https://youtu.be/5jT3ZT4uRy4
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GOETHE: FAUST
CUOCO: SAGGIO SULLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA, PLATONE IN ITALIA
Sedicesima lezione. Accanto a me Barbara. Avevamo lasciato il ragionamento l’ultima volta con “I dolori del giovane Werther”, opera scritta a 25 anni, che con il “Wilhelm Meister”, di dieci anni dopo, ha fatto di Goethe un mito per quelle generazioni.
Dal “Faust” ora prendiamo il passo del famoso patto con Mefistofele. Il tema generale, ve lo ricordo, è quello della ricerca della felicità. Faust è uno scienziato che nella sua vita non riesce a trovare soddisfazione, non perché cerchi dei piaceri effimeri, ma perché sente la precarietà di quello che conquista, la precarietà anche delle conquiste mentali. Niente è definitivo, niente è completamente controllabile, è questo che lo tormenta.
Quindi, al di là delle banali conclusioni sul vendere l’anima al diavolo per poter ottenere la felicità, si deve ricordare sempre che dietro questa storia, almeno per Goethe, c’è un fatto molto più profondo. Sappiamo che questa vicenda di Faust è stata trattata già nei secoli precedenti, dalla novella di Belfagor nel Cinquecento a Marlowe. Ma se sono partite con un aspetto superficiale, queste tematiche raggiungono il loro vertice nella ricostruzione che ne fa Goethe. Entriamo, come sempre, direttamente nel testo. Prenderemo due momenti separati. Cominciamo da questo…
BARBARA: Io sono Faust
E io sono Mefistofele, brava…
JOHANN WOLFGANG GOETHE, FAUST
FAUST
Bussano? Avanti! Chi mi affligge di nuovo?
MEFISTOFELE
Sono io.
FAUST
Avanti!
MEFISTOFELE
Devi dirlo tre volte.
FAUST
Avanti, dunque!
MEFISTOFELE
Così mi piaci.
Noi due, mi auguro, ci accorderemo!
Perché, a scacciarti le malinconie,
eccomi qua nei panni di nobile cadetto:
abito rosso, ricami d'oro,
corta mantella di seta dura,
penna di gallo sul cappello,
lungo fioretto acuminato.
E ti consiglio, senza più ambagi:
indossa subito lo stesso abito,
così potrai sperimentare
leggero e libero cos'è la vita.
FAUST
In ogni abito sentirò il tormento
di questa angusta vita terrestre.
Io sono troppo vecchio per giocare,
troppo giovane per non desiderare.
Il mondo che cosa mi può offrire?
Rinunciare tu devi! rinunciare!
Questo è l'eterno ritornello
che risuona all'orecchio di ciascuno,
che ogni ora per tutta la vita
ci ricanta con voce roca.
Al mattino mi sveglio con orrore,
vorrei piangere lacrime amare
vedendo il giorno che nel suo cammino
non un mio voto appagherà, non uno,
che svuoterà con critiche ostinate
anche il presentimento del piacere
e con le mille inezie della vita
vieterà di creare al mio animo inquieto.
Quando cala la notte con angoscia
io debbo coricarmi sul giaciglio;
neppure su di esso trovo pace,
spaventato da incubi crudeli.
Il dio che mi abita nel petto
può commuovere il fondo del mio animo;
egli regna su tutte le mie forze,
e non può muover nulla al di fuori di me.
Io sento l'esistenza come un peso,
desidero la morte, odio la vita.
MEFISTOFELE
E tuttavia la morte non è mai benvenuta.
Dopo continueranno a discutere. Come avete visto, c’è qui il tema della libertà dalle regole. Mefistofele consiglia a Faust di uscire fuori dalle costrizioni della vita che rendono infelici. Quindi c’è già in Goethe stesso la visione quasi positiva del malefico e del diavolo, in contrasto con il nuovo cristianesimo dell’epoca romantica. Ma andiamo comunque a vedere il momento del patto…
MEFISTOFELE
Io m'impegno a servirti quaggiù,
pronto al tuo cenno, senza soste e indugi;
di là poi, quando ci ritroveremo,
dovrai fare per me la stessa cosa.
FAUST
Dell'al di là poco mi può importare;
manda prima in frantumi questo mondo,
e poi che l'altro mondo venga pure.
Da questa terra sgorgano le mie gioie,
questo sole rischiara le mie pene;
che io me ne separi prima, e poi
avvenga quel che vuole e quel che può.
