Antologia - 23^ Lezione
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MANZONI: I PROMESSI SPOSI (PRIMA PARTE)
Ventitreesima lezione. Barbara ci aiuterà a completare il ragionamento su Alessandro Manzoni. Siamo arrivati al momento in cui si parla dei “Promessi sposi”, romanzo che ha una gestazione abbastanza complessa. Scrive prima il “Fermo e Lucia”, poi lo rivede negli “Sposi promessi” e infine nei “Promessi sposi”. Pubblicazioni che si muovono tra il 1821 e il 1828. Poi farà la famosa “risciacquata” in Arno dell’edizione del 1842, quando avrà rivisto tutta la forma, eliminando quelli che lui definisce i “lombardismi”, per richiamarsi di più alla lingua toscana.
I “Promessi sposi” nascono dall’idea che ricordavamo l’altra volta, di parlare di una dominazione straniera in Italia nel Seicento. Infatti l’inizio del romanzo, dopo il famoso “Quel ramo del lago di Como…”, dopo la descrizione del paesaggio, nella quale l’autore era straordinario, è questo, in un passaggio più decisivo e significativo…
PROMESSI SPOSI, CAPITOLO I
Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia.
Con ironia, “insegnavano la modestia”, “accarezzavano le spalle”, “alleggerire le fatiche della vendemmia”, si sta parlando degli abusi della dominazione…
Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte(…) Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra…
E così continua. E poi c’è questo ritratto di don Abbondio, uno dei protagonisti del romanzo, per molti il protagonista, un uomo insicuro, timoroso…
BARBARA: Non era un cuor di leone.
Non era un cuor di leone, vaso di coccio in mezzo a tanti altri di ferro, nato in un’epoca non certo adatta a lui, che per sfuggire alle difficoltà di questo periodo, in cui bisognava aggredire e azzannare gli altri per potersi difendere, si era dato alla vita di parroco. Era una sorta di protezione nella quale il povero curato si difendeva dalle violenze della vita. E qui nasce la storia. Incontra questi malintenzionati, i bravi, che trova a una svolta del sentiero. La descrizione è significativa: avevano un grande ciuffo, un grande cinturone, pulitissimo, un vestire esagerato, anche colori accesi e stravolti, tutto era nei canoni dell’esagerazione tipica del barocco del Seicento. Dunque anche la rappresentazione dei bravi corrisponde alla particolare atmosfera del periodo.
In questo, dobbiamo aggiungere, Manzoni è molto preciso. Per ricostruire l’ambientazione barocca, immagina di avere trovato questa storia in un manoscritto del Seicento e premette al romanzo un’introduzione nella quale presenta un passo di questo manoscritto, naturalmente di sua invenzione, perché l’anonimo non è mai esistito, e riporta quanto dice lo stesso anonimo in linguaggio barocco, pieno di metafore; dopo essere andato avanti per una pagina di metafore, interviene lui, l’autore del romanzo, per dire che così seguitava e se lo avesse fatto pubblicare in questi termini nessuno lo avrebbe letto. La sua intenzione, dunque, era di riscriverlo per loro, i lettori. Ma la finzione di cui abbiamo detto serve non solo, attraverso il linguaggio barocco, per ambientare la storia in quel gusto esagerato, ma anche per dare verità a quanto racconta. Spesso l’anonimo gli è utile anche per attribuirgli responsabilità che non vuole siano sue, quando non sa come districarsi in certe situazioni o vuole evitare discussioni su certi fatti.
Don Abbondio viene invitato a non celebrare il matrimonio e interviene poi l’altro personaggio, don Rodrigo. C’è l’ambientazione del palazzo di questo signorotto, un prepotente che si appoggia al potere spagnolo, e la conversazione tra Renzo e il curato. Renzo che va per stabilire la data delle nozze e don Abbondio che gliele rinvia. Poi comincia una serie di progetti per risolvere questo problema. Uno lo fa padre Cristoforo, di andare a parlare con don Rodrigo, e si concluderà in maniera negativa. Un altro lo fa Agnese, la mamma di Lucia, di rivolgersi al dottor Azzeccagarbugli.
Andiamo a vedere questa storia. Renzo va dall’avvocato, che lo accoglie con favore, per i capponi che gli ha portato. Intanto già si nota nel suo studio che c’è tanta polvere, tanto disordine, la poltrona sulla quale riceve i clienti è tutta consumata, la toga è vecchia, i libri sugli scaffali non sono letti da diverso tempo. Un’immagine di disfacimento, che era il disfacimento della legge nel Seicento. Questo avvocato poi si chiama Azzeccagarbugli, un nome che indica bene che fare legge in quel periodo significa azzeccare garbugli, cioè cercare di risolvere cose confuse, imbrogli, o addirittura creare, indovinare l’imbroglio giusto contro gli altri imbrogli. Una situazione nella quale l’inganno governa.
