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DALLA SCAPIGLIATURA AL VERISMO - VERGA: Romanzi giovanili, Vita dei campi



Antologia - TERZO ANNO - 3^ Lezione
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I grandi della letteratura italiana: Giovanni Verga
DALLA SCAPIGLIATURA AL VERISMO - VERGA: Romanzi giovanili, Vita dei campi
Siamo arrivati alla terza lezione del terzo anno di Antologia. Vi presento subito, vicino a me, una novità, Diego Florio, che sostituisce Barbara, impegnata in un Erasmus, come finto alunno, anche se è stato pochi anni fa un mio vero alunno.
Nell’ultima lezione ricordammo che era un momento, quello della metà dell’Ottocento, in cui certe istanze di rinnovamento e il rifiuto di una società troppo ordinata si esprimevano in diverse maniere. Dopo aver visto l’esperienza dei poeti maledetti,  entriamo decisamente nel campo della Scapigliatura, un movimento lombardo che prende il nome, come dicemmo, da un romanzo di Righetti, “La scapigliatura e il 6 febbraio”, in cui si parla di questa gente che vive in modo sregolato, anticonformista, bohémien, riedizione di quell’atteggiamento del 1830. Un movimento un po’ tardoromantico, ma anche con anticipazioni del futuro decadentismo…..
 
RIGHETTI, LA SCAPIGLIATURA E IL 6 FEBBRAIO
Questa casta, vero pandemonio del secolo, personificazione della follia che sta fuori dai manicomi, serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti, io l’ho chiamata  la Scapigliatura.
 
Il protagonista massimo di questa esperienza è Arrigo Boito. Però oggi vi voglio presentare Iginio Ugo Tarchetti, autore di un romanzo dal titolo “Fosca”. Colui che narra i fatti ha incontrato due donne, una è quella con cui vive, Chiara, l’altra invece, che entra nella sua vita all’improvviso come una presenza misteriosa, anche, possiamo dire, intrigante, ma comunque preoccupante, Fosca, che dà il nome al romanzo. Già i due nomi, Chiara e Fosca, indicano un’antitesi, due modi di essere opposti. Fosca era malata, cominciamo a descriverla, Diego…
 
TARCHETTI, FOSCA
Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sí violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata.
(…)Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce più serena, e circondarla d’un’atmosfera meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sì ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sì spaventevole. In quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire.

 
Una donna brutta, che però ha un suo fascino misterioso. Entriamo appunto nel campo dell’insondabile. Il positivismo, l’età del determinismo, della descrizione netta della realtà, sembrerebbe escludere questa riflessione sull’insondabile, su ciò che non si può conoscere. Ma ogni età ha in sé i fermenti di un’altra. In questo caso, andando avanti, troveremo sempre l’aspetto del mistero che si accompagna alla realtà…
 
(…)Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La stagione era ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della vettura conciliava sì  bene il sonno al colonnello, ed egli era sì felice di sapere che v’era lì io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l’ora più felice della giornata: il sapere che suo cugino era lì, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora più tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero.
 
Si inserisce anche l’elemento erotico. Fosca lo attrae proprio fisicamente, lo sequestra, si potrebbe dire, e lui da una parte vorrebbe evitare questi approcci, dall’altra ne rimane turbato. Proseguiamo…
 
Una cosa sovratutto - e la noto qui come quella che può dar ragione dell’abbandono in cui ero caduto, e della sfiducia che s’era impadronita di me - contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sé nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole.
 