Non voglio più sentirne parola né sapere
se nel mondo a venire si odia e si ama ancora,
né se anche in quelle sfere
ci saranno un alto e un basso.
MEFISTOFELE
Se la pensi così puoi arrischiarti.
Impegnati, e nei giorni del presente
assisterai con gioia alle mie arti;
quel che io ti darò nessuno l'ha mai visto.
FAUST
E che vuoi dare tu, povero diavolo?
Lo spirito dell'uomo nel suo tendere all'alto
i pari tuoi lo hanno mai compreso?
Possiedi forse un cibo che non sazi,
un oro fulvo che non stia mai fermo,
ma come argento vivo ti scorra via di mano,
un gioco al quale non si vinca mai,
una ragazza che stretta al mio petto
con gli occhi già si vincoli ad un altro,
e il bel trastullo degli dèi, l'onore,
che si dilegua come una meteora?
Mostrami il frutto sfatto prima di essere colto,
e alberi che ogni giorno rinverdiscano!
MEFISTOFELE
È un compito che non mi fa paura
posso servirteli tesori come questi.
Ma poi, mio buon amico, arriva anche il momento
di assaporare in pace dei buoni bocconcini.
FAUST
Se mai mi adagerò su un pigro letto in pace,
venga immediatamente la mia ora!
Se con lusinghe potrai tanto ingannarmi
che io mi compiaccia di me stesso,
se con il godimento ti riuscirà d'illudermi,
quello sia per me l'ultimo giorno!
Questa scommessa t'offro!
MEFISTOFELE
Accetto!
FAUST
Qua la mano!
Se dirò all'attimo:
Sei così bello, fermati!
allora tu potrai mettermi in ceppi,
allora sarò contento di morire!
Allora suoni la campana a morto,
allora non dovrai servire più;
l'orologio si fermi, la lancetta cada,
e sia passato il tempo che mi è dato!
Infatti questo accadrà. Veramente poi c’è un finale sul quale Goethe lavora molto. Infatti “Faust” è stata una gestazione lunga, che ha attraversato tutta la vita dell’autore. Il finale più accreditato da Goethe è che Faust salvi la sua anima, anche per intercessione di quel regno dei cieli che non può lasciar vincere il diavolo.
E’ il dissidio continuo tra ragione e istinto, che l’autore risolve forse a suo modo a favore della ragione, e dico forse perché in lui c’era un fortissimo contrasto. Certamente è un Goethe più maturo, se ripensiamo al “Werther”, che voleva uscir fuori dalle regole, quando vedeva queste persone troppo razionali come grette, incapaci di sogni, incapaci di agire. Non ha abbandonato completamente quell’atteggiamento, ma lo ha raffinato, impreziosito in una sorta di filtro che soltanto l’età può portare.
Herman Hesse, il grandissimo autore del Novecento, in un saggio di più di cinquant’anni fa, nel 1965, dichiarava che si era innamorato del Goethe del “giovane Werther”, cioè del Goethe passionale e si ispirava a questo anche da un punto di vista sociale, politico, perché rappresentava il nuovo, la volontà di cambiare, trasformare il mondo; e rimase deluso, racconta, di quello che lesse nel Goethe successivo, lo vide quasi spegnersi, diventare troppo tranquillo, razionale. E lo prendevano in giro i suoi compagni dell’idea rivoluzionaria, che gli rimproveravano di leggere Goethe, lo scrittore conservatore, lo scrittore della borghesia! E lui in un primo tempo era anche incarognito, esasperato in questa difesa. Ma poi sono successi dei fatti, racconta Hesse, che mi hanno fatto riapprezzare il Goethe che per un momento avevo quasi odiato perché mi creava questo scompenso e questo senso anche di colpa nei confronti dei miei grandi compagni politici. C’è stato il nazismo, c’è stata la seconda guerra mondiale e allora ho capito; perché la passione, l’istinto, abbandonati a se stessi portano a Hitler, portano alla guerra. Ho capito qual è stato l’insegnamento di Goethe, qual è stato il motivo per cui intimamente io continuavo ad amarlo anche se pensavo che non corrispondeva più ai miei sogni giovanili. Perché istintivamente, sotterraneamente, Goethe mi richiamava sempre a quello di cui ha bisogno l’umanità e ho bisogno anch’io: la saggezza.
