Antologia - 20^ Lezione
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FOSCOLO: I SEPOLCRI, DIDIMO CHIERICO
Siamo giunti alla ventesima lezione di questo secondo anno dedicato, con Antologia, alle pagine migliori delle letteratura italiana. Con me Barbara. Ci eravamo lasciati con i Sonetti e l’Ortis di Foscolo. Oggi tratteremo i “Sepolcri”. Foscolo li scrive in occasione della promulgazione dell’editto di Saint Cloud, che valeva per la Francia, ma anche per l’Italia, Milano in particolare. C’è una discussione in casa di Isabella Teotochi Abrizzi, una delle donne frequentate da Foscolo, presente anche Ippolito Pindemonte, che si era scagliato contro questa legge che imponeva di seppellire fuori della città di Milano e addirittura non contrassegnare più le tombe. Questo per ragioni di igiene e anche per un motivo sociale, di egualitarismo, che proveniva dai dettami della rivoluzione francese. Foscolo, imbevuto di quelle idee e napoleonico, in un primo momento aveva sostenuto le tesi di Saint Cloud contro Pindemonte. Poi ci ripensa e tra le altre cose scrive una lettera alla Albrizzi, presentando questo carme “Dei Sepolcri”, dedicato proprio a Ippolito Pindemonte. Praticamente si pente della posizione dura che ha assunto nei confronti di Ippolito, che descrive come personaggio triste. La discussione, con il suo ripensamento, gli ha dato l’opportunità di parlare dell’importanza della tomba, perché, al di là della posizione materialista che ha sempre assunto, per cui non vede nulla oltre la nostra vita, immagina però che noi continuiamo a vivere in qualche modo nel ricordo dei nostri cari. Entriamo appunto nella lettura dei “Sepolcri”, a partire dalla cosiddetta premessa materialista. C’è prima una dicitura in latino: “Deorum manium iura sancta sunto”, cioè “Siano santi i diritti degli dèi dei morti”. Dopo la citazione, i versi:
I SEPOLCRI
All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò piú il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né piú nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Questi sono i primi ventidue versi, che esaltarono Attilio Momigliano. Li spiego intanto. La prima domanda è retorica. Può mai essere diverso il destino, dopo morti, se ci sarà una tomba che ci accoglierà quando non avremo più davanti un futuro, quando non avrà più un senso per noi la vita? La risposta sarebbe “no”…
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ecco la verità, o Pindemonte, la nostra realtà finisce con la nostra vita. Una dimenticanza totale avvolge tutto dopo la nostra morte e tutto viene travestito dal tempo, anche i nostri resti. Ebbene, di questi primi versi Momigliano dava questo giudizio:
Le immagini che esprimono questi sentimenti hanno la compiutezza, la rapidità, i contorni sfumati delle visioni: si succedono l'una all'altra con il ritmo mutevole, facile, morbido dell'onda che tien dietro all'onda. Avete appena veduto un angolo muto di cimitero, che vi si allarga dinanzi lo spettacolo del sole sotto cui la terra vive e germoglia; e subito il verso trapassa alle ore fantastiche del poeta, e la visione colorita della terra formicolante d'erbe e d'animali si attenua nei veli del sogno («E quando vaghe di lusinghe innanzi - A me non danzeran l'ore future»). E di nuovo il pensiero rifluisce verso la fine, e quelle che prima erano tombe solinghe adombrate di cipressi, diventano la vista sconfinata dell'opera incessante della morte e dell'eterne trasformazioni dell'universo. Questo in ventidue endecasillabi, dove la luce e le tenebre, la desolazione della fine, e il fascino della vita si alternano con una potenza e una morbidezza di passaggi e di chiaroscuri che fanno della poesia del Foscolo un motivo inesauribile di meditazione critica. Il resto del carme mantiene in misura diversa il ritmo grandioso e mutevole di questa breve ed immensa sinfonia della vita e della morte.
