Antologia - 11^ Lezione
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IL CAFFE’: VERRI, BECCARIA
IL MITO DEL BUON SELVAGGIO: DIDEROT, ROUSSEAU, DEFOE
Undicesima lezione di Antologia. Con me Barbara. L’ultima volta ci eravamo lasciati con il tema della misura in “Micromega”. Infatti il titolo stesso d quest’opera di Voltaire ci raccontava del problema del rapporto tra piccolo e grande. Solo quando si è grandi rispetto al piccolo si riesce a vedere gli errori del piccolo. E solo quando ci si fa piccoli si assume l’atteggiamento giusto, quello appunto di non credere troppo in noi stessi. Abbiamo visto quell’orgoglio insulso che non promette niente di buono nella società.
Questo senso della misura è tra l’altro riprodotto nelle origini del “Caffè”, il grande periodico fondato da Verri, che in un suo articolo ci spiega quali sono le finalità di questo giornale nato dopo la metà del Settecento. C’è l’idea proprio di un Caffè nel quale un greco, di nome Demetrio, ospiti degli avventori che discutono. Ma il fatto che ci sia un greco in questo locale milanese sta a dimostrare che solo uno che proviene da un altro luogo può, nella conversazione con gli altri clienti, individuare i limiti delle loro convinzioni. E’ sempre il tema della prospettiva: chi è fuori vede meglio. Infatti la spinta ideale della conoscenza, della trasformazione della società, sta in questo porsi fuori, però anche nel registrare quello che è il risultato di questo porsi fuori in un periodico, che viene stampato e diffuso presso un pubblico molto più vasto di quello precedente. Quindi il Settecento si conferma il secolo dell’editoria, non soltanto come pubblicazione di libri, romanzi, trattati o la grande Enciclopedia, ma anche di giornali, che non sono una novità, sono nati in Inghilterra nel secolo precedente.
Vediamo questo testo, comparso sul primo numero del periodico, in cui Pietro Verri simula un’intervista a se stesso. Io sarò l’intervistatore e tu Verri, Barbara.
PIETRO VERRI, IL CAFFÈ, NUMERO 1
-Cos’è questo Caffè?
-È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni.
-Cosa conterrà questo foglio di stampa?
-Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità.
-Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli?
-Con ogni stile, che non annoj.
-E sin a quando fate voi conto di continuare quest’Opera?
-Insin a tanto, che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anco dei trentasei foglj se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa.
-Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto?
-Il fine d’una agradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene,, che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri.
-Ma perché chiamate questi fogli il Caffè?
-Ve lo dirò, ma andiamo a capo.
Un Greco originario di Citera, Isoletta riposta fra la Morea, e Candia, mal soffrendo l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengono tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione, e gli esempi, son già tre anni, che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse Città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi, che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tiepida, e profumata che consola; la notte è illuminata cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, chi vuole leggere, trova sempre i foglj di Novelle Politiche, e quel di colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e varj altri: in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’è di più un buon Atlante, che decide le questioni che nascondono le nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti, che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi, che vi ascolto degni di registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine varj, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.
C’è anche un altro grandissimo illuminista italiano, che è Cesare Beccaria. Ricordo che il fratello di Pietro Verri, Alessandro, aveva portato Beccaria a Parigi, dove si era diffusa l’ultima sua pubblicazione, il trattato “Dei delitti e delle pene”, di cui parleremo tra poco. Qui vediamo invece cosa dice Beccaria a proposito dei fogli periodici. Leggi Barbara…
CESARE BECCARIA, IL CAFFÈ, NUMERO 1
Quello che sono i libri stampati rispetto alla scrittura può quasi dirsi che lo siano i fogli periodici rispetto a' libri stampati: e come questi tolsero dalle mani di 'pochi adepti le cognizioni, e le sparsero nel ceto dei coltivatori delle lettere, così i fogli le cognizioni medesime che circolano nel popolo studioso comunicano e diffondono nel popolo o travagliatore od ozioso. Negli uni la fame del piacere, negli altri l'imperiosa povertà fanno si che il più delle volte rivolgano più gli occhi alle cose medesime che ai più intimi rapporti di esse, e non vedendo in quelle altra connessione che quella del tempo con cui si succedono, ed altra relazione che quella che influisce immediatamente sul loro ben essere, le considerano come isolate tra di loro, nessun sistema formandone, o se ne formano uno lo prendono ad imprestito da chi vuoi loro risparmiarne la fatica. Gli uomini di questo genere, cioè la maggior parte, considerano un libro come un uomo che volesse entrare ne' loro affari, e riformar tutta la loro famiglia; sono dal timore di rovesciar tutto l'edificio delle loro idee; e gli uomini invischiati, per dir così, nell'abitudine, soffrono nel doverne essere tratti. Ma un foglio periodico, che ti si presenta come un amico che vuoi quasi dirti una sola parola all'orecchio, e che or l'una or l'altra delle utili verità ti suggerisce non in massa, ma in dettaglio, e che or l'uno or l'altro errore della mente ti toglie quasi senza che te ne avveda, è per lo più il più ben accetto, il più ascoltato.