L’avvocato ascolta Renzo che gli parla di impedimento di matrimoni da parte di bravi e immagina che lui sia il bravo che impedisce il matrimonio. Gli snocciola le varie “gride”, leggi bandite in quel tempo, tutte rivolte alla necessità di comprimere questo fenomeno dei bravi, questo banditismo dell’epoca, gride che denunciano, nel loro ripetersi, il fatto che il fenomeno non venga mai eliminato. Poi sono significative per le loro espressioni…
CAPITOLO III
- Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera…
In quegli eccetera ci sono tutti i titoli che portavano questi nobili. Altra caratteristica del Seicento, l’apparenza, il contare per i titoli; infatti ce ne sono tanti e il Manzoni a questo punto non li ripete più. E poi…
- E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
E' il mio caso, - disse Renzo.
- Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l'uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?
- Pare che abbian fatta la grida apposta per me.
- Eh? non è vero? sentite, sentite…
E continua. Quando ha finito di enumerare tutti i casi che vi risparmio, parla del ciuffo che portano i bravi e Renzo…
- In verità, da povero figliuolo, - rispose Renzo, - io non ho mai portato ciuffo in vita mia.
- Non facciam niente, - rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. - Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle.
Quando poi viene a sapere che Renzo veramente non è un bravo, lo caccia. E questo è il primo progetto che fallisce. Come vedete, la legge al servizio dei potenti. L’azzeccagarbugli lo ritroveremo alla tavola di don Rodrigo, quindi poteva mai mettersi contro gente come lui?
Poi padre Cristoforo, dopo essere andato da don Rodrigo, averne ricevuto una risposta da prepotente e averlo minacciato con un dito (verrà il giorno…), cosa che l’altro ricorderà al momento della peste, in punto di morte, come una vendetta divina annunciata e arrivata per un disegno provvidenziale, farà un altro progetto, quello di affidare Lucia alla protezione della monaca di Monza, Gertrude.
Ma prima ancora Renzo porta avanti il suo progetto, quello di far celebrare il matrimonio al di là della volontà del curato, avendo sentito che basta pronunciare la formula di rito davanti al prete e a testimoni perché il sacramento abbia valore. E’ una sottintesa e sotterranea critica dello stesso Manzoni nei confronti di certo formalismo religioso: conta la sostanza, non la forma; non basta che due persone dicano un “sì” davanti a un prete e a testimoni, se quello non sa nulla e se i testimoni sono stati pagati, come accade per Tonio e Gervaso, reclutati con la promessa di una ricompensa.
Per fare questo si introducono di notte da don Abbondio, che sta ricevendo Tonio e Gervaso, andati lì con il pretesto di una questione di danaro con lui. E mentre il curato si gira verso questo stipo dal quale dovrebbe prendere i soldi, tutto custodito da lui, taccagno, insicuro e timoroso, compaiono davanti a lui Renzo e Lucia, cercando di pronunciare la formula, ma il prete capisce la situazione, fa saltare tutto per aria e in questa confusione il progetto fallisce. Ma fallisce anche il contemporaneo progetto di don Rodrigo, di rapire Lucia, perché i bravi vanno a casa di Lucia nella stessa notte in cui i due promessi stanno tentando di attuare il loro. Manzoni come un giallista riesce a combinare una serie di eventi e a gestirli, a raccontarli con grande perizia, curando benissimo i particolari.
E poi si parte con questo episodio, al quale arriviamo finalmente con te, Barbara, di Gertrude. Lucia viene avviata da padre Cristoforo al convento di Monza, dove si trova questa monaca, diventata tale perché ha subito la prepotenza del padre. Manzoni ci ricostruisce con criterio tutta la storia del maggiorascato di questo periodo, per cui il primogenito ereditava tutto e gli altri dovevano arrangiarsi. Chi entrava nella carriera religiosa, chi andava a cercarsi fortuna altrove o si sposava con altri che avessero un buon patrimonio. La figlia femmina, Gertrude, era destinata a diventare madre badessa in un convento. Già da bambina le regalano bambole vestite da suore, tutto cospira in questa direzione e lei non se ne accorge; però, quando diventa adolescente e comincia a sentire la voglia di vivere, accoglie questa idea del convento come un carcere e inizia a ribellarsi. E anche qui nasce una serie di progetti del padre per scardinare questa resistenza della figlia. E’ una violenza psicologica straordinaria, notevole. Utilizza anche un cedimento di Gertrude con un suo paggio, un servo della famiglia con cui si scambia dei biglietti d’amore. Il padre sfrutta il disonore che potrebbe suscitare il mettere la gente a conoscenza della tresca tra sua figlia e il servo e, appellandosi all’orgoglio di Gertrude, riesce a convincerla a dare le risposte giuste al vicario che verrà a interrogarla per costatare la sua effettiva volontà di entrare in convento. Questo passo vi ricostruiamo come puro dialogo: io sono il vicario, Barbara è Gertrude…
CAPITOLO IX
VICARIO: Signorina, io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione.
GERTRUDE: Dica pure.
VICARIO: Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.
GERTRUDE: Mi fo monaca, mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
VICARIO: Da quanto tempo le è nato codesto pensiero?
GERTRUDE: L’ho sempre avuto.
VICARIO: Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
GERTRUDE: Il motivo è di servire a Dio e di fuggire i pericoli del mondo.