Ma riprendiamo il discorso generale. Sempre in questo dissidio tra ragione e sentimento, uno dei sentimenti che viene rivalutato in epoca preromantica è quello religioso. E facciamo ricorso a una riflessione del poeta Friedrich von Hardenbergh, noto con il nome d’arte di Novalis. Sentiamo cosa ci dice sul medioevo cristiano nel 1799, dopo che l’illuminismo aveva cancellato il medioevo e il cristianesimo. Leggi Barbara…
NOVALIS, LA CRISTIANITÀ, OSSIA L’EUROPA
Erano belli, splendidi tempi quelli in cui l'Europa era una terra cristiana, in cui un'unica Cristianità abitava codesta parte del mondo umanamente configurata, e un unico grande interesse comune univa le province più remote di questo vasto reame spirituale. Senza grandi possessi terreni, un solo capo supremo dirigeva e unificava le grandi forze politiche. Una numerosa corporazione, cui ognuno aveva accesso, gli era immediatamente sottoposta, ne eseguiva i cenni e si adoperava con ogni zelo a consolidarne la benefica potenza. Ogni membro di questa comunità era dovunque onorato; e se gli umili cercavano presso di lui conforto o aiuto, protezione o consiglio, e in cambio provvedevano volentieri e con generosità ai suoi molteplici bisogni, anch'egli trovava protezione, rispetto e ascolto presso i potenti; e tutti si tenevano cari questi uomini eletti, armati di forza prodigiosa, come figli del cielo la cui presenza e benevolenza diffondevano molteplici benedizioni. Un'infantile fiducia legava gli uomini ai loro messaggi. Con che serenità ciascuno poteva compiere la sua quotidiana opera terrena, poiché grazie a questi santi uomini un avvenire sicuro l'attendeva e da loro poteva aspettarsi venia per ogni passo falso e da loro veder cancellato e schiarito ogni oscuro istante della vita.(…)
Le menti migliori di tutte le nazioni erano segretamente divenute maggiorenni e, nell’ingannevole sentimento della loro missione, si ribellavano tanto più arditamente contro l’ormai decaduta costrizione. (…) Il risultato del modo di pensare lo si chiamò filosofia, in essa comprendendo tutto ciò che fosse contrario all’antico, e in primo luogo, quindi, ogni idea contraria alla religione. L’odio personale inizialmente nutrito per la fede cattolica si trasformò a poco a poco in odio per la Bibbia, per la fede cristiana e alla fine addirittura per la religione. Di più, l’odio per la religione si estese molto naturalmente e conseguentemente a tutti gli oggetti dell’entusiasmo, sconsacrò fantasia e sentimento, morale e amore dell’arte, speranze e tradizioni; a stento conservò l’uomo a capo della gerarchia degli esseri naturali, e la musica dell’universo, inesauribilmente creatrice, ridusse allo strepitio monotono di un enorme mulino, che, mosso dalla corrente del caso e natante su di essa, doveva venire considerato come un molino in sé, senza costruttore né mugnaio, come un vero e proprio “perpetuum mobile”, come un molino che macini se stesso.
Contro questo automatismo della società illuminista, c’è bisogno di tornare al perché dell’esistenza, alla fede. Il sentimento cristiano animò poi sia il preromanticismo che la grande corrente romantica, come a voler dare un senso, al di sopra dell’organizzazione sociale terrena, a quello che accade nel mondo, uno spirito, un’anima. Contro l’uomo-macchina degli illuministi, qui si richiama il valore dello spirito, dell’anima.
Ma si affaccia in questo momento un altro grande sentimento, quello della nazione. Lo vedremo con un protagonista importante di questa fine Settecento, Vincenzo Cuoco. Quando parlammo degli illuministi meridionali, ricordammo che idealmente i due poli nel sud sono Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco. Vico lo abbiamo ricordato come il maestro degli illuministi meridionali, Genovesi, Filangieri, Longano, Galanti; abbiamo detto però anche che l’erede di questi sarebbe stato Vincenzo Cuoco, ispiratore poi del romanticismo italiano, con il richiamo alla tradizione a allo spirito di nazione. Ma altro non voglio dire prima di aver fatto parlare lui. Sentiamo cosa ci dice, leggi Barbara…
VINCENZO CUOCO, SAGGIO STORICO SULLA RIVOLUZIONE NAPOLETANA DEL 1799
Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi, e, quel ch’è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da’ nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietà ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e che intanto vi entrarono.
