutte.
Con questo si avvia la grande filosofia della famiglia, la difesa della famiglia, che è rappresentata nel Nespolo e nella casa presso la quale sorge questa pianta, che i Malavoglia perdono temporaneamente quando c’è il naufragio della Provvidenza, la loro imbarcazione, che portava un carico di lupini. In questo naufragio muore il figlio di padron ‘Ntoni, Bastianazzo, il capofamiglia, quello che aveva la responsabilità di portare avanti tutto, e morto lui bisogna raccapezzarsi, trovare un equilibrio. Bisogna restituire dei soldi allo zio Crocifisso, con cui ci si è indebitati per il carico dei lupini, e si cede per ipoteca la casa, in attesa di riconquistarla quando, con nuove attività e con gli sforzi che il nonno cerca di concentrare e attivare nella famiglia, si riuscirà a recuperare tutto. La vicenda poi prenderà un suo percorso nel momento in cui ci sarà lo scontro tra il nonno e il nipote. Ma prima conosciamo meglio il vecchio…
 
Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: - «Senza pilota barca non cammina» - «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» - oppure - «Fa’ il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» - «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
 
Tutte queste sue riflessioni invitavano alla prudenza, a mantenersi nei limiti del presente, della realtà, e non cercare grandi voli. Cosa che il nipote non vuole. A proposito del linguaggio, già la descrizione prima letta è fatta in parte con immagini dell’autore e in parte con immagini della stessa gente che vive in quel posto, come se un popolo intero, quello dei pescatori di Acitrezza, raccontasse con parole sue i fatti. Questo artificio stilistico lo chiamiamo “discorso indiretto libero”, perché liberamente nella narrazione lo scrittore riproduce espressioni e immagini dei protagonisti di cui sta parlando. E siamo alla protesta di ‘Ntoni nei confronti del nonno. Leggi Mariateresa…
 
I MALAVOGLIA, Capitolo XI
Una volta ’Ntoni Malavoglia, andando girelloni pel paese, aveva visto due giovanotti che s’erano imbarcati qualche anno prima a Riposto, a cercar fortuna, e tornavano da Trieste, o da Alessandria d’Egitto, insomma da lontano, e spendevano e spandevano all’osteria meglio di compare Naso, o di padron Cipolla; si mettevano a cavalcioni sul desco; dicevano delle barzellette alle ragazze, e avevano dei fazzoletti di seta in ogni tasca del giubbone; sicché il paese era in rivoluzione per loro.
 
‘Ntoni, quando vede tornare dalla città questi ragazzi che spendono, fanno un altro tipo di vita, pensa di poter fare lo stesso e non è più contento di condurre questa vita da asino, come in “Rosso Malpelo”. Lui lavora brutalmente ogni giorno, senza avere prospettive. E i contrasti con il vecchio, che abbiamo visto come la pensasse, volendo lavorare con lui e gli altri nipoti come le dita di una mano, vengono a soluzione drammatica in questo confronto, che è introdotto così…
 
Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto, gonfiava la schiena, aspettando che lo bardassero! - Carne d’asino! borbottava; ecco cosa siamo!
Carne da lavoro! E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.

 
E qui recitiamo, io nei panni del nonno, tu, Mariateresa, in quelli del nipote, riducendo il testo a puro dialogo…
 
PADRON ‘NTONI: Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo! (’Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole) Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. «Chi va coi zoppi, all’anno zoppica.»
‘NTONI: C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è!
PADRON ‘NTONI: Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel che è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera.» «Meglio contentarsi che lamentarsi.»
‘NTONI: Bella consolazione!
PADRON ‘NTONI: Almeno non lo dire davanti a tua madre.
‘NTONI: Mia madre... Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre.
PADRON ‘NTONI: Sì, sì, meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo.
‘NTONI: Ebbene! lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiare stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti.
PADRON ‘NTONI: Ricchi! ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?
‘NTONI: Faremo quel che fanno gli altri... Non faremo nulla, non faremo!... Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni.
PADRON ‘NTONI: Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato;  Tu sei un ragazzo, e non lo sai!... non lo sai!... Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!... Lo vedrai; te lo dico io che son vecchio! - «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene.
‘NTONI: Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! Io non voglio vivere come un cane alla catena come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
PADRON ‘NTONI: Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova».

 
Veramente il seguito del romanzo sarà il non trovare più la propria casa o la via del ritorno, come si vorrebbe. Intanto padron ‘Ntoni non morirà a casa sua ma in ospedale. E’ il dramma di questo povero vecchio, che aveva fatto tanto per riavere la casa del Nespolo, che riotterrà il nipote Alessi, che si è comportato come voleva il nonno e ha sposato la Nunziata. ‘Ntoni è andato in città, si è dato al contrabbando, è finito anche in galera, e dopo aver passato quello che ha passato torna al suo paese, cerca di rivedere la sua casa, Alessi, la Nunziata, ma si deve rendere conto che non c’è più luogo per lui. Qui siamo all’ultimo passo del romanzo…
 
I MALAVOGLIA, Capitolo XV
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico.
Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo.
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu (lo scemo del paese) colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta - pensò ’Ntoni, - e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse:
- Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.

 
Con questo finale così negativo dei “Malavoglia” chiudiamo la lezione. Arrivederci.
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