Ci sta dicendo che, mentre il libro lo guardi con sospetto, qualche volta, il foglio, il periodico, ci si insinua di più nella mente, e lo vedi come un amico, perché non ha il tono elevato che può presentare un libro, ci sembra che sia un discorso un po’ più vicino a noi quello di un periodico, perciò lo accettiamo di più…
La distanza che passa tra l'autore di un libro e chi lo legge mortifica per lo più il nostro amor proprio, poiché il maggior numero non si crede capace di fare un libro; ma per un foglio periodico ognuno si crede abilità sufficiente, essendo poi sempre la mole e il numero i principali motori della stima volgare. Aggiungasi la facilità dell'acquisto, il comodo trasporto, la brevità del tempo che si consuma nella lettura di esso, e vedrassi quanto maggiori vantaggi abbia con sé questo metodo d'instruire gli uomini, e per conseguenza con quanta attenzione e sollecitudine. ne debha essere adoperato da' veri filosofi, e quanto meriti di essere incoraggiato e promosso da chi brama il miglioramento della sua specie. Entrate in una adunanza ove siano libri e fogli periodici, troverete che ai primi si dà per lo più un'occhiata sprezzante e sdegnosa, ed ai secondi un'occhiata di curiosità che vi fa leggere, e fa legger tutti gli altri, e come la circolazione del denaro è avvantaggiosa perché accresce il numero delle azioni degli uomini sulle cose, così la circolazione dei fogli periodici aumenta il numero delle azioni della mente umana, dalle quali dipende la perfezione delle idee e de' costumi. Le donne poi, le leggiere e distratte donne, il di cui tacito impero cresce col numero degli oziosi, e sulle quali gli uomini per lo più si modellano, sono dispostissime a trarre profitto da' fogli periodici.
La solita nota un po’ negativa sulle donne, ma siamo nel Settecento e devi perdonare questi “illuminati” che pure continuano ad avere le loro riserve sull’animo femminile.
Lo stesso Beccaria ci presenta questa sua grandissima opera, “Dei delitti e delle pene”. Vi faremo vedere come l'autore ci voglia dimostrare che non è nella severità della pena, ma nella sua regolarità il segreto dell’ordinato vivere in una società. E’ l’opera in cui ha parlato contro la tortura e la pena di morte. Ma è questa riflessione che vorrei presentarvi prima. Ascoltiamo le sue stesse parole. Leggi Barbara…
CESARE BECCARIA, DEI DELITTI E DELLE PENE
Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione.
Quindi non la crudeltà ma la infallibilità della pena, che poi deve avere una sua dolcezza.
La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi.
Beccaria poggia l’attenzione non solo sul fatto che il castigo non debba essere eccessivo, ma anche sul fatto che sia certo. Questo è il problema. Oggi nella nostra società aumentiamo, magari anche sull’onda emotiva di un fatto recente, la gravità di una pena, però poi, se non otteniamo che sia certa una pena a che serve che ne incrementiamo la portata? Comunque questo castigo per Beccaria non deve essere esageratamente punitivo, anche perché, quanto più è orribile tanto più il colpevole cerca di evitarlo e quindi di sfuggire alla giustizia: anche sotto questo aspetto viene meno la certezza della pena. E si commettono più delitti per fuggire quella pena che è spropositata, la pena di morte per esempio. Uno stato nel quale si afferma una legislazione molto punitiva e cruenta è anche uno stato in cui maturano di più le azioni cruente.
