Antologia - 27^ Lezione
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anto 2,27_Title_1.MPG
LEOPARDI
A SILVIA, DIALOGO DI TRISTANO E UN AMICO,
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO, CANTO NOTTURNO
Ventisettesima lezione del secondo anno, con Barbara. Avevamo letto il “Dialogo della Natura e di un Islandese”, in cui si manifesta il materialismo meccanicistico e il pessimismo cosmico. Nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” un venditore di oroscopi e un passante si domandano perché la gente ne compri tanti e concludono che lo si fa perché, non essendo soddisfatti né del passato né del presente, si rivolgono tutte le attenzioni al futuro, l’unica cosa in cui si può sperare.
Nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” il suicidio, di cui si era parlato nell’”Ultimo canto di Saffo”, viene superato con il ragionamento di Plotino a Porfirio, che vuole uccidersi. Non può convincerlo a non farlo dimostrandogli che non è infelice, perché lo siamo tutti. Allora gli dice che non deve aggiungere infelicità a parenti e amici che ne soffrirebbero. L’altro motivo convincente è che deve dividere con gli altri questo destino. Uccidersi significa venir meno a un dovere di solidarietà con gli altri nel sopportarlo. Una premessa di quel tema che poi vedremo dominare nell’ultimo Leopardi.
Questo dialogo è degli anni ’30, dopo il ritorno di Leopardi alla poesia, nel 1827, con il soggiorno pisano. Pagine dello “Zibaldone” raccontano del clima di Pisa, a suo avviso molto mite e favorevole. E così riprende in lui la “volontà di canto”. Naturalmente è poesia di un autore disilluso. Riprendiamo appunto da “A Silvia”, una canzone in cui il poeta recupera, attraverso il ricordo, il suo passato giovanile, di cui fa parte Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, che per lui è Silvia…
A SILVIA
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.
Anche peria tra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? Questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Questo bellissimo componimento di Leopardi parla di Silvia, cioè Teresa Fattorini, morta in tenera età, a rappresentazione della speranza e della giovinezza stessa, che sono morte in Leopardi. Qualcuno è arrivato a immaginare un voluto gioco tra le parole “Silvia” e “salivi”, che aprono e chiudono il primo quadro, con “salivi” anagramma di “Silvia”. Ma abbandoniamo queste considerazioni assurde. Semmai c’è assonanza, musicalità che il Leopardi ricerca, ma non immaginava certo di fare un anagramma. Ricordiamo ancora molti termini arcaici: “verone”, “ostello”, per dire balcone, casa. E molti aggettivi indefiniti: “cotanta”, “tanto”. Secondo alcune note dello stesso “Zibaldone”, sono lo strumento per creare quel vago e quell’indefinito che erano istintivi negli antichi, in chi non aveva l’arida riflessione razionale che lo tormentava. In un contesto attraversato dalla ragione, dalla riflessione pessimistica, quella ricerca serve a rendere almeno l’atmosfera della poesia, che ha bisogno di quella vaghezza che riproduciamo con l’uso di strumenti stilistici, contro una realtà troppo concreta e determinata. Poco c’è da dire ancora, perché la tua lettura, Barbara, ha reso pienamente il senso. Non c’è bisogno di commento, quando si legge così bene.
Passiamo al “Dialogo di Tristano e di un amico”, del 1832, in cui immagina che Tristano, lo scrittore stesso, parli con un amico a proposito del suo libro delle “Operette morali”. L’amico sei tu, Barbara, Tristano sono io. Con il nome di Tristano Leopardi si caratterizza come eroe che difende un libro che nessuno ama, perché parla dell’infelicità…
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
AMICO: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
TRISTANO: Sì, al mio solito.
AMICO: Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
TRISTANO: Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
AMICO: Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
TRISTANO: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse.
Leopardi, ironico, finge di accettare i rilievi dell’amico e, dopo aver ricordato che il tema dell’infelicità a lui sembra così piano, scontato, conclude che però si è convinto…
(…) m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch'io credeva.
AMICO: E avete cambiata opinione?
TRISTANO: Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO: E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO: Certamente. Oh che maraviglia? (…)
AMICO: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s'ha egli a fare di questo libro?
TRISTANO: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO: Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
TRISTANO: Verissimo. E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi.
TRISTANO: Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura.
(…) Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.
