Antologia - TERZO ANNO - 2^ Lezione
(Cliccare sulle parole in caratteri blu)
https://youtu.be/qwA18MRx1S0
anto 3,2_Title_1.MPG
REALISMO: TOLSTOJ, ANNA KARENINA
SIMBOLISMO: BAUDELAIRE, I FIORI DEL MALE
Siamo alla seconda lezione di questo terzo anno di corso. Accanto a me sempre Barbara. L’altra volta ci siamo lasciati con il naturalismo di Flaubert, di Zola e del grande drammaturgo Ibsen. Ora ci portiamo su un narratore russo, Tolstoj, con il suo “Anna Karenina”, per poi sviluppare invece l’argomento del simbolismo.
Nora, in “Casa di bambola”, era una donna che si accorgeva all’improvviso di essere stata sempre una bambola per il marito e di non avere una personalità autonoma. Era un segno di riscatto per tutte le donne di quel tempo, negli anni ’70 dell’Ottocento. Nello stesso periodo il tema viene trattato da Tolstoj per la società russa. Le due figure femminili, che possiamo poi collegare con Emma Bovary, sono più vicine tra di loro perché ambedue collocate in un problema di rapporto con un marito ipocrita, mentre nel caso di Emma Charles tutto poteva scontare tranne questa caratteristica.
Il marito di Anna, Alexej Karenin, è un funzionario dello zar, tiene moltissimo al suo ruolo e al suo impegno politico-ammnistrativo, ha un grande senso dell’onore, è convinto della fedeltà della moglie, che è reale, perché Anna non ha mai pensato a tradirlo, però è un tipo duro, insensibile; e la moglie, quando conosce un personaggio di grandissima sensibilità e generosità, doti che non riscontra nel marito, se ne innamora. Dopo aver resistito moltissimo alla tentazione, cede ad Alexej Vronskij, che ha dimostrato subito la sua grandezza d’animo soccorrendo un poveraccio in una stazione ferroviaria. E in una stazione si concluderà il romanzo.
Anna, che ha intrecciato questa relazione, l’ha pagata, perché il marito, quando viene a scoprire tutto, prima reagisce ipocritamente dicendo che anche se non abbandona l’amante comunque almeno non si deve sapere nulla, quasi ad accettare un compromesso, ma poi, per una scelta di verità da parte di lei, che preferisce recitare anche il ruolo dell’adultera ma essere chiara, le toglie il figlio. Anna soffre e proprio per questo grava Vronskij, che è un’ottima persona, del peso di dover essere perfetto per lei, che ha rinunciato a tanto, a tutto, per questo amore e vuole che questo sentimento non ceda nemmeno per un momento all’abitudine, sia sempre con il vecchio e originario entusiasmo. Quando, come in fondo in tutte le storie d’amore, la passione, che pure c’è sempre, si affievolisce, si smorza, non dico che si spenga, lei comincia addirittura a sospettare l’impossibile, cioè che lui abbia altri interessi, abbia un’altra donna. E quando non ce la fa più comincia ad andare in depressione, una condizione che si aggraverà nonostante i tentativi di Vronskij di salvarla e la porterà verso questo esito finale. Siamo appunto in una stazione. Anna sta osservando il passaggio della gente, ha un appuntamento con Alexej, basta niente per decidere la svolta drammatica, e il niente è che lui non arriva, perché è stato trattenuto da un inconveniente dell’ultimo momento, che lo fa arrivare in ritardo. Questo ritardo è per lei la sentenza che non arriverà perché ama un’altra. Leggi Barbara…
TOLSTOJ, ANNA KARENINA, Parte VII, Capitolo XXXI
“Sì, a che punto mi son fermata? Al fatto che non riesco a inventare una situazione in cui la vita non sia un tormento, che noi tutti siamo creati per tormentarci, e che noi tutti lo sappiamo e tutti inventiamo dei mezzi per ingannarci. E quando si vede la verità, che mai si può fare?”.
— La ragione è data all’uomo per liberarsi di quello che lo inquieta —disse in francese la signora, evidentemente soddisfatta della propria frase e facendo smorfie con la lingua.
Queste parole parvero rispondere al pensiero di Anna.
“Liberarsi di quello che lo inquieta” ripeté Anna. E, guardando il marito dalle guance rosse e la moglie magra, ella capì che la moglie malaticcia si considerava una donna incompresa e che il marito la ingannava, mantenendo in lei questa opinione su se stessa. Ad Anna pareva di vedere la loro storia e tutti gli angoli remoti dell’anima loro, mentre spostava su di essi la sua luce. Ma lì non c’era nulla di interessante, e continuò il suo pensiero.
