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GOLDONI: La riforma del teatro, La locandiera




Antologia II Anno - 9^ Lezione (video)
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https://youtu.be/Xk2GLWxcIWE
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GOLDONI: La riforma del teatro, La locandiera
 
(Recita Maria Teresa Spina)
LUCIO ANNEO SENECA, FEDRA
FEDRA: Sì, Ippolito, amo il volto di Teseo, ma quello di un tempo, il suo volto di ragazzo, quelle guance lisce appena ombreggiate dalla prima peluria, quando nella cieca dimora del mostro cretese sgomitolò il lungo filo per le vie del labirinto. Che splendore egli era! I capelli stretti da un nastro, un pudico rossore sulle guance delicate, muscoli vigorosi nelle tenere braccia, il volto della tua Diana o del mio Febo, o il tuo piuttosto: ecco, ecco com’era quando innamorò la sua nemica, Arianna; così levava il capo. Tu hai in più il fascino di una bellezza disadorna. Vi è in te tutto tuo padre e pure vi si mescola in egual misura qualcosa della tua selvaggia madre. Sul volto di un greco appare la fierezza dello scita. Se fossi approdato con tuo padre a Creta, per te mia sorella avrebbe filato il suo filo. Invoco te, sorella, in qualunque parte del cielo brilli la tua costellazione, invoco te per una causa pari alla tua: una sola famiglia ha ammaliato due sorelle, te il padre, me il figlio. Ecco, Ippolito, prostrata supplice alle tue ginocchia la discendente di una stirpe regale. Sinora senza macchia e senza colpa, per te solo degenero. Mi sono umiliata a pregarti, forte di una decisione: questo giorno sarà l’ultimo, del mio dolore o della mia vita. Pietà, pietà di una donna innamorata. Riconosco anch’io il destino della nostra famiglia: avere desideri proibiti. Ma ora non so più dominarli. Ti seguirò anche attraverso il fuoco, per rocce e fiumi vorticosi. Ti seguirò…
(traduzione di A. Traina)
 
Abbiamo iniziato questa lezione con Fedra, impersonata da Maria Teresa Spina, che mi accompagnerà al posto di Barbara, che non è disponibile. Volevo farvi sentire direttamente dalla sua voce il tormento e la passione forte di Fedra per suo figlio Ippolito. Ti ricordi quando hai recitato questa parte?
MARIA TERESA: Sì. Fu davvero molto forte questa esperienza. Ero una ragazzina, però addirittura ricordo che una volta mi sentii quasi male in scena, tanta fu l’intensità di questo pezzo.
Pensate all’intensità della passione in questo testo di Seneca, ma anche in quello della Fedra di Racine, nel Seicento.  Nel Settecento e nel secolo della ragione le passioni invece vengono smorzate, frenate dai filosofi dei “lumi”. Rimaniamo nell’ambito del teatro. Avevamo già introdotto questo secolo nella lezione precedente, con la lettura delle “Lettere persiane” di Montesquieu e con i “Viaggi di Gulliver” di Swift. Ora ci spostiamo nel teatro italiano, quello in particolare del grandissimo nostro Carlo Goldoni.
Siamo in Venezia, in un percorso che attraversa il Settecento (la maturità della sua produzione è intorno alla metà del secolo). Goldoni è colui che ha riformato il teatro in Italia, dando dignità di opera scritta a quelle che invece erano soltanto arlecchinate e improvvisazioni, ancora nel nostro paese, mentre in Europa, lo abbiamo visto proprio attraverso il personaggio che tu ci hai ricordato, la Fedra di Racine, e anche, in precedenza, attraverso l’opera di Moliére, in Francia, c’era tutt’altra dignità per il teatro.
Goldoni cerca appunto di affermare il teatro scritto e di affrancarsi dalla commedia dell’arte, dalle sue volgarità e anche dai tipi fissi delle maschere. Comincia infatti il suo approfondimento psicologico, perché è convinto che la scena deve affrontare la realtà e per farlo bisogna entrare nella psicologia, non così indistinta, di una maschera, ma quella anche varia, molteplice e piena di mille sfumature, delle persone che incontriamo nella vita di tutti i giorni. E uno di questi personaggi che introduciamo subito è Mirandolina della “Locandiera”. Poi ricostruiremo tutta la vicenda del teatro goldoniano, ma prima vogliamo farvi ascoltare direttamente, attraverso un famoso monologo e poi un dialogo con il cavaliere di Ripafratta, la psicologia di questo che è uno dei primi grandi personaggi femminili della nostra drammaturgia.
L’antefatto è che nella locanda di Mirandolina ci sono diversi avventori. Tutti corteggiano te, Mirandolina, tu li tieni a bada, con un servo, Fabrizio, che è innamorato di te e che hai promesso a tuo padre di sposare. Ma ora lo hai messo un po’ da parte, parchè stai curando gli interessi della locanda e sei costretta un po’ ad assecondare le manie, diciamo, e le avances dei tuoi clienti, pur tenendoli sempre a freno.  Qui c’è il momento in cui, di fronte a quello che accade con il marchese e il conte, tu definisci qual è il ruolo di una donna in genere e di una donna come te in particolare. Leggi questo passo…
 
