Antologia - 15^ Lezione
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NEOCLASSICISMO E ROMANTICISMO: DA WINCKELMANN A GOETHE
Siamo arrivati alla quindicesima lezione del secondo anno. Di nuovo con noi Barbara. Ci lasciammo l’ultima volta con il discorso su Alfieri. La mentalità, il temperamento di Vittorio Alfieri ci ricordano che è cambiato qualcosa dell’atmosfera dell’illuminismo. Le grandi passioni, le profonde sensazioni sono entrate nella letteratura, quindi si sta trasformando qualcosa nella cultura europea in questo periodo, nella seconda metà del Settecento.
Edmund Burke, nel 1757,riprendendo un trattato “Sul sublime” di Longino, che era stato in questo periodo riscoperto, dà la sua idea sul sublime nella natura, nella vita e nell’opera d’arte, che poi diventerà una categoria kantiana e ispirerà proprio questo momento particolare che prenderà il nome di preromanticismo, che è composto di diverse tessere che vanno a determinare questo mosaico importante della seconda metà del Settecento. Sentiamo da te, Barbara, cosa dice Burke…
BURKE, INDAGINE FILOSOFICA SULL’ORIGINE DELLE NOSTRE IDEE DEL SUBLIME E DEL BELLO
Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Dico l’emozione più forte, perché sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere. (…)Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono dilettevoli, come riscontriamo ogni giorno. (…)
Nel chiudere questa visione d'insieme della bellezza sorge naturale l'idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia.
Se la bellezza è serenatrice, serenità, la grandiosità invece è terribilità, è tormento. Sono i poli, gli estremi tra i quali naviga la sensibilità di questo periodo. Andiamo a vedere l’altro polo, quello stabilito da Winckelmann dopo la scoperta dei resti di Ercolano e Pompei, con la nascita del gusto neoclassico. E’ un autore che stai studiando, Barbara…
BARBARA: Sì, in Archeologia classica.
Vediamo cosa ci dice sulla “nobile semplicità e tranquilla grandezza” nel 1755…
WINCKELMANN, PENSIERI SULL’IMITAZIONE DELL’ARTE GRECA NELLA PITTURA E NELLA SCULTURA
Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come lo descrive Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre; ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta.
Descrivendoci proprio il Laocoonte, ci parla di un tormento che non viene tradito nel volto. Quindi c’è questa contrapposizione di una forte passione, un forte turbamento, quella terribile caratteristica del grandioso, di cui parlava lo stesso Burke, però poi contenuta in questo sforzo di mantenere sereno il volto. Questa è l’anima del neoclassicismo, il cui contenuto è sempre una forte passione. Quindi anche all’interno del neoclassicismo ci sono i germi del romanticismo, questa fase di tormentata sensibilità che si esprime, come tra poco vedremo, anche nello Sturm und Drang tedesco e nelle prime manifestazioni della turbata esistenza di Wolfgang Goethe, soprattutto il venticinquenne autore dei “Dolori del giovane Werther”. Ma parleremo dopo di questo.
Intanto, fermiamoci alla classicità di questo periodo, questa classicità sempre tormentata e animata dalla passione, di cui vi diamo l’idea attraverso la “Didone abbandonata” di Metastasio, già citato parlando di Alfieri, come autore di melodrammi ospite delle grandi corti europee. Conosciamo tutti la storia di Didone ed Enea, di Enea che abbandona Didone perché è spinto dal dovere. Io sono Enea, tu sei Didone…
PIETRO METASTASIO, DIDONE ABBANDONATA, ATTO I, SCENA XVII
DIDONE - Enea, salvo già sei
dalla crudel ferita.
Per me serban gli Dei sì bella vita.
ENEA - Oh Dio, regina!
DIDONE - Ancora
forse della mia fede incerto stai?
ENEA - No: più funeste assai
son le sventure mie. Vuole il destino...
DIDONE - Chiari i tuoi sensi esponi.
ENEA - Vuol... (mi sento morir) ch'io t'abbandoni.
DIDONE - M'abbandoni! Perché?
ENEA - Di Giove il cenno,
l'ombra del genitor, la patria, il cielo,
la promessa, il dover, l'onor, la fama
alle sponde d'Italia oggi mi chiama.