Questo senso del macabro, poi, riedita certo fascino dei racconti di Edgar Allan Poe, in un’atmosfera tardoromantica. Ricordiamo comunque che tutto il movimento della scapigliatura si richiama al male, a ciò che turba la regolarità della vita della borghesia del tempo. Anticonformisti, come dicevamo, si ponevano contro questo ordine, frequentavano le osterie fuori della città di Milano, si ritrovavano su questo negare una società industriale che, come abbiamo già chiarito, era progressista all’esterno, per la tecnica, la scienza, lo sviluppo del lavoro e della produzione, ma conservatrice all’interno delle proprie famiglie, aspetto da noi analizzato in Nora di “Casa di bambola” di Ibsen, che pochi anni dopo sarà rappresentata nell’Europa del nord.
Di Arrigo Boito ricordiamo “Dualismo”, componimento nel quale l’autore dice di essere attraversato dal demone e dall’angelo, di sentirsi sempre o un angelo caduto, e in quanto tale un demone, o un demone redento, e in quanto tale un angelo. Vuol dire con questo che dentro di lui ci sono il bene e il male insieme, non si possono separare così nettamente come vorrebbe certo ambiente perbenista. E ogni uomo è intrigato da questo spessore di complessità. Boito, che ha rinnovato la forma, il metro poetico, con Praga e gli altri scapigliati, anticipando il decadentismo, considera il male come profondamente poetico e in questo si rifà ai “Fiori del male” di Baudelaire, che sono la descrizione di quanto c’è di attraente e di estetico nel perverso. Per esempio, quando scrive il libretto di quello che poi sarà l’”Otello” di Verdi, glielo intitola “Jago”, il grande truffatore, autore di questo grande e tragico imbroglio, che per lui è il personaggio più interessante. Comunque sul titolo la spunterà Verdi.
E anche quando va a riprendere il “Faust” di Goethe per farne una di quelle opere che scriveva e musicava, la intitola “Mefistofele”, che per lui è il vero protagonista. E comporrà poi il “Nerone”, perché lo attrae sempre, nella diversa umanità degli imperatori, quello che è odiato, il genio del male. Genio e sregolatezza sono infatti i motivi che ispirano Boito, che ha vissuto delle esperienze molto disordinate, con Praga, Tarchetti, Camerana, Dossi, Lucini, anche un certo Roberto Sacchetti mio omonimo, nato esattamente un secolo prima di me, nel 1847 (però è morto molto prima di un secolo fa, cioè molto prima di quanto abbia temuto di farlo anch’io). Molti di questi muoiono giovani. Lo stesso Tarchetti, che ha parlato della malatissima Fosca, è vittima del tifo, Praga muore per avvelenamento da vernici di cui faceva uso dipingendosi le braccia e il corpo, altri di droga, e vari oppiacei. Forse fra tutti il più normale era proprio Boito, che non praticava gli stessi eccessi.
Però, accomunati da ciò, questi autori ci ricordano che era un momento di trasformazioni, grossi cambiamenti, testimoniati appunto in questa esperienza di rigetto della regolarità. Invece, ritornando al nostro ambito, già avviato nella riflessione sul positivismo e sul naturalismo, riprendiamo dall’interno il discorso su Verga, che tra l’altro nasce da un’esperienza tardoromantica e scapigliata, anche lui.
Il Verga protagonista del verismo che noi conosciamo, dopo i primi romanzi risorgimentali, come “I carbonari della montagna”, “Sulle lagune”, “Amore e patria”, ha scritto altri romanzi d’amore, “Eva”, “Eros”, “Tigre reale”, “Il marito di Elena”, “Storia di una capinera”. Ci interessa quello che scrive nella Prefazione a “Eva”, sul fatto che il lettore debba accettare che si parli di queste esperienze, che abbiamo prima esaminato a proposito degli scapigliati, di vita non regolata da buoni costumi. Se entra nell’arte ciò che non è morale, cosa dobbiamo fare? Leggi, Diego…
 
Non accusate l’arte, che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, - voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, - voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia.
 
Come vedete, c’è anche in Verga questo rifiuto di una realtà borghese, cittadina. E’ il periodo in cui si è spostato dalla nativa Catania a Milano e ha potuto intanto attraversare il divertimento di questa città, però poi farlo con un occhio più critico. Ma non critico al punto di evitare di parlare di questa vita, come appunto suggerisce ai suoi lettori. Questa è la realtà, fatta di bene e di male, e bisogna descriverla. In fondo è lo stesso ragionamento che facevano i fratelli Goncourt, all’interno del naturalismo, quando presentavano un romanzo come “Germinie Lacerteux”, che parlava delle pulsioni sessuali di una cameriera, romanzo che aveva suscitato scandalo per la tematica. E difendevano questo contenuto affermando che questo faceva parte della realtà e loro, dovendo descriverla, dovevano arrivare a palarne.
Comunque nei romanzi giovanili di Verga appare dentro lui stesso questa riserva morale che vorrebbe negare in questa prefazione a “Eva”, che lo porta alla famosa conversione al verismo. Quando sente il rifiuto di questa vita condotta a Milano, molto diversa da quella sorvegliata e regolata della Sicilia, avverte la necessità di ritornare alle origini, alla sua terra. Secondo un saggio di Sebastiano Timpanaro la conversione di Verga al verismo è radicata su quattro componenti: l’evoluzionismo di Darwin, il naturalismo dei francesi, lo stesso rifiuto di cui parlavamo, della mondanità e della vita sregolata a Milano, e la questione meridionale, cioè il grande problema dell’arretratezza del sud, che lui va a descrivere all’interno della prima raccolta di novelle di “Vita dei campi”, con Nedda, una raccoglitrice di olive, lavoratrice a ore, che ha una bambina, una madre da mantenere, una storia straziante.
All’interno della raccolta, descrivendo la realtà dei campi, dei pescatori delle sue origini, c’è una novella che si intitola “Fantasticheria”, in cui Verga ci presenta l’ideale dell’ostrica, partendo appunto da un personaggio che appartiene al mondo che ora rifiuta, quello della grande città. Leggi l’inizio di questa novella, rivolto a questa donna che lo ha accompagnato ad Acitrezza, Diego…
 
VERGA, FANTASTICHERIA
Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiù!»
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l’alba ci sorprese in cima al fariglione, un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, e in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. — Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. — Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellavate nel vostro scialletto, e sorridevate coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina mentre contemplavate il sole nascente? Gli domandavate forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita.»
(…)È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così ― per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo. Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.

