Antologia - 13^ Lezione
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https://youtu.be/Jw5o0iQhsAg
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- FOSCOLO: LE GRAZIE
- MANZONI: LA FORMAZIONE
Ventunesima lezione, con Barbara. Parliamo oggi ancora di Foscolo, prima di passare a Manzoni. Per quanto riguarda Didimo Chierico, l’ultima volta stavamo riflettendo sul fatto che vivesse la disarmonia del suo tempo e silenziosamente soffrisse, con questo “calore di fiamma lontana”, con questo sentimento un po’ nascosto di ribellione, anche perché gli anni, le esperienze avevano invitato questo personaggio a non indulgere più agli impulsi, agli istinti della natura giovanile e accettare un equilibrio, un momento di decantazione delle sue sofferenze o insofferenze, dei suoi impulsi, dei suoi ideali, in un atteggiamento più sorvegliato, più controllato, una sorta di autodominio raggiunto.
Però in questo riferimento a Didimo Chierico avevamo colto il punto di connessione con l’altra grande opera delle “Grazie”, laddove Foscolo immagina che l’arte, la poesia, la bellezza determinino quell’armonia che consola della disarmonia che l’uomo vive nel suo mondo. Avevamo quindi preparato il passaggio a quest’opera incompiuta. L’aveva scritta in diversi frammenti; poi si è reso conto, negli anni in cui ha tentato di concluderla, che avevano un valore ognuno per sé ed era difficile stabilire tra loro un collegamento. Mentre nei “Sepolcri” gli era riuscita quest’opera di collegamento fra parti staccate, quelle che lui aveva chiamato le idee cardine, che venivano presentate con delle rapide transizioni dall’una all’altra, nel caso delle “Grazie” non è avvenuto.
Le “Grazie” sono ispirate al Foscolo da quel grande scultore che è Antonio Canova, che proprio in quel periodo, nel 1814, in cui cominciò a progettarle stava scolpendo una Venere per l’imperatrice d’Austria, sempre secondo i canoni dell’arte e della scultura dalle forme levigate, terse e pure del neoclassicismo imperante, proprio la rappresentazione dell’armonia. Questo ispira a Foscolo le “Grazie”, con le tre divinità di Venere, Vesta e Pallade raffigurate come coloro che consentono di far dimenticare, attraverso l’arte e la bellezza, le sofferenze, le passioni, gli intrighi, le difficoltà, tutto quello che è disarmonia nella nostra vita. Vi leggo appena alcuni versi del proemio…
LE GRAZIE
Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
Di che il cielo v'adorna, e della gioja
Che vereconde voi date alla terra,
Belle vergini! a voi chieggo l'arcana
Armonïosa melodia pittrice
Della vostra beltà; sì che all'Italia
Afflitta di regali ire straniere
Voli improvviso a rallegrarla il carme.
Questo carme deve rallegrare un’Italia sofferente per la dominazione straniera. Ma vedete che forma usa Foscolo. Non è fluida come quella dei “Sepolcri”…
Nella convalle fra gli aerei poggi
Di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte
Limpido fra le quete ombre di mille
Giovinetti cipressi alle tre Dive
L'ara innalzo, e un fatidico laureto
In cui men verde serpeggia la vite
La protegge di tempio, al vago rito
Vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece
Dono la bella Dea che in riva d'Arno
Sacrasti alle tranquille arti custode;
Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia
La santa immago sua tutta precinse.
Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi,
Nuovo meco darai spirto alle Grazie
Ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io
Pingo e spiro a' fantasmi anima eterna:
Sdegno il verso che suona e che non crea;
Perché Febo mi disse: Io Fidia primo
Ed Apelle guidai con la mia lira.