La mia lunga dimora
pur troppo degli Dei mosse lo sdegno.
DIDONE - E così fin ad ora,
perfido, mi celasti il tuo disegno?
ENEA - Fu pietà.
DIDONE - Che pietà? Mendace il labbro
fedeltà mi giurava,
e intanto il cor pensava
come lunge da me volgere il piede!
A chi, misera me! darò più fede?
Vil rifiuto dell'onde
io l'accolgo dal lido; io lo ristoro
dalle ingiurie del mar; le navi e l'armi,
già disperse, io gli rendo, e gli do loco
nel mio cor, nel mio regno; e questo è poco.
Di cento re per lui
ricusando l'amor, gli sdegni irrìto:
ecco poi la mercede.
A chi, misera me! darò più fede?
ENEA - Fin ch'io viva, o Didone,
dolce memoria al mio pensier sarai,
né partirei giammai,
se per voler de' Numi io non dovessi
consacrare il mio affanno
all'impero latino.
DIDONE - Veramente non hanno
altra cura gli Dei che il tuo destino.
ENEA - Io resterò, se vuoi
che si renda spergiuro un infelice.
DIDONE - No: sarei debitrice
dell'impero del mondo a' figli tuoi.
Va pur, siegui il tuo fato:
cerca d'Italia il regno; all'onde, ai venti
confida pur la speme tua; ma senti:
farà quell'onde istesse
delle vendette mie ministre il Cielo;
e tardi allor pentito
d'aver creduto all'elemento insano,
richiamerai la tua Didone in vano.
ENEA - Se mi vedessi il core...
DIDONE - Lasciami, traditore.
ENEA - Almen dal labbro mio
con volto meno irato
prendi l'ultimo addio.
DIDONE - Lasciami, ingrato.
ENEA - E pur con tanto sdegno
non hai ragion di condannarmi.
DIDONE - Indegno!
Non ha ragione, ingrato,
un core abbandonato
da chi giurogli fé?
Anime innamorate,
se la provaste mai,
ditelo voi per me!
Perfido! tu lo sai
se in premio un tradimento
io meritai da te.
E qual sarà tormento,
anime innamorate,
se questo mio non è?
SCENA XVIII
ENEA - E soffrirò che sia
sì barbara mercede
premio della tua fede, anima mia!
Tanto amor, tanti doni...
Ah! pria ch'io t'abbandoni,
pèra l'Italia, il mondo;
resti in obblìo profondo
la mia fama sepolta;
vada in cenere Troia un'altra volta.
Ah, che dissi! Alle mie
amorose follie,
gran genitor, perdona: io n'ho rossore.
Non fu Enea che parlò, lo disse Amore.
Si parta... E l'empio Moro
stringerà il mio tesoro?
No... Ma sarà frattanto
al proprio genitor spergiuro il figlio?
Padre, Amor, Gelosia, numi, consiglio!
Se resto sul lido,
se sciolgo le vele,
infido, -- crudele
mi sento chiamar:
e intanto, confuso
nel dubbio funesto,
non parto, non resto,
ma provo il martire,
che avrei nel partire,
che avrei nel restar.
Anche qui, nel classico dramma di Metastasio, abbiamo già l’idea preromantica della passione che contrasta con il dovere, nei dubbi di Enea.
Questo stesso contrasto lo ritroviamo nell’arte. Nel famoso gruppo di Antonio Canova “Amore e Psiche”, che si abbracciano, notiamo la levigatezza delle forme. Vi faccio leggere da Barbara la loro storia, che poi commenteremo.
Psiche è una fanciulla tanto bella da suscitare la gelosia di Venere, la quale manda suo figlio Amore con la missione di farla innamorare di un uomo bruttissimo. Ma il dio stesso si innamora di lei e ne diventa l’amante, a patto che la ragazza non cerchi mai di vederlo in viso. Una notte però Psiche, istigata dalle sorelle, contempla il dio dormiente alla luce di una lanterna. Da questa una goccia d’olio cade sulla spalla di Amore, che per punizione abbandona la ragazza. Venuta a conoscenza dell’amore del figlio, Venere fa schiava Psiche e la costringe a recarsi nell’Ade, dove le sarà consegnato un vasetto contenente un po’ di bellezza, ma le proibisce di aprirlo. Spinta dalla curiosità, Psiche apre il vaso, da cui si sprigiona un sonno profondo, e cade svenuta. A questo punto Amore, che non ha cessato di amare la giovane, corre da lei e la risveglia. Intenerito dalla storia dei due innamorati, Zeus dona a Psiche l’immortalità, ammettendola tra le dee come sposa di Amore.
