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LEOPARDI: La formazione, Il pensiero, L’infinito




Antologia - 25^ Lezione

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♦ I grandi della letteratura: Giacomo Leopardi

♦ Dall'Infinito allo Zibaldone: tutti i manoscritti di Leopardi sono online
 
LEOPARDI: LA FORMAZIONE, IL PENSIERO, L’INFINITO
 
Venticinquesima lezione, con Barbara. Oggi cominciamo a parlare di Leopardi. Né lui né Manzoni sono stati veri romantici come Foscolo. Comunque Leopardi è un grande protagonista di questo periodo. Tutti lo conoscono per un uomo che ha avuto un’esperienza particolare. La sua vita è stata segnata da alcuni fatti impressionanti, per le conseguenze che hanno lasciato su quest’uomo già quando era adolescente.
Oggi, infatti, vogliamo subito ripercorrere le tappe di questa sua prima infanzia, adolescenza e giovinezza attraverso quello che lui stesso dice di sé o quello che il fratello Carlo dice di lui. E’ nato a Recanati, nella marca anconetana, come sappiamo tutti, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici, in un palazzo signorile, in una famiglia benestante, che però fa i conti con i primi problemi patrimoniali nell’ambito di una società che non progrediva e non produceva. Quindi il conte Monaldo lo dovremmo vedere un po’ come quell’antiquario di Goldoni che spendeva tanto. Infatti Adelaide Antici è l’economa, la donna che pensa al patrimonio della casa, mentre il marito si dedica all’arricchimento della sua biblioteca. E questa, che è la passione del padre e il tormento della madre, perché deve rimettere a posto il bilancio familiare, è anche la dannazione, sotto certi aspetti, di Leopardi, perché in questa straordinaria biblioteca entrerà già da piccolo e si rovinerà la salute, come lui stesso dirà, in “sette anni di studio matto e disperatissimo” fra i 10 e i 17 anni. E’ però anche il luogo in cui Leopardi ha maturato la sua eccezionale cultura e quindi si è formato questo grande genio della nostra letteratura.
 Cominciamo ad approfondire le tematiche attraverso gli scritti di Leopardi. Intanto questo giudizio sulla madre, dello “Zibaldone”,  una serie di appunti che Leopardi prende dal 1817, quando ha 19 anni, fino al 1832. In questi quindici anni di diario l’autore nota delle cose che saranno molto importanti per ricostruire la sua personalità anche come poeta, oltre che come uomo. Vi ricordo che questo scritto fu riscoperto soltanto alla fine dell’Ottocento e da allora si poté quindi dare una giusta lettura di certe affermazioni di Leopardi, non solo, ma anche della sua opera poetica. Ne riparleremo, ma vediamo ora cosa ci dice della madre:
 
GIACOMO LEOPARDI, ZIBALDONE, 25 NOVEMBRE 1820
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto.
 
E qui c’è un indiretto giudizio affettuoso nei confronti del padre, che è sensibilissimo alle malattie dei figli, come la madre non è, perché la religione la porta a pensare che se soffrono guadagnano il paradiso, come dirà fra poco…
 
Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù…
 
Questo il giudizio durissimo nei confronti della madre. Sentiamo cosa ci dice il fratello Carlo, dopo tanti anni, della sua infanzia…
 
CARLO LEOPARDI, MEMORIE
La fanciullezza di Giacomo passò fra giuochi e capriole e studi; studi, per la sua straordinaria apprensiva, incredibili in quella età. Mostrò fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libertà ardentissimo. Non poteva soffrire alcun disprezzo. Sdegnavasi fortemente e piangeva se alcuno della famiglia cedeva in cosa di onore. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava!
 
Quindi onore e grandezza già nel piccolo Leopardi: grandi temi, l’eroismo…
 
Ebbe fin da fanciullo l’abilità straordinaria di inventar fole e novelle e di seguitarne alcuna per più giorni come un romanzo. Questo faceva la mattina a letto per il mio spasso. Una volta ne inventò una che durò più settimane. Vi assicuro che sarebbe ancor bella oggidì. L’onorare dei genitori non intendeva esserne schiavo. Ne fu dichiarato empio dal prete. Noi tre fratelli più grandi, Giacomo, io e la Paolina, davamo talvolta in casa saggi quasi pubblici dei nostri studi. Giacomo ci faceva subito di nascosto le composizioni e ci suggeriva spesso con segni e movimenti rappresi delle dita ogni cosa. Facevamo sempre buona figura. A dodici anni egli aveva dato pubblico saggio di filosofia ed anche di teologia. Uscivano sempre di casa accompagnati dall’aio (l’istitutore) o dai nostri. La prima volta che Giacomo non uscì da solo fu quando venne a trovarlo il Giordani, al quale andò incontro. E ne fu poi ripreso dal padre. Ho ben anch’io in memoria la sua visita e le lunghe passeggiate fatte insieme e il conversare di quest’uomo eloquentissimo.
 