A proposito poi di tortura e pena di morte, nell’economia generale del ragionamento di Beccaria, vi ricordo che la pena doveva essere diretta al recupero, come ancora oggi, grazie a lui, nel nostro diritto. Il fine ultimo della carcerazione deve essere questo, con il reinserimento nella stessa società: un fine educativo di cui la pena di morte è la negazione. Qualunque delitto si sia commesso, non ha senso punire semplicemente, senza l’idea del recupero.
Per quanto riguarda la tortura in particolare, Beccaria diceva che in fondo è anche controproducente. Prima di tutto è un atto che non accetta sul piano umano e morale, ma anche su quello proprio dell’efficacia in un procedimento giudiziario. A volte, dice, cede alla tortura l’onesto, che non ha una sufficiente resistenza, mentre la supera il disonesto, che ha una forte resistenza fisica: non è con la tortura che veniamo a sapere se una persona è colpevole o innocente; come metodo per raggiungere la certezza su una colpevolezza è assurdo. Tanto più che il delinquente incallito è quello che è più portato a sopportare bene le sofferenze di una tortura, rispetto all’onesto, che per sua natura e suo comportamento quotidiano non è avvezzo appunto a questo tipo di trattamenti. Poco più avanti, Beccaria dice un’altra cosa…
Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sì facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’ delitti più dannosi e più atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sí nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime.
Su questo problema della legislazione si ritornerà anche con altri illuministi italiani, come Giuseppe Maria Galanti, di cui parleremo. Ora invece voglio riportarvi una riflessione di Denis Diderot, direttore dell’altra grande esperienza editoriale dell’Enciclopedia, sul tema del “buon selvaggio”. La famosa relazione del conte di Bougainville sul viaggio a Tahiti, nel Pacifico, lo indusse a scrivere un “Supplemento al viaggio di Bougainville”, in cui ci presenta un vecchio che assiste a tutte le cerimonie che stanno facendo al conte che se ne sta andando, dopo essere stato un po’ di tempo in questa isola. E’ stato sempre zitto, ha osservato i suoi compaesani, gli abitanti del villaggio che hanno venerato quasi come un dio questo Bougainville, con atti di sottomissione e così via…
DENIS DIDEROT, SUPPLEMENTO AL VIAGGIO DI BOUGAINVILLE
E’ un vegliardo che parla. Era padre di una famiglia numerosa. All’arrivo degli Europei lasciò cadere su di loro sguardi sdegnosi, senza rivelare stupore, né spavento, né curiosità. Essi lo avvicinarono, lui voltò loro la schiena e si ritirò nella sua capanna. Il suo silenzio e la sua preoccupazione non ne celavano il pensiero: rimpiangeva dentro di sé i bei giorni del suo paese, ormai perduti. Alla partenza di Bougainville, quando gli indigeni accorrevano in frotte sulla riva, si stringevano ai suoi abiti, abbracciavano i suoi compagni e piangevano, il vecchio avanzò con un’aria severa e disse: “Piangete, infelici Tahitiani! Piangete. Ma ciò sia per l’arrivo, non per la partenza di questi uomini malvagi e ambiziosi: un giorno li conoscerete meglio. Un giorno essi torneranno, col crocifisso che vedete pendere dalla cintura di quello, in una mano, e con la spada appesa al fianco di quell’altro, nell’altra, per incatenarvi, sgozzarvi o assoggettarvi alle loro stravaganze e ai loro vizi; un giorno sarete loro schiavi, corrotti, vili e infelici come loro (…).”
Era una riflessione che faceva nello stesso periodo Rousseau, nel “Contratto sociale”, quando diceva che la migliore condizione dell’uomo era vivere secondo natura. Però un ritorno allo stato di natura, quando non c’era la proprietà, quando tutti si era felici, secondo Rousseau, perché non c’erano contese per le proprietà ed altro, è impossibile nella nuova società, in cui ormai si vive aggregati. Infatti lui sostiene che il vivere in società non è niente altro che un contratto, nel quale l’uomo si deve per forza allontanare dallo stato di natura, insieme con gli altri, con delle leggi. Torniamo ai temi di Hobbes e Grozio; Rousseau è più groziano che hobbesiano, perché ritiene che l’istinto degli uomini sia quello di volersi bene, è la proprietà che li ha resi cattivi gli uni contro gli atri. Però, anche se dobbiamo allontanarci un po’ dalla natura per vivere in società, secondo “civiltà”, Rousseau non abbandona la speranza che l’uomo cerchi di conservare il più possibile un rapporto diretto con la natura, pur vivendo in comunità. Questo è il fondamento della teoria roussoviana, che vediamo qui ispirare anche il tema del “buon selvaggio” presentato da Diderot...