(legge Mariateresa)
CARLO GOLDONI, LA LOCANDIERA, ATTO I, SCENA IX
MIRANDOLINA: Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. É nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
 
Vedete con quale serenità e gioia Goldoni presenti l’arte femminile. Considerate (siamo nel Settecento, in una società ancora arretrata) la grande modernità di Goldoni nel presentare una figura di donna così a tutto tondo e così protagonista. Era un’operazione che aveva già avviato un po’ Moliére nel Seicento, con la “Scuola delle mogli”, che insegnava alle donne a tenere a bada e a sistemare bene i loro mariti, in quel caso. Mirandolina, tornando alla nostra commedia, si metterà d’impegno a conquistare il cavaliere, che è un misogino, uno che l’ha giurata alle donne, che non le considera più, se non come strumento, e non si farà mai abbindolare da loro. Allora Mirandolina usa le sue arti….
 
(il professore nei panni del cavaliere, Maria Teresa in quelli di Mirandolina)
LA LOCANDIERA, ATTO II, SCENA XV
MIRANDOLINA: Permette, illustrissimo? (Entrando con qualche soggezione.)
CAVALIERE: Che cosa volete? (Con asprezza.)
MIRANDOLINA: Ecco qui della biancheria migliore. (S'avanza un poco.)
CAVALIERE: Bene. Mettetela lì. (Accenna il tavolino.)
MIRANDOLINA: La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: Le lenzuola son di rensa. (S'avanza ancor più.)
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l'ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: Per esser lei! Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me.
MIRANDOLINA: Per un Cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). MIRANDOLINA: (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v'incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m'incomodo mai, quando servo Cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non occorr'altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così).
MIRANDOLINA: La metterò nell'arcova.
CAVALIERE: Sì, dove volete. (Con serietà.)
MIRANDOLINA: (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (Da sé, va a riporre la biancheria.)
CAVALIERE: (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). MIRANDOLINA: A pranzo, che cosa comanda? (Ritornando senza la biancheria.)
CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell'altra, lo dica con libertà.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l'attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col Conte e col Marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler fare all'amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se ho mai dato loro un segno d'affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So io ben quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch'io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini, che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (È curiosa costei).
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima. (Finge voler partire.)
CAVALIERE: Avete premura di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono...Se la m'intende, e' mi fanno i cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: Troppa bontà, illustrissimo. (Con una riverenza.)
CAVALIERE: Ed essi s'innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l'ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch'io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l'onore d'aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo.
CAVALIERE: Via, basta così. (Ritira la mano.)
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que' due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch'io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l'oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto in conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell'attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per quale motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (Che diavolo ha costei di stravagante, ch'io non capisco!). MIRANDOLINA: (Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando).
CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me... Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s'innamorano.(Mi caschi il naso, se avanti domani non l'innamoro).
Scena sedicesima
Il cavaliere, solo
CAVALIERE: (solo): Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un'altra. Ma per fare all'amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s'innamorano delle donne.