 
Dopo avere fatto un distinguo tra l’ambiente cittadino, rappresentato da questa donna capricciosa, e l’ambiente sostanziale, pieno di problemi, dei pescatori di Acitrezza, che poi vedrà protagonisti dei “Malavoglia”, paragona questi a delle formiche, che ritornano sempre dopo essere state sbaragliate da una pioggia di autunno, e passa alle immagini dell’ostrica e dello scoglio…
 
— Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi.
 
Dunque l’ideale dell’ostrica, che sente il desiderio di abbandonare questo scoglio sul quale è sempre vissuta e vorrebbe andare a sperimentare altri scogli, altre storie, altri momenti di vita, come avverrà ad alcuni protagonisti dei “Malavoglia”; però se si staccano dallo scoglio vengono prese dal mare e si perdono…
 
Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano ― forse pel quarto d’ora ― cose serissime e rispettabilissime anch’esse. (…)
Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: ― che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui.

 
Proprio questa filosofia della rassegnazione è stata abbondantemente rimproverata a Verga. Il nostro autore poi ci presenta anche una riflessione sull’impersonalità, il cui canone recepisce da Flaubert nella Prefazione a ”L’amante di Gramigna”, una novella di “Vita dei campi”. Gramigna è un brigante di cui si è innamorata la protagonista. E parlando di questa storia d’amore un po’ particolare lui dice di avere osservato questo criterio di rappresentazione. La prefazione è in forma di lettera all’amico Salvatore Farina. Leggi Diego…
 
VERGA, L’AMANTE DI GRAMIGNA
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te, e per tutti coloro  che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore.
Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?   Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà  essersi fatta da sé…

 
Passiamo ora a un’altra novella di “Vita dei campi”, Rosso Malpelo. Partiamo dal testo. Leggi Diego…
 
VERGA, ROSSO MALPELO
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana…
 
Malpelo è un personaggio primitivo, a cui è morto il padre, in una cava di rena. Vive in famiglia con una madre che lo trascura e lo usa soltanto per quei pochi soldi che prende lavorando nella stessa cava di rena del padre. Vive isolato da tutti, da tutti considerato “malupilu”, cattivo. Gli addebitano anche le cose che non ha compiuto, ma lui se le attribuisce, preferisce passare per colpevole anche di quello che non ha fatto, perché sta acquisendo una filosofia di vita: quella che “chi pecora si fa il lupo se la mangia”. Bisogna apparire più cattivi di quelli che si è per non essere, in questo mondo fatto appunto, già allora, di sfruttamento, prevaricati.
Addirittura adotta come suo allievo un ragazzino che viene a lavorare con lui, che si chiama Ranocchio, che vede debole perché è buono. Gli dà allora lezioni di cattiveria e gli indica sempre un asino che lavora tutti i giorni senza discutere. Gli dice che lui lavora come un asino e diventerà “carne d’asino”, cioè quella di una bestia che sarà sfruttata per tutta la vita e quando poi non servirà più sarà lasciata morire in un burrone. E gli farà vedere anche la carcassa di questa bestia in fondo al burrone.
Il cinismo di questo ragazzino è allevato dalla situazione familiare, ma anche da quella lavorativa, perché tutti lo scansano, lo evitano o lo trattano come un essere molto strano. Cosa farà Malpelo quando si ritroverà sotto la rena il cadavere del padre, che tra l’altro era andato a fare lavoro straordinario per mantenere “quella” famiglia, “quella” madre, “quelle” sorelle anche? Prende i suoi vestiti. I calzoni vengono ridotti per lui e li usa subito. E le scarpe se le cova per tanto tempo, se le guarda tutti i giorni, perché le potrà mettere solo quando sarà diventato così grande da poterle calzare. Questo feticismo degli abiti del padre tradisce il mito che ne ha fatto e arriva poi ad oggettivarsi in questa conclusione…
 
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

 
Come vedi, qui c’è il tema del lavoro minorile e del lavoro in genere, tu che del tema del lavoro ti sei occupato di recente, Diego…
DIEGO: Sì, il tema del lavoro, dello sfruttamento. Stiamo facendo una messa in scena della vicenda di Arturo Giovannitti, che è stato un grandissimo molisano nel mondo. Originario di Ripabottoni, a 17 anni è emigrato in America perché aveva già dei problemi a livello politico per il suo impegno a favore degli sfruttati, dei lavoratori. Segue un seminario universitario, poi avvia l’attività di pastore presbiteriano, fino a quando, giunto negli Stati Uniti, abbraccia la causa dei lavoratori dell’industria. Erano anni difficili. Entra a far parte del sindacato e nel 1911, a 29 anni, durante una grande manifestazione di protesta, viene uccisa una ragazza minorenne e lui è accusato dell’omicidio insieme a un altro povero operaio. Il nostro spettacolo è costruito sull’autodifesa da lui pronunciata al processo, una pagina straordinaria.
E con questa storia chiudiamo la nostra lezione. Arrivederci.
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