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LEOPARDI: Ultimo canto di Saffo, Dialogo della Natura e di un Islandese




Antologia - 26^ Lezione

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LEOPARDI
LA SERA DEL DI’ DI FESTA, ULTIMO CANTO DI SAFFO,
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
 
Ventiseiesima lezione del secondo anno, con Barbara. Riprendiamo dal pensiero leopardiano e dalla sua evoluzione da pessimismo individuale a storico a cosmico. Partiamo da una sua riflessione sulla diversità dell’atteggiamento degli antichi e dei moderni di fronte alla natura. Dice in uno dei pensieri dello “Zibaldone”…
 
ZIBALDONE
Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza; la ragione è nemica della natura; la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi; e nelle arti e nella poesia forse nessuno, se non sono dominati dalle illusioni.
 

Questo è quello che Leopardi stabilisce nell’ambito del pessimismo storico: chi è vicino alla natura può essere grande, chi è più vicino alla ragione difficilmente lo è, perché gli mancano le illusioni, che la ragione toglie. Questo spiega anche il suo intervento sulla poesia, nel periodo della polemica tra classici e romantici. Dicemmo già che Leopardi si schiera dalla parte degli antichi. Afferma, in un altro pensiero del 1820…
 
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. (…)La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose.
 
Da quando ha cominciato a riflettere di più su se stesso, sulla sua situazione, perché non poteva leggere (per un grave abbassamento della vista), si è allontanato dalla fantasia e dall’immaginazione, si è avvicinato alla riflessione sulla verità della sua condizione così negativa, è diventato più moderno e meno antico di spirito e la sua poesia ne risente. I veri poeti, dirà più avanti, sono stati gli antichi. Altrove dice anche che la ragione scioglie la società e inferocisce le persone. E ancora, nelle note che si riferivano all’ Infinito, richiamammo il fatto che il piacere lo possiamo solo immaginare, perché lo vogliamo infinito e invece è finito. Conclude quel ragionamento così…
 
Quindi è manifesto: 1) perché tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto delle illusioni volute dalla natura. 2) Perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite. Stante la considerazione sopraddetta, l’anima deve naturalmente preferire agli altri quel piacere che ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più antico, cioè Omero, abbondano i fanciulli, veramente Omerici in questo gli ignoranti ecc. insomma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne.
 
Dunque la ragione è nemica della poesia. E ricorda l’uso dei termini indefiniti, che sono più poetici, di cui diremo in seguito. Vediamo ora “La sera del dì di festa”, del 1820:
 
LA SERA DEL DÌ DI FESTA
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! (…)

 
Rifettiamo sul contrasto che c’è tra questo esordio così idillico (idilli li chiamò appunto Leopardi), tra questo paesaggio sereno di notte rischiarata dalla luna e il suo stato d’animo tormentato, e anche quello fra la sua veglia notturna e il riposare tranquillo della donna alla quale si rivolge, a testimoniare che lei pensa, come racconterà, alle persone a cui è piaciuta in questo giorno di festa, di cui lui non ha certo goduto, tormentato dai suoi affanni ed escluso da queste gioie.
Benedetto Croce a proposito di questa come di altre poesie di Leopardi distingueva l’esordio (“dolce e chiara è la notte e senza vento”), che noi pure istintivamente diremmo poetico come immagine, e il resto, per esempio il punto in cui il poeta dice: “Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo”. Passi come questi Croce li definisce non poetici. E’ un’operazione illegittima questa di Croce, distinguere in uno stesso componimento tra poesia e non poesia, spiegata dal fatto che il critico idealista non accettava il materialismo di Leopardi, il suo pessimismo. Respingendo il pensiero dello scrittore, non riusciva a dichiarare come poetico ciò che ne risentiva di più. In realtà Croce avrebbe dovuto già da tempo recepire la lezione dello “Zibaldone”. Cioè se i critici dell’Ottocento, che non conoscevano questo diario, potevano incorrere in questo rischio, chi lo aveva letto, come lui, doveva sapere che ciò che Leopardi mette in versi è già steso negli appunti dello “Zibaldone” in prosa. Quindi c’è uno strettissimo rapporto fra poesia e pensiero di Leopardi. Per Croce non ci sarebbe poesia quando emergerebbe troppo la riflessione filosofica. E’ un’operazione assurda.
E d’altra parte, ultima considerazione, la serenità di questa notte lunare ha una sua vitalità maggiore proprio messa in contrasto con il tormento del poeta. E viceversa. Il tormento del poeta appare ancora più efficacemente rappresentato, confrontato con la serenità del paesaggio e della donna alla quale si rivolge. Il seguito non lo leggiamo, ma parla appunto di un giorno di festa appena finito e del tempo che scorre, che fa terminare anche i momenti di gioia della vita dell’uomo.
Ora ci portiamo su un altro componimento importantissimo di Giacomo Leopardi, “L’ultimo canto di Saffo”. Questo lo leggi tu, Barbara…
 