 
In realtà questo povero cavaliere poi si innamora perdutamente, cade come una pera, cotto proprio dalle attenzioni di Mirandolina, che nel finale dovrà rimediare. Questa scena la riassumiamo. Vedendo che si è creato un grande trambusto, tra l’altro il servo è geloso delle sue attenzioni per il cavaliere, il conte e il marchese se la contendono sempre e fanno quasi a botte per lei, il cavaliere interviene duramente (e c’è una scena che non vi riproduco ma che è divertentissima, in cui la situazione è diventata insopportabile), a quel punto la locandiera fa il grande passo e decide di liberarsi da quel problema, dicendo agli altri che sposerà Fabrizio, il servo. Così sarà riproposta l’onestà fondamentale di questo mestiere.
A proposito di questo, Goldoni vede sicuramente in Mirandolina la donna autonoma, che, per tirare avanti una locanda, deve anche cedere a dei mezzi compromessi come quelli di accettare i corteggiamenti, le attenzioni dei clienti. Certamente, comunque, nell’economia della commedia chi fa una brutta figura è l’uomo, mentre la donna risulta colei che dispone il gioco e lo conduce verso la conclusione da lei desiderata.
“La locandiera” è del 1753, è stata rappresentata al teatro dove recitava la compagnia di Medebach, un capocomico che lavorava con Goldoni. Il nostro autore ha avuto un rapporto molto contrastato con l’ambiente teatrale  della Venezia del tempo. I rivali erano l’abate Gozzi e il Chiari, che praticavano un teatro diverso, che non affrontava la realtà, di pura evasione: raccontavano favole sulla scena.
Invece lui sta proponendo la sua riforma, che è cominciata prima della “Locandiera”. Frequentando questo ambiente, si è reso conto di quali sono le necessità del teatro italiano e ha desiderato subito eliminare i guasti della commedia dell’arte. Passare a un testo scritto, intanto. E per andare per gradi, perché Goldoni aveva questa grande capacità di procedere con prudenza, scrive prima la parte del protagonista, nel “Momolo cortesan”, poi anche le altre parti nelle commedie successive, fino alla prima interamente scritta, “La donna di Garbo”.
Anche con le maschere va per gradi. Mantiene magari una maschera, ma accanto a questa presenta altri personaggi, con psicologia più definita, e poi arriverà a eliminarle completamente. Questa, “La locandiera”, è una commedia nella quale le maschere non esistono più. Ma se pensiamo per esempio alla “Famiglia dell’antiquario”, che ha scritto qualche anno prima, lì c’è ancora Pantalone, il mercante avaro, che comunque già in quell’opera ha una psicologia più approfondita rispetto al solito atteggiamento della sua maschera.
È la commedia nella quale in fondo Goldoni vuole colpire i vizi dell’aristocrazia veneziana, che era decaduta e non riusciva a mantenere i propri patrimoni, spendeva troppo. Il protagonista infatti spende moltissimo per comperare oggetti d’antiquariato. Suo figlio si innamora della figlia di Pantalone, che a questo punto, vedendolo sperperare tanto, entra in gioco, per modificare questo comportamento. Interviene anche nei confronti della consuocera, che spende in altro verso, organizzando feste in casa, tenendo salotto, con la stessa futura nuora, e ospitando i cicisbei, i ganimedi di quel tempo, che erano un passatempo costoso: infatti le due donne facevano a gara per fare dei regalini a questi bei giovani che frequentavano la casa, secondo un’usanza particolare del tempo, con cui si consentiva alle mogli un po’ di spazio, spesso non andando oltre i limiti. Comunque Pantalone interviene a gamba tesa anche contro la consuocera. Chiude tutti questi ricevimenti di ganimedi, di cicisbei, motivo di litigi tra suocera e nuora. Chiude la porta anche ai vari rivenditori di anticaglie che vengono a visitare l’antiquario per fare soldi. E mette a posto l’economia della famiglia. E così Goldoni, nella “Famiglia dell’antiquario”, ha dato un colpo ai vizi dell’aristocrazia.
Poi però, avendo visto, in occasione di un viaggio, che cosa sia il mondo dei mercanti londinesi, si rende conto di quelli che sono a loro volta i difetti dei mercanti di Venezia alla Pantalone, e cioè che sono troppo attaccati al danaro, mentre quelli londinesi considerano sì l’importanza del danaro, però sfidano di più la realtà investendolo, tanto che i veneziani, essendo troppo prudenti, non riescono a reggere la concorrenza. Allora, per correggere, anche qui, questo comportamento dei suoi contemporanei, nel settore della mercatura, scrive un’altra commedia, “I rusteghi”. Sono i rustici, i rozzi, due mercanti che per i loro interessi trascurano i problemi anche sentimentali della famiglia, soprattutto dei loro figli. L’evoluzione della commedia è che alla conclusione i due mercanti impareranno a  comportarsi e a non trascurare completamente i sentimenti, perché rischiano di perdere la famiglia, di perdere un matrimonio tra i rispettivi figli e anche di perdere la tranquillità dei rapporti. Si rendono conto che non possono regolare tutta la loro vita sugli interessi, non possono essere troppo taccagni, avari.