Si capisce, leggendo questi versi, soprattutto da parte di chi ha più esperienza del disegno della poesia, perché Foscolo poi non ha concluso quest’opera. È’ bellissima l’idea del velo delle Grazie, che rappresentano tutte le arti, tutte le capacità creative dell’uomo, che rendono più deliziosa, più piacevole, più accettabile questa vita, l’idea che senza le arti l’uomo avrebbe soltanto motivi di tragedia, di dolore. Sono queste che lo consolano, sono queste che filtrano la nostra esistenza amara e ci consentono di sopravvivere. E quasi vale la pena vivere la vita solo per questo, cioè per la possibilità di consolarsi attraverso l’arte. Però questa idea è espressa in versi che hanno un meccanismo un po’ inceppato rispetto ai nostri gusti moderni. Ma sentiamo cosa dice di Foscolo Carlo Emilio Gadda, il grandissimo romanziere, che nel 1967 immagina, in una trasmissione radiofonica, sul terzo programma, un dialogo, di cui noi riproduciamo soltanto una piccola parte, i cui personaggi sono l’avvocato Damaso de’ Linguagi, Donna Clorinda Frinelli, donna semplice e incolta, e con loro il professor Manfredo Bodoni Tacchi, classico pedante borioso. Io sarò sia il borioso sia Gadda stesso, cioè Damaso. Lo capirete dal tono che userò, perché l’avvocato è critico nei confronti di Foscolo, e quindi fortemente ironico; appena sentirete un atteggiamento superbo è quello dell’altro. Tu, Barbara, sei la donna. Si comincia da Damaso, alter ego di Gadda…
CARLO EMILIO GADDA: IL GUERRIERO, L’AMAZZONE, LO SPIRITO DELLA POESIA NEL VERSO IMMORTALE DEL FOSCOLO
DE’ LINGUAGI: Nella poesia del Foscolo tutto si riduce a una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica, a un macchinoso ed inutile vocabolario; ad una sequenza d’immagini ritenute greche e marmorine, a un vagheggiamento di donne di marmo in camicia, o preferibilmente senza, da lui dette “vergini”. Mi sa che gli piacessero di quattordici anni: anche se in pratica, a scanso di grane, le sue amanti ultraconiugate ne ebbero un po’ di più…(…)
DONNA CLORINDA: E le britanne vergini?
DE’ LINGUAGI: Per il Foscolo siete tutte vergini, anche quando siete britanne. Era questa anzi la sua specialità. Inneggiare alle vergini e andare a nanna con le maritate.
DONNA CLORINDA(implorante): Avvocato! Non mi costringa ad alzarmi!
DE’ LINGUAGI: No, stia comoda. Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle “Grazie” poi, sono vergini anche i quadrupedi.
DONNA CLORINDA(ridendo): Oh Dio, avvocato! La smetta.
DE’LINGUAGI(imperterrito): Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E le muse. E minerva. Nessuno si salva dalla verginità.
BODONI TACCHI: E’ in errore. E la smetta.
DE’ LINGUAGI: Lui sguazza, lui sogna di sguazzare tutta la vita in un collegio di Pimplee, in un mare di educande che strimpellano non si sa che mandolini o arpe. Lui nuota a rana in quell’oceano, felice, estasiato, con basette elettrizzate, roteando gli occhi: nella certezza di riuscire irresistibile.
BODONI TACCHI: non rechi ingiuria al poeta, alla dolce tristezza del suo verso: non offenda la povertà, la lontananza dalla patria, l’ingegno fervidissimo, l’esilio senza ritorno. Come si può irridere alla memoria di chi ha scritto il sonetto: Né più mai toccherò le sacre sponde/ove il mio corpo fanciulletto giacque,/Zacinto mia, che te specchi nell’onde/del greco mar da cui vergine nacque/Venere…
DE’ LINGUAGI: E dalli! Anche Venere! Sono endecasillabi che fanno ridere i polli! Le sacre sponde, il greco mare, Teresa mia e Venere che è nata vergine; come me: come tutti! Ma vada al diavolo!
DONNA CLORINDA: Chi?