VICARIO: Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un'impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l'animo si muta, allora...
GERTRUDE: No, no, la cagione è quella che le ho detto.
Il vicario, quando sente questa risposta, è convinto che Gertrude voglia veramente farsi monaca, ma in realtà la causa è proprio quella di evitare il disonore. E Gertrude comincia a dire dei “sì”. Li dice pensando di potere sempre evitare l’ultimo, quello definitivo. Fino a che lo pronuncerà e diventerà monaca per sempre.
A questa storia Manzoni dedica due capitoli dei “Promessi sposi”, ma nel “Fermo e Lucia” gliene aveva dedicati molti di più, con la vicenda che si sviluppava soprattutto nell’altra parte, quella di Gertrude al convento, quando intreccia una relazione con Egidio. Nel “Fermo e Lucia” l’autore aveva descritto nei particolari questa storia dell’adescamento, degli incontri, ma tutto questo nei “Promessi sposi” viene tolto. Per esempio il punto in cui incomincia la relazione tra Egidio e Gertrude si riduce alla frase che interviene quando un giorno il giovane si affaccia da un finestrino e fa un cenno di saluto: “La sventurata rispose”. Questa espressione fa sottintendere tutto quello che accadrà dopo, che non verrà raccontato come invece, con tutti i particolari, nel “Fermo e Lucia”. E si ricomincia la narrazione dal momento in cui l’altra conversa ha una conversazione con Gertrude e minaccia di dire tutto. Poi appunto si dice che questa conversa non la si vede più e che avrebbero dovuto cercare nel giardino per trovarla. Questo soltanto si riferisce nei “Promessi sposi”, rispetto alla descrizione particolareggiata dell’assassinio della suora che si faceva nella prima stesura. Perché Manzoni ha tolto tanta parte dei capitoli che riguardano Gertrude? Intanto per ridare unità alla narrazione, perché era nato un romanzo nel romanzo. Poi perché, sempre per la sua riservatezza religiosa, non voleva descrivere troppo le passioni, come avevamo detto a proposito della “Lettera sul romanticismo”.
Infatti lo stesso trattamento subiranno altri luoghi del romanzo. C’è un passo del “Fermo e Lucia” in cui si racconta un episodio della vita dell’Innominato, il signorotto che organizza ogni sorta di delitti, al quale don Rodrigo fa portare Lucia dopo averla rapita dal convento di Monza. Ebbene, Manzoni nei “Promessi sposi” non racconta più quel fatto che è all’origine di questa sua storia di banditismo, che si svolge sul sagrato di una chiesa. Infatti nella prima stesura il personaggio si chiamava il Conte del sagrato, proprio per il fatto che, affrontando un suo rivale, lo uccise in quel luogo, cosa che fece scalpore e lo portò poi ad incamminarsi sulla via del male. Manzoni elimina questo riferimento perché ritiene sconveniente parlare di un delitto sul sagrato di una chiesa. A quel punto gli cambia anche il nome, anzi applica un non nome. E’ un personaggio storico, veramente esistito, ma non può e non vuole riferire chi sia. Le notizie storiche Manzoni le ricava non dall’anonimo da lui inventato, ma dai testi del Ripamonti e di altri, sui quali si documenta molto, prima di scrivere il suo romanzo.
C’è una terza differenza tra le due versioni, che riguarda don Rodrigo. Quando nel finale sarà trovato nel Lazzaretto, malato di peste, in punto di morte, secondo il disegno provvidenziale che condanna gli ingiusti e salva i giusti, come Lucia, nei “Promessi sposi” Manzoni lo descrive morente accanto a padre Cristoforo, che può vedere in lui sofferente il segno della sconfitta. Invece nel “Fermo e Lucia” accadeva quello che tu, Barbara, ci leggerai.
FERMO E LUCIA, TOMO IV, CAPITOLO IX
Ritto sul mezzo dell’uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi occhi nei quali si dipingeva ad un punto l’attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due. Quell’infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto tutti quei giorni languente e fuor di sé, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta l’antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale delirio s’era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due. Ma quando essi uscendo dalla via s’internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto. Entratovi anch’egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s’era trovato a quella in cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi ristando stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata nel suo animo una impressione che s’era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia. Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le bisce stessero all’incanto; quando Lucia s’accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso quell’infermo stravolto per soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa. Il frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve corsa, egli s’abbatté presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo, e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un romore si levò all’intorno, un grido di «piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s’inalberava, e scappava vie più verso il tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove Lucia stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell’infelice».
Questo episodio viene tolto nei “Promessi sposi”, perché Manzoni pensa che un don Rodrigo pazzo su un cavallo non sia l’espressione di una sottomissione di un ingiusto da parte di Dio, non funzioni bene in questo senso; sia meglio vederlo prostrato, inerme, assolutamente inoffensivo, steso su un giaciglio nel Lazzaretto, anziché così ribelle ancora, con la vecchia natura che affiora in questo suo aggredire la folla sul cavallo. Vi rinviamo a una conclusione su Manzoni nella prossima lezione. Arrivederci.
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