Cuoco dice che la rivoluzione napoletana del 1799 è fallita perché si è voluta ispirare a delle situazioni, a delle idee, a dei patrimoni culturali di un altro popolo. Invece doveva partire dalle radici proprie, nostre, quindi sentimenti e passioni nostri. Infatti il punto fondamentale era questo, che ci collega a quanto dicevamo prima sulla cristianità, che la nostra comunità era troppo attaccata alla fede per potere accettare idee di sedicenti rivoluzionari che però prospettavano l’ateismo degli illuministi francesi e non potevano convincere il nostro popolo così legato alla tradizione religiosa. E fu facile per i parroci di quel tempo alimentare la propaganda sanfedista contro i rivoluzionari e creare quella reazione borbonica che li portò alla sconfitta, con la morte di alcuni di loro, mentre altri furono imprigionati o fuggirono. Tra questi ultimi ci fu il giovanissimo Vincenzo Cuoco…
Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo;
L’altro errore fatto dai rivoluzionari è stato quello di non dare subito le terre che avevano promesso, non dividerle subito fra i contadini, che questo volevano, risolvere i loro bisogni, determinati dalla fame, dalla povertà, che sono state descritte nel testo che abbiamo letto di Giuseppe Maria Galanti, la “Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise”…
Se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore.
La patria! Il tema della patria che viene fuori, della nazione. Gli illuministi erano cosmopoliti, quindi patria, nazione erano termini che non si potevano usare e patria, nazione erano in uso soprattutto nel medioevo, che era stato cancellato, con tutto il “Tabula rasa”. Poi Cuoco passa a delineare il concetto di “rivoluzione passiva”, grande concetto che è rimasto nella storiografia, cioè rivoluzione che non rende protagonisti veramente i suoi artefici…
La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri (cioè quelli francesi), così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva.
Le disgrazie de’ popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza.
E per farvi capire ancora di più chi sia Cuoco vi racconto la sua vita, come l’ho raccontata in un altro momento. Cominciava così, si presentava lui stesso, Cuoco…”Mi presento a questi signori. Sono Vincenzo Cuoco. In un paese…”
(filmato girato nel centro storico di Campobasso)
CUOCO: Mi presento a questi signori. Sono Vincenzo Cuoco. In un paese del montuoso, gagliardo ed isolato Sannio, Civitacampomarano, nacqui nel dì 10 ottobre dell’anno 1770. Ammaestrato negli studi matematici e filosofici per opera abilissima del Barone di Guardialfiera, Costantino Lemaitre da Lupara, fui dai miei mandato in Napoli nel 1787, epoca in cui si preparavano meravigliosi avvenimenti politici.
Volevasi fare di me un avvocato, ma la mia natura non poté punto piegarsi alle scaltrezze ed ai maneggi della vita tumultuosa del foro, ed invece si congiunse al qui presente, chiarissimo Giuseppe Maria Galanti, presso il quale avevo fatto il mio apprendistato giuridico, nei lavori del Gabinetto Letterario che tanto utile arrecarono in quel tempo al nostro paese. Legato ai più generosi cittadini, dei più intimi nella casa cittadinesca della Sanfelice, fui non ultima parte dei moti della repubblica, fui inviato nelle Puglie ma fui impedito di portare a termine la missione dall’avanzare delle orde reazionarie del Cardinale Ruffo.
Gaetano Mammone, prima mugnaio, indi generale, l’ho veduto alla testa di una moltitudine di banditi e di furfanti, bere il sangue suo dopo di essersi fatto salassare, pranzare con qualche teschio ancor grondante di sangue sulla mensa, bere in un cranio e dissetarsi col sangue di quegli infelici che faceva scannare. Mentre i Repubblicani ergevano in Napoli un Tribunale rivoluzionario il quale procedeva cogli stessi principi del tremendo Comitato di Robespierre. Io caddi fra i primi nelle mani degli inquisitori della Giunta e fui carcerato.
Cadute cento teste fra le più illustri, ebbi la fortuna di essere assolto, ma fui costretto ad esulare. Dichiaro naturalmente false le affermazioni che dopo la mia morte farà un certo Michaud, che avrei denunciato i rivoluzionari dopo aver saputo i nomi dalla Sanfelice e che mi sarei rallegrato di quello che era successo.
Dopo la rivoluzione del 99 cercammo una nuova strada con Amodio Ricciardi e Francesco Lomonaco, sfuggito per miracolo alla strage. Non ci aveva capito nessuno. Era l’astrattezza delle rivoluzioni intellettuali. Avevamo creduto che l’Italia fosse la Francia. Una catastrofe. Con la paura di tornare addirittura all’antico regime.