Descrive come “sinfonia della vita e della morte” questa poesia di Foscolo. E più avanti dice l’autore: ma perché comunque prima del tempo, anche se è vero che niente c’è dopo la nostra morte, dobbiamo toglierci l’illusione di continuare a vivere nell’affetto dei nostri cari? E aggiunge:
Sol chi non lascia eredità d'affetti
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d'lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Solo chi si è comportato male e non lascia un’eredità sentimentale d’affetti può temere la morte, cioè può temere di essere oltraggiato dopo morto; ma chi invece si è comportato bene vorrebbe essere ricordato. E non c’è una tomba che segnali la sua presenza e che lo distingua da altri! E infatti più avanti, laddove parla di Parini, immagina che i suoi resti siano confusi con quelli di un ladro, che ha lasciato sul patibolo la sua vita, e immagina, in un quadro di poesia sepolcrale che richiama anche le idee e gli interessi del suo stesso amico Ippolito Pindemonte, che aveva scritto un poema sui “Cimiteri”, che le ossa del ladro si mescolino con quelle del Parini e che vengano oltraggiate dai cani randagi che si aggirano fra le tombe. Dopo aver detto questo, per affermare appunto che non si deve arrivare a questa commistione, cosa che con l’editto di Saint Cloud avverrebbe, passa a questa parte che è importante, che è vichiana…
Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Dal momento in cui l’uomo è diventato civile, ha pensato subito a togliere alle intemperie i resti degli estinti, con un atteggiamento di pietà…
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli; e uscían quindi i responsi
de' domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
Quindi la tomba diveniva segno di civiltà e punto di riferimento per le cerimonie religiose, per i matrimoni, per lo stesso esercizio della giustizia, perché si giurava sui quei morti e si temeva il giuramento fatto in quelle circostanze…
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d'anni.
Un’abitudine che si è tramandata per un lungo periodo. Poi passa in rassegna i diversi culti dei morti nei secoli. Prima ci rappresenta un tipo di culto nel medioevo, quando i morti venivano sepolti sotto i pavimenti delle chiese, per dire che questo non è l’ideale. Immagina addirittura che le donne si sveglino per consolare i loro nati che temono la morte, perché in quel tempo alla morte si associa soltanto la distruzione. E descrive anche nelle chiese il mescolarsi della puzza dei cadaveri con il profumo dell’incenso. Per dire che non sempre questo è stato il culto che si è affermato. Invece nel passato, entrando nell’atmosfera classica, della Grecia antica…
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell'uom cercan morendo
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Allude al fatto che nell’antica Grecia, all’ombra dei cipressi, nelle tombe, ci fossero delle lanterne che volessero simboleggiare il fatto che si voleva rapire un poco di sole, un poco di luce, e lasciarlo in vicinanza del morto, perché quando moriamo l’ultimo desiderio è quello di continuare ad avere la luce…
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vïole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d'aura de' beati Elisi.
Era come stare in Paradiso, come stare in un campo beato, sedendo vicino ai morti nei cimiteri classici…
Pietosa insania che fa cari gli orti
de' suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
che tronca fe' la trïonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Vedete come è passato all’improvviso dall’epoca classica a quella moderna. E’ una delle tipiche transizioni dell’opera di Foscolo, rapidi passaggi pindarici (perché Pindaro nell’antica Grecia faceva le stesse operazioni). Si è trasferito in un altro luogo, dalla Grecia all’Inghilterra, e in un altro tempo, più vicino a lui, quando nei cimiteri suburbani, quelli della periferia urbana, le donne inglesi possono andare a piangere i loro cari, ma soprattutto l’eroe della patria, cioè l’ammiraglio Orazio Nelson, che ha appena lasciato in mare, nella battaglia di Trafalgar, la vita per la sua nazione. E poi conclude…
Ma ove dorme il furor d'inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l'opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell'Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
E continua, riferendo il fatto che sì, ci possiamo preoccupare del culto dei morti, ma in Italia, dove dorme lo spirito civile che ha appena rappresentato nelle donne inglesi, che senso ha parlare di tombe, di ricordo dei morti, degli eroi? Vi ricordo quello che abbiamo detto anche a proposito dell’Ortis, che la cosa che più lamentava Foscolo era di essere circondato da gente che non avesse i suoi stessi ideali. E per spronare a questi ideali un popolo inerme ci presenta la parte più famosa dei “Sepolcri”, quella che conoscono di più tutti…
A egregie cose il forte animo accendono
l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l'arca di colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
sotto l'etereo padiglion rotarsi
piú mondi, e il Sole irradïarli immoto,
onde all'Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmamento:
- Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Appennino!