“Sì, mi agita molto, e la ragione è data per liberarsene; perciò bisogna liberarsene. E perché non spegnere la candela, quando non c’è più nulla da guardare, quando fa ribrezzo guardare tutto? Ma come? Perché questo capotreno è passato di corsa sulla traversa? perché gridano quei giovani, in quello scompartimento? Perché parlano, perché ridono? Tutto è menzogna, tutto inganno, tutto malvagità...”.
Quando il treno entrò in stazione, Anna uscì tra la folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché era arrivata là e cosa avesse intenzione di
fare. Tutto quello che prima le sembrava possibile, adesso era così difficile a considerarsi, specialmente tra la folla rumoreggiante di tutte quelle persone deformi, che non la lasciavano in pace. Ora i facchini accorrevano da lei, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo coi tacchi le assi della banchina e discorrendo forte, la esaminavano, ora quelli che venivano incontro si facevano di lato non dalla parte giusta. Ricordatasi che voleva proseguire, se non ci fosse stata risposta, fermò un facchino e domandò se era venuto un cocchiere con un biglietto per il conte Vronskij.
— Il conte Vronskij? Per incarico suo sono stati qui proprio ora. Venivano incontro alla principessa Sorokina con la figlia. E il cocchiere com’è?
Mentre ella parlava col facchino, Michajla, rosso e allegro, con un elegante pastrano turchino e la catena, evidentemente orgoglioso d’avere eseguito così bene la commissione, le si avvicinò e le porse un biglietto. Ella aprì e il cuore le si strinse ancor prima di leggere.
“Mi dispiace molto che il biglietto non m’abbia trovato. Verrò alle dieci” scriveva Vronskij con una scrittura trascurata.
“Ecco! Me l’aspettavo!” si disse con un sorriso cattivo.
— Va bene, allora va’ a casa — disse piano, rivolta a Michajla. Ella parlava piano perché la rapidità dei battiti del cuore le impediva di respirare.
“No, non ti permetterò di tormentarmi” ella pensò, rivolta con minaccia, non a lui, né a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi, e si incamminò per la banchina lungo la stazione.
In un’altra pagina che non leggiamo si sviluppa la tragedia. Lei sta per buttarsi sotto il treno e dice…
“Dove sono? che faccio? perché?”. Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile le dette un urto nel capo e la trascinò per la schiena.
“Signore, perdonami tutto!” ella disse, sentendo l’impossibilità della lotta. Un contadino, dicendo qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela, alla cui luce aveva letto il libro pieno di ansie e di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più viva che mai, le schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre, crepitò, prese ad oscurarsi e si spense per sempre.
Questa è la conclusione della vita di Anna Karenina, nel grandissimo romanzo di Tolstoj, autore anche di “Guerra e pace” e di tante altre opere di cui non vi possiamo parlare. Vedremo in un’altra lezione “La morte di Ivan Ilic”, racconto in cui il protagonista all’improvviso viene investito da un male che lo porterà alla morte e vede intorno a sé anche lui tanta ipocrisia. Tolstoj è il portatore di un’idea francescana del vivere, in cui si esaltano l’amore, la pace, la fratellanza fra gli uomini, tematiche che occuperanno la sua narrativa e la sua persona. E’ un pilastro della letteratura russa, ma non ne possiamo parlare oltre per l’economia del nostro lavoro.
Procediamo dunque. Nell’età del positivismo, nello stesso periodo in cui si sviluppa la poetica del naturalismo che abbiamo prima descritto, che si richiama alla scientificità, alla razionalità e all’oggettività, ci sono spinte di tipo irrazionale, con l’affermazione di quello che poi prenderà il nome di “simbolismo”. Il primo poeta che si indirizza a questo nuovo temperamento e atteggiamento nei confronti della realtà è Baudelaire, che esprime il risentimento dell’artista contro una società che non accetta persone come lui. Vediamo cosa ci dice. Leggi Barbara:
L’ALBATRO
Spesso, per divertirsi, gli uomini di un equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli del mare,
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave scivolante sugli abissi amari.
Appena li hanno deposti sulle plance,
questi re dell’azzurro, maldestri e impacciati,
abbandonano pietosamente le grandi ali bianche
come remi trascinati ai loro fianchi.
Questo viaggiatore alato, come è goffo e debole!
Lui poco fa così bello, come è comico e brutto!
Uno gli stuzzica il becco con una pipa,
un altro mima, zoppicando, l’infermo che volava!
Il poeta è simile al principe delle nubi
che frequenta la tempesta e se la ride dell’arciere;
esiliato sulla terra in mezzo agli sberleffi,
le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.