Non vorrei tempo per decidermi a morire. Nei passi che abbiamo saltato ci sono almeno un paio di immagini che vanno ricordate. Una è quella degli uomini che sono immaturi e deboli. Non vogliono affrontare il destino di infelicità, come i mariti cornuti, che, non accettando di essere stati traditi, non ne vogliono nemmeno sentire parlare. Li assimila all’umanità che non vuole sentirsi dire che è infelice. L’altra immagine è quella sul sapere dell’età moderna e dell’età antica. L’amico gli obietta che questa è un’epoca migliore delle precedenti, perché c’è più gente istruita. E Leopardi risponde che dove tutti sanno poco si sa poco. Nel passato pochi erano istruiti, però avevano un sapere più profondo e più alto di oggi. Sembra dirlo ai nostri tempi, in cui tutti sanno su internet ma nessuno è veramente informato, perché tutti raccolgono solo la superficie di tutto.
Per passare poi alla fase del Leopardi eroico, così caro a Walter Binni, dobbiamo prima fermarci al “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia”, in cui si esprime la poesia cosmica. Immagina un pastore errante per l’Asia in dialogo con la luna. Scrive questo componimento sull’eco della lettura del “Voyage d’Orenbourg à Boukhara” del barone di Meyendorff. Era uno di quei viaggi che si facevano in quegli anni. Il motivo esotico era una delle componenti fondamentali del romanticismo. Sconvolto dall’immagine del deserto, dei pastori con i loro armenti, isolati, nella natura, Leopardi scrive questo…
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE NELL’ASIA
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Il pastore chiede alla luna il senso di una vita sempre uguale: anche tu, luna, non ti stanchi di percorrere sempre lo stesso tratto del cielo? Segue un motivo petrarchesco…
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
La vita è simile a quella di un vecchio che si affanna tanto per raggiungere qualcosa e poi cade in un dirupo, la morte. E poi quest’immagine lucreziana…
Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Lucrezio nel “De rerum natura” aveva parlato dell’infelicità della nascita stessa. Si nasce soffrendo e lamentandosi, tanto che i genitori con le loro cantilene sembra che vogliano consolare il bambino appena nato, che urla, del fatto di averlo creato per la sofferenza…
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Questa luna alla quale si rivolge il pastore ha diversi aggettivi. La chiama “vergine”, “intatta”, prima ancora “silenziosa”. Sembra appunto non esserci comunicazione tra il pastore e la luna, che non raccoglie le sue offerte di dialogo. Naturalmente non è il ragionamento di un pastore, è un grande filosofo e poeta, è Leopardi che parla, che vive una contraddizione fondamentale, un paradosso, una sorta di elemento surreale, quello di potere attribuire certe parole così importanti ad un semplice pastore…
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Sottolineiamo questa espressione: “amante compagnia”. La morte è il venir meno all’amante compagnia, all’affetto dei cari. Quest’idea dell’amore dei compagni, l’amore della società, di quelli che sono intorno a noi, è un altro elemento fondamentale dell’ultima fase della poesia leopardiana, che riemergerà nella “Ginestra”. Dice: tu forse sai a che serva questa sofferenza. Gli stessi dubbi che l’islandese esprimeva alla natura…
Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
So soltanto questo, dice Leopardi, che di questa fragilità potrà avere un bene qualcun altro, ma per me la vita è soltanto male. Non riesco a trovare un senso all’universo...
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Leopardi stabilisce il contrasto fra il gregge, che a riposo sembra stare placido, e lui, che quando riposa è preso dalla noia, dal “tedio”, come lo chiama, e dalla riflessione sulla vita, perché gli animali non riflettono. Però l’ultima strofa ci dice qualcosa di diverso…
Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Dice Leopardi: forse se potessi volare al di sopra di questo mondo così pieno di sofferenze starei meglio. Poi però corregge il tiro e aggiunge: ma forse invece non c’è nessuna possibilità ed è funesto il giorno della nascita per chiunque: non solo per chi nasce in una culla ma anche per chi nasce dentro un covile o una tana. E qui conclude che quindi è infelice non solo lui, il pastore, ma è infelice anche il suo gregge, è infelice anche la luna, siamo infelici tutti. E’ il pessimismo cosmico, il pessimismo universale. Con questa riflessione vi lasciamo per la prossima e ultima lezione su Leopardi.
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