DE’ LINGUAGI: Il grecista! Il figlio della Diamantina! Il basetta! (balbettando nell’ira) Lui e la sua Ve-venere ve-vergine!
Perché alla fine il nostro Gadda immagina anche che questo avvocato che lo rappresenta cominci a balbettare, tanto è emozionato in maniera negativa. Ma perché quest’acredine nei confronti di Foscolo da parte di Gadda? Perché lo ha visto imbelle, rinunciatario, rassegnato. Ha dimenticato il Foscolo giovanile, che lotta per la patria. O forse questo lottare per la patria è un obiettivo sbagliato rispetto a un marxista che invece crede che non sia nella nazione il problema, ma nell’umanità? Il mito dell’internazionale non riesce ad accettare scrittori che abbiano scritto per l’ideale di patria. Sarà questo il motivo. C’è un’altra posizione, quella di Andrea Zanzotto…
ANDREA ZANZOTTO, OMAGGIO AL POETA, IN “ATTI DEI CONVEGNI FOSCOLIANI”
Quando noi ci troviamo di fronte alla creatività di Foscolo nei modelli fondamentali in cui egli ce l’ha offerta, e in lingua italiana; quando poi egli parla della sua – nostra – italianità, sentiamo nel suo discorso aprirsi numerosissime faglie. Più egli cerca il fantasma dell’uno – dell’Italia-unità – e anche della sua lingua – poesia come unità, più egli sembra costretto ad allontanarsene. Ma è questo che rende Foscolo assolutamente attuale. Si pensi al punto massimo della sua espressione, ai “Sepolcri”, di cui nessuno riesce a vincere il fascino una volta che sia entrato nel vortice di tanto “estro armonico”. (…)
Sembra che egli ci renda una tremenda testimonianza di ambiguità perfino nella scelta di questo titolo, per quanto anch’esso allineato ad una tradizione. La patria – il padre – i padri – certo vivono nell’eredità di affetti preconizzata; ma sona anche polvere, teschio, stele funebre che rischia in ogni momento di restare illeggibile. L’identità (incerta) gravitante sul recupero “da” una perdita, e quindi su un mancamento, si addice a paesi i quali non possono sentirsi patrie o nazioni se non “rispecchiandosi” in un enigma: il passato. E questo doveva essere particolarmente vero per i Greci e per gli Italiani (…)
E’ proprio il tema ossessivo del Risorgimento e del Rinascimento, l’assunzione del confronto coi Padri e con i grandi Istituti del passato, ciò che pesa soprattutto sull’Italia e che fa dell’Italia qualcosa di meno e qualcosa di più di una nazione: resta il sentimento di un coacervo da una parte, e una specie di idea che sfuma sempre più in contorni vaghi e universaleggianti dall’altra. In quest’area doveva comunque strutturarsi la nuova Italia, con tutte le oscillazioni, le esitazioni, i “refoulements” inevitabili in ciò che per rinascere deve sobbarcarsi uno schiacciante peso di memoria.
In fondo indirettamente Zanzotto ci spiega la ragione di certi giudizi negativi nei confronti di Foscolo, che sarebbe stato troppo genericamente risalente a temi del passato nel suo nazionalismo, nella sua difesa della necessità di creare una nazione, che lo allontanerebbe dal contemporaneo e giustificherebbe ogni analisi negativa.
Lo stesso destino ha subito il nostro Alessandro Manzoni, al quale dedicheremo la seconda parte di questa lezione di oggi. Cominceremo a trattare il grande monumento nazionale che è Manzoni, che più di Foscolo ha subito questo allontanamento. Pensate che Umberto Eco ha detto di Manzoni che è il più odiato fra gli autori forse perché è il più studiato nella scuola. Lui non è andato oltre, ma forse si sottintende a questo che il danno glielo hanno fatto gli insegnanti. Cioè più si studia a scuola una cosa e meno la si ama. Questo quando accade? Quando gli insegnanti sbagliano e ci fanno odiare anziché apprezzare gli autori. Però un po’ di suo ci mette anche Manzoni, perché ce l’ha qualche difettuccio, qualche limite, no?