In una società positiva, scientifica, il poeta rimane ai margini. L’albatro riproduce l’immagine del cigno di Ariosto, una creatura nobile, che in cielo è superiore a tutti e nel suo volo trascura le piccolezze della gente comune, volgare; però quando è sulla tolda della nave diventa impacciato, zoppica e gli altri si beffano di lui. Baudelaire cerca di far sentire e risentire l’amarezza dell’artista che vive ai margini di una società che riconosce positività soltanto a chi è al passo con i tempi, con il progresso, con la scienza.
Quindi per il poeta sembrerebbe non esserci spazio. Questo è il primo elemento di una reazione irrazionale all’interno di una comunità in cui si afferma ormai la scientificità del prodotto. L’altro elemento è il carattere soggettivo dell’esperienza, che Baudelaire ribadisce in un momento in cui altri stanno facendo dominare l’idea che conti l’oggettività. E questo possiamo verificarlo in “Correspondance”. Leggi Barbara…
CORRISPONDENZE
La natura è un tempio dove viventi pilastri
Lasciano talvolta uscire confuse parole
L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che lo osservano con sguardi familiari
Come dei lunghi echi che da lontano si confondono
In una tenebrosa e profonda unità,
vasta come una notte e come il chiarore,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Ci sono dei profumi freschi come delle carni di bimbo,
dolci come gli oboi, verdi come le praterie,
e degli altri, corrotti, ricchi e trionfanti,
che hanno l’espansione di cose infinite,
come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso,
che cantano i traporti dello spirito e dei sensi.
Questo componimento che è pieno di sinestesie, cioè di confusioni di diverse sensazioni nelle immagini, è caratterizzato dal tema generale dell’analogia, che è appunto questo stabilire una corrispondenza, e quasi un rapporto analogico, tra elementi diversi, che però dipendono dallo stato d’animo di chi li interpreta. Quindi, in un periodo in cui ci si avviava verso il determinismo sociale, c’è ancora qualcuno che si appella all’indeterminatezza dell’analogia, alla suggestione invece che alla descrizione scientifica, che a loro, i simbolisti, appare arida.
Infatti, a proposito dell’aridità della vita in cui si è collocati, Baudelaire intitola la sua raccolta di poesie “I fiori del male”, volendo dire che la realtà è fatta non solo di bene, ma anche di male. Nella lezione precedente abbiamo ricordato che i fratelli Goncourt tendevano a scandalizzare una società perbenista. E in questo coincidono gli atteggiamenti di Baudelaire e degli altri simbolisti con i naturalisti: in questa volontà di esprimere la possibilità poetica, la possibilità rappresentativa di una realtà che normalmente la borghesia benpensante vuole escludere. Che è la stessa esclusione che Torvald operava nei confronti del cosiddetto disonore, la stessa esclusione che Karenin operava nei confronti dell’adulterio, sempre per difendere l’immagine “perbene”, l’onore, tutto questo che abbiamo detto essere un residuo del passato, come un male non confessato, da parte di quella società che invece si professa progressiva, al passo con i tempi, nel campo esterno della produzione e del lavoro.
Quindi, a proposito di “fiori del male”, Baudelaire dice che il male ha dei fiori, cioè è poetico. “Spleen” rappresenta meglio di altri suoi componimenti la poeticità del male, in questo caso inteso come angoscia esistenziale. Mentre lo leggo, mandiamo in proiezione immagini pittoriche tra cui anche una di Van Gogh. Poi spiegheremo perché…
SPLEEN
Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio
sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni,
e versa, abbracciando l'intero giro dell'orizzonte,
un giorno nero più triste della notte;
quando la terra è trasformata in una cella umida,
dove la Speranza, come un pipistrello,
va sbattendo contro i muri la sua timida ala
e picchiando la testa sui soffitti marci;
quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce,
imita le sbarre di una vasta prigione,
e un popolo muto d'infami ragni
viene a tendere le sue reti in fondo ai nostri cervelli,
improvvisamente delle campane suonano con furia
e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,
come degli spiriti vaganti e senza patria,
che si mettono a gemere ostinatamente.
E lunghi funerali, senza tamburi né musica,
sfilano lentamente nella mia anima; la Speranza,
vinta, piange; e l'Angoscia atroce, dispotica,
sul mio cranio piegato pianta il suo vessillo nero.
La traduzione che propongo nel testo scritto è mia e non è la stessa letta nel corso della lezione. Ricordo che quando si traduce, anche alla lettera, per non tradire l’originale, rispettando anche l’ordine delle parole, non sempre si fa una buona operazione, come pure quando si eccede nella libertà rispetto al testo. Occorre il giusto equilibrio.