Qui si riferisce alle tombe di Santa Croce in Firenze. Le urne dei forti, le tombe degli eroi spingono i contemporanei o quelli che sono vissuti dopo a egregie cose: cioè ci si può andare a ispirare presso le tombe dei grandi per le nobili imprese. E cita Michelangelo, Galileo e Machiavelli, descritti come colui che alzò un nuovo Olimpo ai celesti in Roma, cioè l’autore del “Giudizio universale” e delle “Storie della genesi” nella cappella sistina, colui che ha visto muoversi i pianeti del sistema solare e il sole illuminarli fermo, che cioè ha reso giustizia alla tesi copernicana del sistema eliocentrico, e l’altro che ha insegnato ai regnanti a governare, sfrondando però il potere dagli allori, cioè facendo capire quante lacrime e quanto sangue costi questo esercizio del potere, quanta violenza sia necessaria per fare politica. E poi continua presentando la città di Firenze come lieta per aver dato i natali sia a Dante che ai genitori di Petrarca, quello che lui chiama il “dolce di Calliope labbro”. E immagina infine che…
(…) E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo
desïoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Immagina dunque che Vittorio Alfieri venga alle tombe di Santa Croce a interrogare, a parlare con questi morti e a discutere con loro il fatto che nell’Italia del suo tempo nessuno si muova per imprese eroiche e per la creazione dell’indipendenza dagli stranieri, adirato contro il destino perché nulla si fa per la libertà. Insieme con Parini, ora anche Alfieri è idealmente presente nelle tombe di Santa Croce con altri grandi che potrebbero aver fatto l’Italia…
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religïosa pace un Nume parla:
e nutria contro a' Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la virtú greca e l'ira.
Ecco un’altra transizione molto rapida: un nume sembra parlare da questi morti in Santa Croce e quello stesso nume parlava, come messaggio dei morti di Maratona, al popolo ateniese. Si sposta di nuovo da Firenze alla Grecia, da dove era partito prima per spostarsi in Inghilterra, e ripensa a un altro tempo passato, alla battaglia di Maratona, quando gli ateniesi si difendono dall’invasione straniera e gli eroi di quell’impresa, i morti nella piana di Maratona, diventano presenze misteriose, che chi passa da quelle parti…
(…) Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d'armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Immagina che chi si trova nei decenni, nei secoli successivi, a passare per quel tratto di mare tra l’isola di Eubea e la costa di Maratona è come se vedesse ancora agitarsi i fantasmi di guerrieri che continuano a combattere per la libertà. E quello che si sente è soltanto il pianto dei moribondi e il canto delle Parche, della morte, e gli inni di guerra. E poi, nell’ultima parte, da questo spunto greco non si muoverà più, parlerà delle armi di Achille che ritornano alla tomba di Aiace, come a voler dire che il destino anche dopo anni stabilisce il giusto, e infine passerà all’antica Troia, ai morti, i grandi di Ilio sconvolta, distrutta, che poi avrebbe ispirato il grande poema omerico dell’Iliade. E immagina, ci ripropone Cassandra, le donne troiane che hanno perso i loro cari, che finiranno schiave come quell’Andromaca di cui abbiamo già parlato. Si dovrà tornare qui, a Troia, per avere riferimento al sacrificio che è alla base delle sventure e delle umiliazioni delle donne e dei bambini troiani, quando saranno stati strappati dalla loro terra e portati in Grecia. Dice Andromaca…
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
e interrogarle.
Questo vecchio cieco che si presenterà lì ad interrogare le tombe sarà naturalmente il grande poeta Omero…
Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
Omero ascolterà questi morti e dal loro racconto ricaverà quello che poi narrerà nell’Iliade. E vedete che non parlerà solo degli eroi troiani ma anche di coloro che li hanno sconfitti, gli Argivi, i Greci. Quindi la storia raccontata dai morti troiani serve a glorificare con loro anche i vincitori…
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
Questo è il bellissimo epilogo del carme. Tu, Ettore, avrai onore e pianto, laddove sarà pianto il sacrificio per la patria. Naturalmente questo “se” è riferito all’Italia, all’idea che in Italia non sia pianto il sacrificio per la patria, perché da noi Foscolo l’amore per la patria, come Alfieri, non lo vede. E poi la conclusione generale: finché il sole splenderà sulle sciagure umane. Finché ci sarà vita per l’umanità Ettore sarà ricordato per il suo sacrificio. E’ il tema della poesia eternatrice, consolatrice, rappresentata in Omero, ma anche in quest’ultimo verso. Finché il sole risplenderà sulle sventure umane sarà ricordato il sacrificio degli uomini giusti, attraverso testimonianze come questa dello stesso autore, cioè con la poesia.