BARBARA: Sì, qualche difettuccio ce l’ha.
Specie nei “Promessi sposi”, con questo fatto che i sentimenti non si esprimono mai. Questa Lucia che non dà mai nemmeno un bacetto a Renzo, questa prudenza che non so se definire cristiana o cattolica o giansenista, di Manzoni, lo spiegheremo tra poco, allontana il lettore. Però non si può dimenticare la grandezza delle sue riflessioni, che appunto un docente dovrebbe riuscire a far apprezzare agli studenti. Forse l’altro danno è quello di far leggere a tutti i costi i “Promessi sposi” nel biennio, quando si potrebbe cominciare a leggere anche altri autori italiani, uscire fuori da questa tradizione così dominante e anche condizionante.
Manzoni sappiamo tutti che è nato da Giulia Beccaria, a sua volta figlia di Cesare Beccaria, il grande autore dell’opera…
BARBARA: “Dei delitti e delle pene”
…illuminista milanese tra gli intellettuali del Caffè. Il padre ufficialmente era Pietro Manzoni, ma è ormai acclarato che era uno dei fratelli Verri, Giovanni, fratello di Alessandro, il fondatore del Caffè. E nascendo il povero Alessandro da questa relazione adulterina, dovette vivere poi tutti i traumi di una famiglia separata. Fu allontanato e tenuto presso una zia e poi in collegio, dei Padri Somaschi e dei Padri Barnabiti. E lì gli fu istillata un’educazione religiosa di quelle tradizionali e violentemente autoritarie, per cui uscì fuori da questa esperienza completamente ateo. Avviene per Manzoni quello che prima dicevamo per la scuola.
Nel frattempo la madre intreccia un’altra relazione, con Carlo Imbonati, che vive con lei a Parigi, dove Manzoni raggiunge sua madre, a vent’anni, nel 1805, quando è appena morto Carlo Imbonati, che nel frattempo la madre, in un rapporto epistolare, gli ha fatto amare al punto che Alessandro lo considera quasi un padre; e ne parla benissimo nel carme “In morte di Carlo Imbonati”. Sente la necessità di dedicargli, a ventuno anni, quest’opera, in cui dice che è stato il suo maestro di vita, che gli ha insegnato ad apprezzare il vero, la virtù e la storia, che diventeranno i fulcri della sua esperienza di narratore e poeta. In quegli anni a Parigi frequenta i circoli, i salotti nei quali Giulia Beccaria, dinamica, di grandissima personalità (per questo non andava d’accordo con Pietro Manzoni) è protagonista e lì conosce i tanti eredi delle rivoluzione francese e soprattutto Claude Fauriel, uno storico che gli trasfonderà altro amore per la storia.
Poco dopo, nel 1808, è il momento del matrimonio. Giulia Beccaria è una madre molto invadente, decide anche il matrimonio con Enrichetta Blondel. Alessandro, che è assolutamente dedito alla madre, sceglie, crede di scegliere, si fa scegliere come sposa Enrichetta, che però è calvinista. E allora si chiamano due padri giansenisti che vengono a convertire Enrichetta, con letture dei vangeli e dei testi di riferimento della Chiesa cattolica, per espungere da lei la fede calvinista. Manzoni si trova così ad ascoltare le conversazioni con i due giansenisti, Luigi Tosi ed Eustachio Degola, e finisce per scoprire, quando non aveva l’intenzione in fondo di venir fuori dal suo ateismo, che il vangelo contiene quelle idee che sono già nella rivoluzione francese, di uguaglianza fra tutti gli uomini, di fondamentale libertà e di fratellanza. Scopre che il vangelo è, ante litteram, l’incarnazione di quanto poi avevano predicato in buona parte i rivoluzionari e trova un punto di incontro fra le tesi illuministe francesi e questa religione.