Chiariamo le analogie del testo. Il pipistrello che sbatte le sue ali contro i muri della prigione è la speranza, che è chiusa nelle angustie della vita. La prigione, a sua volta, è descritta dalle sbarre costituite dalle righe della pioggia. I ragni nel nostro cervello dicono che la nostra mente non ha più la libertà del ragionamento, essendo in preda alla depressione. Infine vediamo questo vessillo di vittoria dell’angoscia sulle nostre pene.
Baudelaire è uno di quei poeti che si definirono “maledetti”, appunto perché erano esclusi dalla società, non erano accettati. Insieme con lui abbiamo altri campioni di questo gruppo, Verlaine, Mallarmé, Rimbaud. Due di questi avevano un rapporto omosessuale, usavano tutti oppiacei, insomma erano molto trasgressivi. Si rifanno anche a quell’altra categoria di poeti che erano i bohémiens, di una generazione precedente, quelli che vivevano nelle soffitte, da artisti, in maniera sregolata, ai quali pure si era già rifatto Poe, altro grande romantico americano, che abbiamo presentato.
C’è una linea che percorre questo mondo dagli anni ‘30 dell’Ottocento fino a questi anni ’50-70 di Baudelaire e degli altri, che va da Poe, anzi, diremmo, da Shelley, con l’idea del poeta vate, diverso dagli altri (come l’albatro), fino a Poe, a Melville, con la balena bianca che coagula le nostre angosce, che vorremmo superare, fino a Baudelaire.
Nel simbolismo quindi c’è questa idea di una reazione ad una trasformazione della società nella direzione della razionalità. E’ una reazione che recupera l’irrazionale, la forza dell’immaginazione, dell’analogia, che ha un carattere non solo dissacratorio ma anche rivoluzionario rispetto alla stessa realtà. E’ l’”impressione” della realtà che conta, che stanno esprimendo anche i pittori di questo periodo. Il pittore impressionista in fondo rappresenta la realtà, la interpreta, ma la rappresenta. E all’interno dello stesso impressionismo, che potrebbe essere associato più al naturalismo che al simbolismo, sta nascendo una tendenza che poi sarà quella postimpressionista, soprattutto affermata in Van Gogh, la tendenza a non raffigurare semplicemente la realtà, anche se in maniera soggettiva, ma interpretarla con una trasformazione che è dentro la nostra retina.
Basta mettere a confronto un quadro di un impressionista alla Manet (“Colazione sull’erba”) con uno di Van Gogh (“I girasoli”), come vediamo, per avere evidente la differenza, che è soprattutto nei colori, che Van Gogh accende come scarica della sua angoscia e della sua ribellione alla società. Tutti sottolineano la sua depressione, la sua cupezza, i rapporti difficili con Gauguin, al quale si è legato morbosamente, ma dimenticano che prima di diventare quest’uomo è stato un ribelle: era quello che predicava, era figlio di un pastore protestante, quindi amava molto trattare con la gente, ma si era posto già contro l’autorità, contro il mondo che lo circondava e in tutto aveva sempre dichiarato la sua libertà di giudizio. Poi c’è l’ultimo periodo, in cui si chiude in se stesso. Insomma un ribelle, come questi poeti.
E l’ultimo di questi ci presenterà l’immagine che sarà la base della trasformazione successiva dell’età del positivismo in età del decadentismo. Sarà Verlaine: “Io sono l’Impero alla fine della decadenza”. Mi sento come colui che vive nell’impero alla fine della decadenza, quando sono crollati tutti i valori, siamo tutti sbandati, non sappiamo avere punti di riferimento e dobbiamo cantare questa alienazione nella società. Ma leggeremo quel componimento quando apriremo la stagione del decadentismo.
Abbiamo appena il tempo di accennare al fatto che, mentre si esprime la poetica simbolista, nello stesso periodo a Milano sta nascendo un movimento che prenderà il nome di Scapigliatura, di cui sarà guida Arrigo Boito. Si chiamerà così perché Carlo Righetti, noto con lo pseudonimo anagrammato di Cletto Arrighi, scriverà un romanzo dal titolo “La scapigliatura e il 6 febbraio” e parlerà di un gruppo di scapigliati, nel senso di scioperati, irregolari, come questi poeti di cui abbiamo parlato, che vivono ai margini della società. E darà così il nome al movimento. L’atteggiamento è lo stesso dei poeti maledetti. Quello che li differenzia da loro è la volontà di sperimentare novità soprattutto nel campo formale. Vedremo la prossima volta queste che potremmo chiamare “acutezze”, in quanto richiamano gli sperimentalismi e le novità esasperate della poesia barocca. Arrivederci.
REALISMO E SIMBOLISMO: TOLSTOY:Anna Karenina - BAUDELAIRE: I fiori del male