Foscolo alcuni anni dopo immagina un tizio che ha tradotto il “Viaggio sentimentale” di Lorence Sterne, di nome Didimo Chierico, da lui inventato. Vediamo cosa ci dice di questo Didimo. Leggi, Barbara…
NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO
Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l'uomo s'attacca all'altro, l'aveva già data a quei pochi ch'erano giunti innanzi. — Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m'accorsi mai ch'egli avesse fiducia nei giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi molto obbligato a un Don Jacopo Annoni, curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d'Inverigo; e stando fuori di patria, carteggiava unicamente con esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse alloramai intorno a' trent'anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo, tuttoché forestiero, non era guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciola a discorrere seco, e molti fantolini, de' quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava assai; ma più con gli occhiali, diceva egli, che col telescopio:
Ecco, più con gli occhiali che con il telescopio. Cercava di guardare quello che era vicino a lui, meravigliarsi, ma non fare grandi castelli, grandi progetti. Aveva perso la capacità progettuale. Non vedeva col cannocchiale quello che era lontano, ma proprio per quello che ha detto prima: ha ancora i sentimenti di quando era giovane, però quei sentimenti sono come calore di fiamma lontana, una fiamma che scalda ma non brucia più. E’ deluso dalla vita Didimo, non crede in grandi possibilità di trasformare questa società, che pure lui non condivide, perché la vita gli ha insegnato che i suoi sforzi sono inutili. Continuiamo…
e disprezzava con taciturnità sì sdegnosa, da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva per altro il consenso di non patire d'invidia, la quale, in chi ammira e disprezza, non trova mai luogo. E' diceva: — La rabbia e il disprezzo sono due grandi estremi dell'ira: le forti disprezzano: ma tristo e beato chi non s'adira. —
Ecco, disprezzava ma in silenzio, per cui gli uomini dotti lo rimproveravano di questo suo non reagire, ma in realtà lui non lo faceva perché era rassegnato alla insipienza, all’incapacità, all’insensibilità, all’assurda coltivazione dei propri interessi della borghesia che lo circondava. Non dimentichiamolo questo, Didimo rappresenta Foscolo stesso, anche se lo presenta con una sorta di filtro: io conobbi Didimo. Quando ci dice “conobbi Didimo” e poi ce lo descrive, è come se creasse ad arte un guardarsi allo specchio.
Non tutti colgono il senso di queste espressioni. Lui parla di due estremi, la rabbia e il disprezzo. E parla di ira. Sembra che ira e rabbia siano la stessa cosa, ma l’ira si colloca al centro di questi due estremi. Cioè chi prova rabbia e la esprime, chi prova disprezzo e lo esprime, Didimo non lo considera un suo simile, perché lui si è abituato a non arrabbiarsi e a non disprezzare, cioè a non esprimere quell’ira che ha. L’ira giusta chi non la conserva? L’ira è l’ostilità nei confronti di questo mondo che non funziona. Questo dobbiamo ricordarlo bene a quei critici di cui parleremo più in là, che hanno disprezzato Foscolo perché l’hanno considerato un qualunquista, cioè uno che induce, se si guarda alla superficie di quanto appena detto a proposito di Didimo, alla rassegnazione, la stessa che viene rimproverata a Manzoni.
Non è così. Foscolo considera bene e ha presente la giusta ira che bisogna avere nei confronti di un mondo che non funziona, attraversato soltanto dagli interessi…
Insomma, pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall'indole sua naturale, s'accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini; però non era orgoglioso, né umile. Pareva verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso; perciò parea libero. Quanto all'ingegno, non credo che la natura l'avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l'aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende.
Didimo non era uno che ricalcava le opere degli altri, non era un imitatore, e quindi le sue opere avevano sempre quella rudezza, quella spontaneità che derivavano dall’essere originali. E questo approccio così brutale alle cose poteva anche offendere…
Quindi derivava in esso per avventura quell'esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole.
Anche questo: a Didimo Foscolo attribuisce un concetto attualissimo: il rifiuto di certa scuola, qui intesa come tutti i tipi di organizzazione del sapere, ma anche sostanzialmente proprio la scuola del suo tempo. Foscolo, come Alfieri, era contro rigidità, regole, compromessi che allontanavano dal vero sapere, dal vero rapporto con la cultura, certi filtri sbagliati che vivevano e vivono ancora oggi nella scuola…
Inoltre, sembravami ch'egli sentisse non so qual dissonanza nell'armonia delle cose del mondo: non però lo diceva.
Didimo non parla, però sembra che senta la disarmonia che è nel mondo, quella cosa che non ci convince, la realtà in cui viviamo. E per contrappeso Foscolo immagina, poco dopo questa presentazione di Didimo, nelle “Grazie”, la presentazione di quell’armonia che invece viene dall’arte, dalla bellezza, dalla poesia, che rintraccia nelle sculture di Canova, nella quale si spegne un poco la disarmonia che l’uomo vive nel suo tempo. Di Foscolo diremo ancora nella prossima lezione. Arrivederci.
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