Sono gli esempi di come Goldoni abbia trattato tre categorie sociali: nella “Famiglia dell’antiquario” ha colpito i difetti dell’aristocrazia, nei “Rusteghi” i difetti del mondo dei mercanti, il mondo più borghese, e nel caso di Mirandolina, nella “Locandiera”, ha trattato del popolo, di cui non sa parlare male, perché ha per esso una grande simpatia, che dimostrerà in tante commedie successive, soprattutto nelle “Baruffe chiozzotte” e nel “Campiello”.
Quello che mi preme ricordare di Goldoni prima di passare a questo argomento è che, quando lui si avvia alla riforma del teatro, volendo creare un testo scritto, volendo eliminare le maschere, volendo eliminare anche la volgarità che era tipica della commedia dell’arte, con quel residuo di assurda considerazione che la scena vada avanti soltanto solleticando i bassi istinti della platea (ancora dura questo modo di fare teatro, sembra che la gente preferisca soltanto questo, forse perché noi stessi abbiamo abituato male il pubblico), insomma cercando di cambiare i gusti del pubblico del suo tempo, Goldoni dice, nella sua grande mitezza e anche modestia, di non aver letto molto, ma di aver letto almeno due grandi libri, che sono il libro del Mondo e il libro del Teatro.
Naturalmente si tratta di due grandi metafore. Vuole intendere che per fare teatro bisogna conoscere prima di tutto la realtà, e prepararsi a rappresentarla; ma nel momento in cui si vuole entrare nella struttura fisica della scena bisogna conoscere bene l’ambiente, quindi conoscere il libro del Teatro, conoscere cioè il mondo dei comici, dei capocomici, del pubblico, anche la tecnica del palcoscenico, la scenografia, i costumi, anche, all’interno di tutto questo, i piccoli problemi quotidiani che vengono sempre fuori. E quello era un periodo in cui l’autore di teatro era una sorta di grande artigiano della scena, aveva una sua impresa, si potrebbe dire, insieme con il capocomico. Per esempio Goldoni e Medebach gestivano insieme il loro teatro e si dividevano gli incassi.
Però quello degli attori era un mondo capriccioso, spesso minato dall’abitudine di recitare in una maniera esagerata, spropositata, mentre Goldoni voleva introdurre un certo limite nella manifestazione delle passioni, cioè la quotidianità, che era una normalità.
Doveva combattere con i problemi economici, doveva combattere con l’autorità del tempo, anche con le critiche e i problemi che gli creavano i nemici. Quando uno è bravo ha sempre gli invidiosi che cercano di rovinare il suo lavoro. In questo caso li abbiamo nominati prima, il Gozzi e il Chiari, che vedevano che la gente abbandonava i loro teatri per spostarsi in quello di Goldoni, dove c’era più divertimento e più coinvolgimento.
Quando si reca a Parigi e scrive le sue “Memorie”, Goldoni ricorda tutti questi particolari della stagione veneziana. Andrà nella capitale francese perché le critiche saranno diventate a un certo punto impossibili da sostenere. Infatti saluterà il suo pubblico con una commedia che ha un sapore molto nostalgico, intitolata “Una delle ultime sere di Carnevale”, appunto volendo indicare con questo il suo abbandonare la gioia della vita dentro Venezia.
Ma prima di questo distacco dal suo pubblico Goldoni aveva attraversato un momento brutto, che era stato un insuccesso. Stava mettendo in scena una commedia dal titolo “L’erede fortunata”. Dopo le prime scene il pubblico rumoreggiava, perché non riusciva ad accettare certa recitazione, quella di cui parlavamo prima. Allora Goldoni  chiude il sipario e in poco tempo mette tutto a posto. Osservando la gente che gli si accalca intorno cercando di sapere cosa bisogna fare, tra attori, capocomico, anche i critici che sono arrivati per godersi lo spettacolo e stanno lì fingendo di condividere la pena dell’autore, ma in realtà sono contenti di avere provocato anche loro, con i fischi, con i capoclack e altro, questo insuccesso, osservando tutto questo, affida un testo scritto da imparare subito a memoria a un’attrice, che alla riapertura del sipario ricompare dicendo, tra le altre cose, che la commedia doveva essere intitolata “L’erede sfortunata”; così suscita subito il sorriso, il coinvolgimento del pubblico e a quel punto può dare il messaggio che l’autore, per rimediare a tutto, decide di rappresentare questa sera un’altra commedia di successo (infatti sarà una commedia indovinata, “La vedova scaltra”, tra l’altro al centro di polemiche) e promette per il prossimo anno ben sedici commedie nuove.
Goldoni aveva già immaginato, nei titoli, altrettante commedie. Anzi quell’anno ne avrebbe aggiunto una diciassettesima. E i loro testi erano niente altro che ispirati alle persone che lo circondavano nel momento in cui lui scriveva quel biglietto per l’attrice, riferiti appunto alle liti fra gli attori, ai critici, alle altre piccole manie che osservava intorno a sé, che si manifestavano come segno della debolezza dell’animo umano.
Infatti Goldoni è un autore del Settecento proprio per questo: racconta razionalmente la realtà e si mantiene poi nei limiti della mediazione razionale, quasi niente concedendo all’esagerazione e soprattutto all’esasperazione delle passioni. Arrivederci alla prossima lezione.
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