ULTIMO CANTO DI SAFFO
Placida notte, e verecondo raggio 
della cadente luna; e tu che spunti 
fra la tacita selva in su la rupe, 
nunzio del giorno; oh dilettose e care 
mentre ignote mi fur l'erinni e il fato, 
sembianze agli occhi miei; già non arride 
spettacol molle ai disperati affetti. 
Noi l'insueto allor gaudio ravviva 
quando per l'etra liquido si volve 
e per li campi trepidanti il flutto 
polveroso de' Noti, e quando il carro, 
grave carro di Giove a noi sul capo, 
tonando, il tenebroso aere divide. 
Noi per le balze e le profonde valli 
natar giova tra' nembi, e noi la vasta 
fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto 
fiume alla dubbia sponda 
il suono e la vittrice ira dell'onda. 

 
Chi parla è Saffo, grandissima poetessa greca di cui si raccontava che si fosse uccisa per amore di Faone. Parla del fatto, simile a quello della “Sera del dì di festa”, che non c’è in lei consonanza fra la natura gioiosa, bella, splendida e il suo stato d’animo…
 
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella 
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta 
infinita beltà parte nessuna 
alla misera Saffo i numi e l'empia 
sorte non fenno. A' tuoi superbi regni 
vile, o natura, e grave ospite addetta, 
e dispregiata amante, alle vezzose 
tue forme il core e le pupille invano 
supplichevole intendo. A me non ride 
l'aprico margo, e dall'eterea porta 
il mattutino albor; me non il canto 
de' colorati augelli, e non de' faggi 
il murmure saluta: e dove all'ombra 
degl'inchinati salici dispiega 
candido rivo il puro seno, al mio 
lubrico piè le flessuose linfe 
disdegnando sottragge, 
e preme in fuga l'odorate spiagge. 

 
Saffo parla del fatto che la bellezza della natura non splende per lei, che  si sente come un’ospite aggiunta e sopportata. E  si sente così sfuggita ed evitata che anche le acque di un torrente, di un ruscello, sembrano non volere toccare il suo piede quando vi scivola dentro, per non avere  contatto con la sua brutta figura. Naturalmente avete già capito che in Saffo si rappresenta lo stesso Leopardi. Continuiamo…
 
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso 
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo 
il ciel mi fosse e di fortuna il volto? 
In che peccai bambina, allor che ignara 
di misfatto è la vita, onde poi scemo 
di giovanezza, e disfiorato, al fuso 
dell'indomita Parca si volvesse 
il ferrigno mio stame? Incaute voci 
spande il tuo labbro: i destinati eventi 
move arcano consiglio. Arcano è tutto, 
fuor che il nostro dolor. Negletta prole 
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo 
de' celesti si posa. Oh cure, oh speme 
de' più verd'anni! Alle sembianze il Padre, 
alle amene sembianze eterno regno 
diè nelle genti; e per virili imprese, 
per dotta lira o canto, 
virtù non luce in disadorno ammanto.

 
Che errore ha mai commesso, che per nemesi storica (quella in cui credevano i Greci) potesse essere punita magari per le colpe di qualcun altro, visto che non le sembra di avere commesso errori? Quale dannazione c’è su questo filo avvolto dalle Parche, che è diverso da quello degli altri, un filo rugginoso, non scorrevole come gli altri, a voler rappresentare la difficile esistenza di una donna brutta e trascurata? E poi conclude: “arcano è tutto fuor che il nostro dolore”. Una delle espressioni famose di Leopardi. Tutto è mistero, la sola cosa certa è che soffriamo. Nascemmo al pianto, la prima persona plurale a voler indicare la comunanza di destino fra Saffo e il poeta. E poi il cenno alle speranze, alle preoccupazioni dei più verdi anni, della giovinezza, che si perdono. E la considerazione finale che il padre Giove ha riservato attenzione solo alle sembianze, alle amene sembianze, alle belle apparenze. Chi non ha un piacevole aspetto sembra non avere diritto a vivere in mezzo agli altri. Leggo io l’ultima strofa…
 
Morremo. Il velo indegno a terra sparto 
rifuggirà l'ignudo animo a Dite, 
e il crudo fallo emenderà del cieco 
dispensator de' casi. E tu cui lungo 
amore indarno, e lunga fede, e vano 
d'implacato desio furor mi strinse, 
vivi felice, se felice in terra 
visse nato mortal.