Nel triennio giacobino avevo assistito alle esagerazioni di un’educazione popolare rivoluzionaria. Matteo Angelo Galdi aveva scritto un Saggio d’istruzione pubblica rivoluzionaria. Anche il mio amico Vincenzo Russo, al quale scrissi le mie lettere sulla Costituzione del Pagano, voleva che i fanciulli fossero obbligati a frequentare la scuola per un’ora al giorno e per quattro anni al fine di apprendere il catechismo repubblicano e l’agricoltura …voleva formare dei contadini filosofi come fondamento della democrazia. Lo aveva letto in Rousseau.
Solo Napoleone ci rimaneva, anche se sapevamo che non potevamo aspettarci la libertà dallo straniero. Giuseppe Bonaparte nel 1806 stabiliva l’obbligo dell’istruzione primaria in tutti i centri abitati. Ma non si trovavano maestri laici, anche se i religiosi erano nominati dallo stato.
Gioacchino Murat nel 1809 mi nomina nella commissione per la pubblica istruzione. Nel mio Rapporto a Murat dissi che la coscienza nazionale si forma nell’istruzione pubblica, fissata dallo Stato.
Ho fondato e diretto a Milano il Giornale Italiano. Parlai di spirito pubblico: lo spirito pubblico di una nazione consta di due parti. La prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre, la seconda è l’accordo dei giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi…non si tratta di conservar lo spirito pubblico ma di crearlo, appunto attraverso l’istruzione popolare.
Già dal 1811 ebbi i primi segni di quella demenza che mi fece vivere isolato e buttare spesso nel fuoco quello che scrivevo. Finché scendendo di letto mi fratturai il femore sinistro e morii di cancrena in Napoli il 13 dicembre 1823. Sopravvissi due lustri alla morte della mia ragione, come disse Gabriele Pepe, in una povertà gloriosa.
MAZZAMAURIELLO (maschera utilizzata nel percorso storico nel centro storico di Campobasso): Comunque allegro, caro signore, perché qui, dopo duecento anni dalla nascita del Molise, stanno curando l’edizione della vostra opera
CUOCO; Magnifico! Sapevo che il mio Sannio non poteva tradire! Vi raccomando ancora il Platone in Italia, in cui dimostro che la nostra civiltà era superiore a quella dei greci, come vi ho già detto! Finsi di tradurre un manoscritto greco scoperto da un mio antenato nel 1774 scavando in Eraclea. Questo antenato era un vecchio borbottone malcontento che diceva che gli italiani, un tempo virtuosi, potenti, felici e inventori di quasi tutte le cognizioni, divennero poi discepoli degli stranieri. Provai che Platone era stato in Italia nel 406 a.C e aveva notato la nostra civiltà. Gli Italiani, e specialmente i Pitagorici, hanno composto moltissimi poemi omerici ed orfici. Per questo un po’ di orgoglio, l’orgoglio sannita.
Abbiamo visto come Vincenzo Cuoco si presentava in una passeggiata nel centro storico della nostra città. Era il nostro allievo-attore Mauro Genovese, che tu, Barbara, riconosci, anche perché c’eri quella sera, ti abbiamo intravista fra il pubblico…
BARBARA: Sì, c’ero. Si vede…ero in prima fila…
Assistevi a questa performance. Ma ora vorrei concludere su Cuoco. Voglio citare l’altra sua opera, che è ricordata nelle immagini che vi abbiamo fatto rivedere, il “Platone in Italia”, su cui vorrei aggiungere qualche parola. Come già si è detto, Cuoco immagina che Platone venga in Italia, la Magna Grecia, e trovi che ci sia una civiltà preesistente a quella stessa che istaurano in Italia i Greci, che hanno l’orgoglio e la superbia di essere loro i grandi comunicatori, portatori di progresso, ma in realtà, secondo la ricostruzione che fa Cuoco, devono costatare che c’è qualcosa di più anche, comunque pregresso, nella nostra Italia, una grande civiltà, insomma, in tutti i campi. E con questo Cuoco vuole affermare il suo orgoglio di essere italiano (come noi in quel percorso il nostro vanto di essere sanniti), ribadire il valore anche della tradizione, sulla quale si può basare il concetto di nazione italiana.
E quando si basa questa fondamentale riflessione sono poste le premesse per il Risorgimento italiano, per quella serie di sconvolgimenti, di sommovimenti che porteranno alla realizzazione dell’Unità. Non è un caso che questa lezione vada in onda proprio nel gennaio del 2011, quando si sta celebrando l’inizio della realtà dell’Italia unita. Dal 1861 a questo 2011 sono centocinquanta anni. Con questo ricordo vi rimando alla prossima lezione.
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