E’ appunto al momento del risveglio che Canova riprende Amore e Psiche. E vi stavo dicendo della levigatezza di queste figure e della sensualità ma anche delle contenuta passione che viene espressa attraverso queste forme così terse, così pulite. Questa è la caratteristica di Canova. Ricordiamo che l’equivoco per cui la grande arte classica fosse levigata durava dagli scavi di Pompei, cioè dal ritrovamento di quelle statue che erano delle imitazioni, delle copie. Sul tema del contrasto tra ciò che è classico e per questo, secondo l’equivoco di cui si diceva, sereno e ciò che è già romantico e quindi tormentato, riprendiamo il ragionamento partendo da una riflessione di Goethe…
JOHANN WOLFGANG GOETHE, I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
Dopo un’ora mi accorsi di aver composto un disegno molto interessante e ordinato, senza avervi aggiunto proprio nulla di mio. Ciò mi confermò nel mio proposito di attenermi d’ora in avanti soltanto alla natura. Essa sola possiede quella infinita ricchezza che può formare il grande artista.
Questo riferimento alla natura (il mito del “buon selvaggio” di Rousseau) è il punto di partenza per sostenere che il sentimento, la passione, l’individualità, il genio, l’estro sono la nuova base della sensibilità moderna. E siamo in funzione già antiilluminista…
Si possono dire molte cose in difesa delle regole, suppergiù quello che si può dire a lode della società borghese. Un uomo che si forma su di esse non produrrà mai nulla di volgare e di cattivo, esattamente come colui che si lascia guidare dalle leggi e dalle buone maniere non diverrà mai un vicino insopportabile o un malvagio degno di nota. Per contro, tutte le regole, si dica quel che si vuole, finiranno sempre per distruggere il genuino sentimento della natura e la sua vera espressione. Tu mi dirai che sono troppo duro! Essa non fa che limitare, tagliare i tralci esuberanti ecc. Amico mio, posso farti un paragone? E’ la stessa cosa come nell’amore. Un giovane cuore si innamora di una ragazza, passa con lei ogni ora della sua giornata, profonde ogni suo avere, ogni energia per esprimerle in ogni momento la sua completa dedizione. Ed ecco che arriva un filisteo, un uomo che copre una carica pubblica, e gli dice: “Mio bel giovanotto! Amare è umano, ma occorre amare umanamente! Impari a dividere il suo tempo, dedicando le giuste ore al lavoro e le ore di svago alla sua fanciulla. Tenga buon conto del suo patrimonio e con ciò che le rimane di superfluo non le proibirò certo di farle di tanto in tanto un regalo, solo non troppo spesso, diciamo per il suo compleanno o per il suo onomastico ecc.” Se il giovanotto ubbidirà, diverrà certo un uomo utile, e consiglierei a qualsiasi principe di dargli un posto nel consiglio; solo che il suo amore sarà finito e, se è un artista, sarà finita anche la sua arte. Oh, amici miei! Perché il fiume del genio rompe così raramente gli argini, così di rado straripa con alti flutti scuotendo le vostre anime stupefatte? Cari amici, su entrambe le sponde del fiume abitano i placidi signori le cui casette e i giardini , le aiuole di tulipani e le erbe dell’orto andrebbero distrutte dalla piena delle acque e perciò si danno cura di allontanare l’incombente pericolo con dighe e canali.
Goethe chiede al genio di straripare, non rimanere dentro gli argini delle regole. E ora andiamo a vedere quell’altro passo, sempre dai “Dolori del giovane Werther”, che ci parla di un colloquio tra Werther e Albert, sul tema del suicidio, che è la conclusione di questo romanzo epistolare che ispirerà quello di Foscolo, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. Sotto la data di una di queste lettere al mio amico, 12 agosto, io, Werther, gli racconto di un incontro con Albert, che sarai tu, Barbara…
Alberto è certamente il miglior uomo che esista sotto la volta celeste. Ieri ho avuto con lui una discussione che non dimenticherò. Andai a casa sua per prendere congedo, giacché mi è venuta la fantasia di andare cavalcando per le montagne dalle quali ora ti scrivo: andando su e giù per la camera, mi caddero sotto gli occhi alcune pistole: "Prestamele per il viaggio", gli dissi. "Volentieri, mi rispose, se vuoi prender la pena di caricarle: io le tengo lì appese solo “pro forma”.