Pietro Giordani diventerà grande amico di Leopardi, il punto di riferimento, un secondo padre, sarà l’uomo a cui ricorrerà per maturare il suo sogno di evasione. Leggiamo ancora, perché il passo che segue è significativo della posizione della famiglia Leopardi tutta sul risorgimento…
 
Quando Giacomo stampò le prime canzoni, i Carbonari pensarono che le scrivesse per loro o fosse uno di loro. Nostro padre si pelò per la paura, ma giacomo non seguì mai nessuna fazione, non gli passarono mai per la mente le sette. Avea troppo ingegno e giudizio da non curarle e fuggirle.
 
I carbonari sono delle sette per il padre, per il fratello, erano visti come i terroristi di oggi. Vedete come cambiano i tempi. Ora vi leggo quello che dice a Giordani il giovane Leopardi in una sua lettera del 1817…
 
GIACOMO LEOPARDI, LETTERA A PIETRO GIORDANI, 30 APRILE 1817
 (…)Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l’amicizia sua. E in verità credeva che non sarei stato esaudito, perché queste tre cose, tanto rare a trovarsi ciascuna da sé, appena stimava possibile che fossero tutte insieme. O sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che domandava, e fatto conoscere l’error mio. E però sia stretta, la prego, fin da ora tra noi interissima confidenza, rispettosa per altro in me come si conviene a minore, e liberissima in Lei. Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mio perché vedesse gli affetti che v’ha destati la lettura delle sue parole, i quali se ‘l cuore non muta forma e materia, non periranno mai, certo non mai.
 
E continua con queste offerte di amore e di sentimento. Vedete, Giordani stesso gli consiglia di essere temperante nello studio, cioè moderarsi, perché tutti ormai sono preoccupati della salute sua nel 1817, quando ha 19 anni. Vediamo più avanti…
 
(…)Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e del Tasso, e dell`Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c’è uno che si curi d’essere qualche cosa, non c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano.
 
Insomma ha detto che Recanati è un luogo di ignoranza, non c’è spazio per la letteratura. E allora uno come lui lì non può avere  nessun motivo di esistere, nessuna prospettiva. Ecco perché medita di andar via, ne parla con Giordani e poi, quando decide di partire, scrive questa lettera al padre. Leggi Barbara…
 
GIACOMO LEOPARDI, LETTERA AL PADRE, LUGLIO 1819
Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amata e l'ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta ch'io ho tenuta fino ad ora, e forse quando voglia spogliarsi d'ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l'Italia, e sto per dire in tutta l'Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genitori ch'ho usata io.
 
Quindi quando vuol lasciare i genitori, con questa lettera, Leopardi si presenta come il figlio perfetto, che se decide di andar via non lo fa perché è un ribelle. Però spiega perché lo fa…
 
Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch'io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di se.
 
Se tutti giudicano bene me, appunto bisogna darmi i mezzi per farmi onore, visto che ho le possibilità di partenza…
 
Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch'essi tutti hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava ai 21 anno.
 
Gli altri a 17 anni sono già liberi, non solo, ma i genitori si preoccupano del loro futuro. Io a 21 anni non sono ancora libero e nessuno si preoccupa del mio futuro. Ecco la ribellione di Leopardi. Sappiamo che poi non è più andato via da Recanati quell’anno. Si recherà dove voleva andare, a Roma, ben tre anni dopo, e ne rimarrà deluso. Roma la noterà per la sua ipocrisia…
 
LETTERA AL FRATELLO CARLO, 16 DICEMBRE 1822
Carlo mio. Se non siete persuaso di quello ch'io cercai di provarvi nell'ultima mia, n'en parlons plus. Io v'accerto che non solo non ho provato alcun piacere in Roma, ma sono stato sempre immerso in profondissima malinconia. Non nego però che questo non venga in gran parte dalla mia particolare costituzione morale e fisica. V'accerto ancora che quanto alle donne, qui non si fa niente nientissimo più che a Recanati. V'accerto che gli spettacoli e divertimenti sono molto più noiosi qui che a Recanati, perché in essi nessuno brilla, fuori dello stesso spettacolo e divertimento. Questo è il solo che possa brillare, e non si va allo spettacolo se non puramente per veder lo spettacolo, (cosa noiosissima), oppure per trattenersi con quelle tali poche persone che formano il piccolo circolo di ciascheduno; il qual piccolo circolo s'ha nelle città piccole meglio ancora che nelle grandi, e certamente nelle grandi è più ristretto che nelle piccole. (…)
Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studio da fanciulli, il genio e l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione

 
E più avanti ancora dirà che ha notato ipocrisia. L’unica sincerità, verità l’ha trovata nel popolo, la gente che conta è nella periferia di Roma. Quindi questa grande delusione lo porterà poi a chiudersi in un pessimismo più grave. E a proposito facciamo una breve riflessione sull’evoluzione del suo pensiero.
Leopardi, sappiamo tutti, per lo studio che ha fatto nella sua biblioteca ha minato la sua salute, si è escluso dai giochi e dai divertimenti tipici della giovinezza e poi ha cominciato  a riflettere sulla sua infelicità. Questa è la fase che noi chiamiamo del pessimismo individuale. Poi ha iniziato ad allargare la sua visione e ad immaginare che la sua fosse l’infelicità di tutti gli uomini della sua epoca, dovuta alla presenza della ragione, che ci rende meno spontanei e ci allontana dalla natura, che è veramente grande. Ci sono delle riflessioni di Leopardi su questa opposizione tra natura grande e ragione piccola addirittura, in questa fase che si chiamerà del pessimismo storico, nella quale ritiene che in questo momento storico gli uomini sono infelici, mentre nel passato sono stati più felici perché più vicini alla natura e meno condizionati dal ragionamento, dalla riflessione sulla verità.
Prima che il suo pessimismo si evolvesse ancora, Leopardi partecipò alla polemica tra classici e romantici e si mise dalla parte dei classicisti, perché riteneva appunto che l’opera classica, proprio per le ragioni del pessimismo storico, fosse ispirata ai poeti da grande fantasia e sentimento proprio perché erano vicini alla natura e non si facevano condizionare troppo dalla riflessione, mentre i moderni non possono fare poesia all’altezza degli antichi in quanto la ragione toglie loro la possibilità di spontaneità, fantasia e immaginazione.
Dal pessimismo storico Leopardi evolverà verso la fase del pessimismo cosmico. E c’entra Roma con questo, perché quando va nella capitale questa delusione approfondisce ancora di più il suo dramma. Quando poi, leggendo testi antichi, si rende conto che ci sono grandi personaggi sventurati, per esempio la poetessa Saffo, che si uccide per amore, o altri, ne deduce che l’infelicità non è una categoria della modernità, ma una circostanza connaturata all’uomo e allora arriva a immaginare che tutti gli uomini, in ogni epoca, sono stati infelici, e anzi con loro tutto l’universo. Questa è la fase che chiameremo del pessimismo cosmico, che Leopardi attraverserà in tutta la seconda parte della sua vita e che ispirerà la gran parte delle sue opere più mature.
Ma nella fase del pessimismo ancora storico c’è questo carme, “L’infinito”, in cui Leopardi muove da una riflessione che farà qualche mese dopo nello “Zibaldone”. Dice questo pensiero che l’uomo aspira sempre al piacere infinito, però trova nella sua vita soltanto piaceri limitati, sia per durata che per estensione: cioè non sono grandi e non durano quanto noi vorremmo. Per questo motivo l’esistenza dell’uomo è fatta di continua tensione verso l’infinito piacere, che desidera e non trova. E cercandolo continuamente, finiamo per associare all’idea stessa di infinito il piacere. Ecco la ragione della meditazione di questo carme, “L’infinito”. Lo leggo io…
 
 L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

 
Qualcuno ha interpretato questa seconda parte come un’ansia di infinito religioso. Ma Leopardi in questo periodo, anche se non è ancora diventato ateo, sta maturando questa idea. Qualcun altro ha fatto strane analisi. La realtà è che il carme si spiega proprio con quelle riflessioni che pochi mesi dopo, nello “Zibaldone”, farà sul tema del piacere. Quando dice che gli è “dolce” naufragare in questo mare di infinito che immagina all’orizzonte, vuole intendere che è piacevole immaginarlo. Cosa che è consentita solo a chi non può vedere oltre la siepe. Se potesse farlo, avrebbe il senso del limite, e non potrebbe immaginare l’infinito.
Il colle di cui si parla è il monte Tabor che sta su Recanati. Si trova al di qua di una siepe che incontrava nelle sue passeggiate quotidiane, al di là della quale immagina l’infinito non soltanto nello spazio, sotto un aspetto visivo, ma anche da un punto di vista auditivo, cioè il silenzio, che viene poi interrotto da un rumore. E questo rumore lo riporta al presente: quando sente il vento che muove le fronde, viene richiamato all’oggi, all’idea di tempo, all’idea che tutto scorre, passa. Questa riflessione dolorosa sul  presente gli fa ripercorrere ancora il piacere che ha provato nell’immaginare l’infinito. E’ come se provasse piacere nel dimenticare e lenire i dolori del presente immaginando quello che non è.
Questo carme ci introduce nella grandissima poesia di Leopardi, che approfondiremo nella prossima lezione. Arrivederci.
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