 
Moriremo, dice Saffo, e finalmente si correggerà questo errore di un’anima bella contenuta in un corpo brutto, perché l’anima si separerà dal corpo. Ricordiamo che poco prima ha detto che “virtù non luce in disadorno ammanto”. Puoi essere bello dentro e virtuoso quanto vuoi, ma se il tuo involucro è brutto quella qualità che hai dentro non viene notata. Quindi ribadisce in questo punto che questo contrasto tra bellezza interiore e bruttezza esteriore si correggerà solo con la sua morte.
Poi si rivolgerà a Faone per dirgli: tu, al quale mi ha legato un lungo amore, una dedizione straordinaria, vivi felice dopo la mia morte. Però aggiunge: “se felice in terra visse nato mortale”. Cioè ammesso pure che un essere nato per morire sia mai potuto vivere felice su questa terra. Questo è il punto fondamentale di questo “Ultimo canto di Saffo”. Lo abbiamo letto proprio per potere stabilire il discrimine preciso tra il pessimismo storico e il pessimismo cosmico. In questo punto, nel 1822, Leopardi sta passando al secondo, intanto per la considerazione che ha scoperto che una grande, una devastante infelicità c’è anche in una poetessa dell’età antica, che nella fase precedente aveva stabilito fosse un’età di gioia, perché si era spensierati, lontani dalla ragione. E poi per questo riferimento preciso a Faone, che, pur bello, pur fiducioso in se stesso, probabilmente è infelice anche lui, come tutti quelli che sono nati per morire, come tutti gli esseri viventi. Quindi sono tutti infelici, sia i moderni che gli antichi. A questo punto sta cambiando anche il riferimento tra natura e ragione. Leggo la conclusione…
 
Me non asperse 
del soave licor del doglio avaro 
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno 
della mia fanciullezza. Ogni più lieto 
giorno di nostra età primo s'invola. 
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra 
della gelida morte. Ecco di tante 
sperate palme e dilettosi errori, 
il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno 
han la tenaria Diva, 
e l'atra notte, e la silente riva.

 
Siamo ritornati in prima persona, chi parla non è più Saffo, ma Leopardi stesso. Morrà anche lui e questo luogo finale riservato ai morti lo accoglierà, e tutto sarà dimenticato.
Dopo questo passaggio al pessimismo cosmico, che è determinato anche dal viaggio a Roma, quella Roma che aveva desiderato come evasione da Recanati, che lo lascia invece deluso, perché vi ritrova ipocrisia, niente di quei valori che aveva immaginato nella piccola Recanati, nel 1822, Leopardi ben presto perde la capacità di fare poesia. Lui dice che gli manca la “volontà di canto”. E prende a scrivere le “Operette morali”.
Sono delle opere filosofiche, chiamate “morali”. Per Leopardi filosofia e morale sono la stessa cosa, perché è scienza del comportamento umano, in maniera sensista vede tutto come materia in continuo divenire, che è da sempre, non nasce e non viene distrutta, ma si trasforma. Quelle che sono create e distrutte di volta in volta sono le forme. L’operetta più significativa della riflessione sul pessimismo cosmico è proprio il “Dialogo della Natura e di un Islandese”, che ora vi leggiamo in buona parte, sintetizzando molti momenti. Tu, Barbara, sarai la Natura e io l’Islandese. C’è una premessa…
 
 
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
NATURA: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?
ISLANDESE: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
NATURA: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE: La Natura?
NATURA: Non altri.
ISLANDESE: Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA: Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto, tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano.
 
Qui poi continua un lungo resoconto delle sue esperienze. Ha cercato in ogni luogo del mondo di stare meglio, ma non ci è riuscito. O erano cataclismi o erano malattie o erano gli uomini stessi che gli davano problemi. E conclude questo racconto con questa frase…

(…)In modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.
NATURA: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
 ISLANDESE: Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza, e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? (…)
NATURA: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
 
Tutto serve solo alla conservazione della natura stessa. Non solo non se ne accorge, ma quello che accade, il dolore di alcune forme viventi, la sofferenza, è necessario per la sua conservazione…
 
ISLANDESE. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.
 

Sono ambivalenti le conclusioni, ma per dire semplicemente che la risposta della natura è il suo proseguire nel processo di distruzione di una forma per conservarne un’altra. E con questa riflessione chiudiamo questa lezione. Arrivederci.
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