Ne scelsi una, ed egli continuò: "da quando la mia previdenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli strumenti".
Ero molto curioso di sapere la storia, ed egli raccontò: "Passavo la quarta parte dell'anno presso un amico, in campagna: avevo due pistole scariche e dormivo tranquillo. Una volta, durante un piovoso pomeriggio nel quale sedevo oziando, non so come, pensai che potevamo essere assaliti, che le pistole potessero esserci necessarie e che... basta, tu sai come vanno queste cose. Dò le armi al servitore perché le ripulisca e le carichi: egli si mette a scherzare con le ragazze, vuole spaventarle e, Dio sa come, il colpo parte: la bacchetta che era ancora nella canna colpisce una povera ragazza ai muscoli della mano destra e le spezza il pollice. Ho dovuto ascoltare i lamenti e pagare la cura, e da allora lascio le pistole scariche.
- Mio caro amico, a che cosa serve la previdenza? Il pericolo non si lascia mai vedere per intero! Cioè...".
Ora tu sai che io amo molto Alberto, ma non amo i suoi cioè: non è cosa di per se stessa evidente che ogni regola ha le sue eccezioni? Ma quell'uomo è così scrupoloso che quando crede di aver detto qualcosa di troppo azzardato o generico, e non completamente vero, non la finisce più di limitare, modificare, di aggiungere o di sopprimere, finché di quanto ha detto non rimane più niente. E in questo caso si sprofondò proprio nel discorso cosicché io finii col non ascoltarlo più, mi misi a fantasticare, e con gesto rapido mi appoggiai alla fronte la canna della pistola, al di sopra dell'occhio destro. "Ebbene, che significa ciò?", esclamò Alberto strappandomi l'arma di mano. "E’ scarica", risposi. "E se pure è scarica, che vuol dire questo?" riprese impaziente, "io non posso ammettere che un uomo sia così pazzo da uccidersi: il solo pensiero mi rivolta..."
"Ma voi uomini, esclamai, quando parlate di qualche cosa, dovete sempre dire: è pazza, è savia, è buona, è cattiva! E questo che significa? Avete voi, che dite così, indagato i moventi interni di un'azione? Sapete scoprirne con certezza le cause, e capire perché è avvenuta e perché doveva avvenire? Se l'aveste fatto, non sareste così pronti a giudicare".
"Mi concederai, disse Alberto, che alcune azioni rimangano degne di biasimo, da qualunque motivo siano determinate".
Glielo concessi, scrollando le spalle. Pure continuai: "Vi sono sempre dei casi eccezionali. E' vero che il furto è un delitto. Ma l'uomo che ruba per salvare sé e i suoi che stanno per morire di fame, merita pietà o castigo? Chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta collera immola la sua donna infedele e l'indegno seduttore? Contro la fanciulla che in un'ora di voluttà si perde nelle indicibili gioie dell'amore? Le stesse nostre leggi, fredde e pedanti, si lasciano commuovere e sospendono la loro punizione!"
"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché‚ un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato come in preda all'ebbrezza o al delirio".
"Oh le persone ragionevoli!, esclamai sorridendo - Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio, e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti ebbri o pazzi.
Ma anche nella vita comune è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa: quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!"
"Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa".
Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché‚ lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?".
Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio…
E continua. Ma io chiudo, ricordandovi che poi si parlerà di suicidio, il momento principale di questo romanzo. Anche il suicidio è una forma di passione, è un’affermazione del sentimento, comunque vada, nei confronti della ragione.
Vedete, dunque, quanto si discuta sul tema del confronto fra ragionevolezza e irragionevolezza, ragione e sentimento, ragione e follia. Si sta avviando la nuova stagione romantica. Nella prossima lezione approfondiremo ancora questo tema. Arrivederci.
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