Chiaramente è un fatto abbastanza strano, perché sappiamo che l’illuminismo era ateo, o deista al più. Manzoni trova questo punto d’incontro e si dedica alla religione. E’ la famosa Conversione, non soltanto superficialmente religiosa (anche se l’avverbio in questione non sembra adeguato al sostantivo), ma anche culturale, è una profonda rivisitazione del suo essere, per cui tutto quello che aveva finora posto a base della sua riflessione lo ridetermina, lo riassimila e lo rielabora in funzione cattolica.
Entra in questo mondo con le “Osservazioni sulla morale cattolica”, in cui difende la Chiesa cattolica dalle accuse del Sismondi, uno storico che aveva sostenuto che il male del mondo e dell’Italia era la Chiesa con la sua morale. In fondo Manzoni fraintende, o vuole fraintendere: Sismondi se l’era presa con la Chiesa e non con la morale che veniva fuori dai testi evangelici. Manzoni finge di non aver capito o comunque coglie il pretesto per poter fare la sua riflessione sulla morale cattolica e dire che nella storia essa non ha avuto peso e per questo motivo gli avvenimenti sono andati contro le ragioni del genere umano. I crudeli si sono imposti sui pietosi, i violenti sui rispettosi dell’altro. E conclude queste sue Osservazioni affermando che se la morale cattolica si fosse veramente affermata nel mondo e nella storia ci sarebbero state meno ingiustizie, meno violenze, meno difficoltà, anche per la stessa nazione italiana. Quindi non si poteva addebitare alla Chiesa i guai dell’Italia, ma più al fatto che non si fosse diffuso pienamente un sentimento cristiano e cattolico.
Da lì parte per la grande stagione degli “Inni sacri”, dei quali non parleremo, almeno per ora, per ragioni di tempo. Invece vi voglio portare alle prime posizioni romantiche di Manzoni e alle sue tragedie. Qui abbiamo pronto il contenuto della “Lettera sul romanticismo”, del 1823. Facciamo leggere Barbara…
ALESSANDRO MANZONI, LETTERA SUL ROMANTICISMO
Omettendo quindi i precetti o i consigli positivi proposti per casi particolari e con applicazione immediata (…) mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possono ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico. Il principio di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata da rapporti reali, a preferenza degli argomenti, pei quali una classe sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente. E che in ogni argomento debba cercare di scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello: giacché e nell’uno e nell’altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero: è quindi temporario e accidentale. Il diletto mentale non è prodotto che dall’assentimento ad una idea, l’interesse, dalla speranza di trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo: ora quando un nuovo e vivo lume ci fa scoprire in quell’idea il falso e quindi l’impossibilità che l’idea vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l’interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere.
Quindi Manzoni dice che il bello sta nel vero, e tanto più si rispetta il vero tanto più si diletta il lettore, perché questo vero il lettore lo sente intimamente vicino a se stesso. E per questo motivo ha detto all’inizio che questo riconosce come elemento positivo nel romanticismo, cioè il riferirsi alla realtà del proprio tempo; come del romanticismo accetta la lotta contro ciò che non ci appartiene, quindi contro la mitologia, in nome della libertà di ispirazione dell’autore. E ne condivide anche il rifiuto delle regole. Interviene così nella polemica tra classici e romantici, sostenendo le ragioni dei secondi, per quello che vi ho appena detto, però rifiutandone solo un aspetto, che qui non è ancora evidente ma lo sarà in altri scritti, cioè l’eccessivo sentimentalismo, un esagerato indulgere alla descrizione delle passioni, che il cattolico Manzoni un po’ diventato bigotto, di cui parlavamo all’inizio, non accetta come argomento morale nella sua opera. Ma di questo e altro dovremo parlare nella prossima lezione. Arrivederci.
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