Poi, avvicinandosi a Bougainville, aggiunse: “ E tu, capo dei briganti che ti obbediscono, sciogli subito il tuo vascello dalla nostra riva: noi siamo innocenti e felici; e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità. Noi seguiamo il puro istinto della natura; e tu hai tentato di cancellare questo carattere dai nostri animi. Tutto qui è di tutti; e tu ci hai inculcato non so che distinzione di tuo e di mio. Le figlie e le mogli sono da noi in comune; tu hai condiviso questo privilegio; e sei venuto ad eccitare in loro ignoti furori. Esse hanno perduto la testa nelle tue braccia; tu sei diventato feroce nelle loro. Hanno preso ad odiarsi; o vi siete scannati per loro, e loro sono tornate da noi macchiate del vostro sangue. Noi siamo liberi; e tu hai nascosto nella nostra terra il documento della nostra futura schiavitù. (…) Tu non sei schiavo: sopporteresti la morte pur di non esserlo, e vuoi rendere noi schiavi! Credi dunque che il Tahitiano non sappia difendere la sua libertà fino alla morte? Il Tahitiano, del quale vuoi impadronirti come se fosse un animale, è tuo fratello. Voi siete due figli della natura; quale diritto hai su di lui che non abbia lui su di te? Sei arrivato; ci siamo forse gettati sulla tua persona? Abbiamo forse saccheggiato il tuo vascello? Ti abbiamo catturato ed esposto alle frecce dei nostri nemici? Ti abbiamo messo a lavorare i campi insieme agli animali? Noi abbiamo rispettato in te la nostra immagine. Lasciaci i nostri usi; essi sono più saggi e onesti dei tuoi. Noi non vogliamo barattare ciò che tu chiami la nostra ignoranza con il tuo inutile progresso. Tutto ciò che è buono e necessario, noi lo possediamo. Siamo forse degni di disprezzo perché non abbiamo saputo costruirci dei bisogni superflui? Quando abbiamo fame, abbiamo di che mangiare; quando abbiamo freddo, abbiamo di che vestirci. Tu sei entrato nelle nostre capanne: cosa vi manca secondo te? Insegui finché vuoi ciò che chiami comodità della vita, ma permetti a degli esseri sensati di fermarsi, poiché non resterebbe loro che raggiungere, per mezzo di una perpetua e penosa fatica, dei beni immaginari.”
Vedete quale lunga tirata faccia Diderot contro la civiltà e il progresso, pur essendo lui l’animatore di questa trasformazione della società con l’esperienza dell’Enciclopedia, che doveva essere una “summa” di tutto il sapere che doveva poi guidare l’opera ispirata e illuminata dei regnanti di questo secolo.
Il “buon selvaggio” era sotterraneo anche nell’opera di Daniel Defoe, “Robinson Crusoe”, che, come tutti sapete, è la storia di un naufrago, come Gulliver, che da solo in un’isola riesce a industriarsi in maniera da resistere, sopravvivere. Vi è intanto questo rapporto diretto di Robinson con la natura quando è costretto a rimanere da solo, ma nella seconda parte del racconto, poi, viene fuori questo selvaggio che vive sull’isola, quello che lui chiamerà Venerdì, i cui comportamenti saranno istruttivi per lo stesso Robinson, che lo vuole educare, ma qualcosa raccoglie dal suo essere naturale e istintuale.
Quindi anche Robinson Crusoe vive questo mito del buon selvaggio, anche se dovremmo ricordare che il tuo caro Marx ebbe un concetto negativo di Defoe. Lo ritenne rappresentante degno della borghesia e il suo Robinson Crusoe il perfetto borghese, quello che quando è naufragato la prima cosa che va a cercare di rintracciare tra i resti della nave, su cui costruire la sua futura sopravvivenza, è il taccuino sul quale deve annotare e far di conto, come tutti i mercanti del tempo. E’ stato molto, molto duro Marx nei confronti di Defoe. Con questa nota chiudiamo questa undicesima lezione. Arrivederci.
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