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TEATRO BAROCCO: CERVANTES, RACINE, MOLIERE




Antologia II Anno - 7^ Lezione (video)
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TEATRO BAROCCO: CERVANTES, RACINE, MOLIERE

Settima lezione, con Barbara. Ci spostiamo verso il momento magico del Seicento, il teatro, cui è dedicata questa lezione.  La scena prevarrà anche su noi stessi, che saremo  protagonisti per una piccola parte, come vedrete. Introduciamo subito uno dei celebri momenti della “Fedra” di Racine. Ci spostiamo in Francia. Siamo al dramma di Fedra, la moglie di Teseo, innamorata del figliastro Ippolito, che sta dialogando con la sua cara serva Enone. Sentiamo questa scena di gelosia. Barbara sarà Fedra e io Enone…
 
JEAN RACINE, FEDRA, ATTO IV, SCENA VI
FEDRA:  Mia cara Enone, sai cosa ho appena saputo?
ENONE: No, ma tremo, signora. Impallidii al pensiero che vi spinse ad uscire. Ho temuto un eccesso a voi fatale.
FEDRA: Enone, ho una rivale.
ENONE: Come?
FEDRA: Chi l'avrebbe creduto? Ippolito che ama! Non posso dubitarne. Quel selvaggio nemico, quel cuore mai domato, a cui il rispetto è offesa, le lacrime un fastidio, questa tigre che mai sfiorai senza timore, ora si sottomette, si riconosce vinto. È Aricia che ha trovato la strada del suo cuore.
ENONE:  Aricia?
FEDRA: Ahimè, dolore mai provato! A che nuovo tormento mi serbavo! Tutto ciò che ho sofferto: le paure, gli slanci, la furia dei miei sensi, l'orrore del rimorso, l'ingiuria insopportabile del crudele rifiuto, non erano che un piccolo assaggio dello strazio che mi tortura adesso. S'amano! Con che inganno sfuggirono ai miei occhi? E come si incontravano? Da quando? Dove? Tu lo sapevi. Perché mi lasciasti sperare? Non potevi informarmi di questo amore occulto? Li hanno visti sovente incontrarsi, parlare? Dove si nascondevano? Nelle foreste, forse? Ma no, loro potevano vedersi in piena luce: il cielo ne approvava i sospiri innocenti. Ahimè, senza rimorsi potevano seguire il loro desiderio. Per loro risorgeva luminoso il mattino! E io, triste rifiuto di tutta la natura, mi nascondevo al giorno, io cercavo la tenebra, e un dio solo, la morte, osavo supplicare, attendendo soltanto il momento di spegnermi. Mi nutrivo di fiele, bevevo le mie lacrime. E nemmeno potevo, sorvegliata da te, annegare me stessa nel mio pianto. Gustavo in segreto, tremando, quel brivido di morte e, celando l'angoscia sotto un viso sereno, non potevo neppure darmi sfogo piangendo.
ENONE: Non trarranno alcun frutto dal loro amore inutile. Non si vedranno più.
FEDRA: Si ameranno per sempre. Mentre ti parlo, loro, pensiero insopportabile!, giurano di lottare contro la mia follia e, malgrado l'esilio che sta per separarli, fanno mille promesse di non lasciarsi mai. Sono felici. Ah, non posso sopportarlo! Enone, abbi pietà della mia gelosia. Voglio perdere Aricia. Bisogna risvegliare la rabbia di Teseo contro quel sangue odiato. Non si limiterà a lievi punizioni: col suo crimine Aricia supera i suoi fratelli. La gelosia darà forza alle mie preghiere...Ma cosa sto dicendo? Mi vacilla la mente. Io, gelosa, a implorare il mio sposo? Teseo è vivo e ancora brucio. E per chi? Quale uomo pretende la mia voglia? A ogni sillaba ritti s'alzano i miei capelli. I miei delitti ormai colmano la misura. Io respiro ad un tempo l'incesto e l'impostura. Le mie mani omicide, già pronte alla vendetta, ardono di tuffarsi nel sangue più innocente. Miserabile! Vivo! E sopporto la vista di questo sacro sole, di cui sono progenie. Il padre degli dei è mio antenato. Il cielo è pieno dei miei avi. Ah dei, dove nascondermi? Nella notte infernale. Ma che dico? Mio padre tiene l'urna del fato. La sorte l'ha riposta nelle sue giuste mani: laggiù Minosse giudica i pallidi mortali. Ah, come fremerà quell'ombra inorridita, quando vedrà la figlia presentarsi ai suoi occhi e confessare colpe mostruose, alcune forse sconosciute anche agli inferi. Padre mio, che dirai all'orrido spettacolo? Mi sembra di vedere caderti dalla mano l'urna. Ahimè, ti vedo: con supplizi inauditi diventerai tu stesso  del tuo sangue carnefice. Perdona: un dio crudele perse la tua famiglia. Si è vendicato, vedi, infiammando tua figlia. Della tremenda colpa, di cui porto vergogna, non ho goduto un attimo. Colpita dal destino fino all'ultimo fiato, affranta dalla pena, la mia vita ti rendo.
ENONE: Signora, respingete una ingiusta paura. La vostra colpa in fondo è una colpa scusabile. Voi amate. Non si vince contro il proprio destino. Siete stata rapita da un fascino fatale: questo è forse un prodigio inaudito tra noi? L'amore ha vinto forse soltanto il vostro cuore? La debolezza umana è un fatto naturale: siete donna e subite la sorte di una donna. Piangete per un giogo impostovi da tempo. Gli dei stessi, gli dei che stanno sull'Olimpo, che tuonano terribili contro le nostre colpe, anch'essi a volte ardono di fuochi non legittimi.
FEDRA: Che sento? Che consigli mi dai? Con che coraggio? Così, fino alla fine, tu mi vuoi avvelenare. Maledetta, ecco come mi hai rovinata. Al giorno, che volevo evitare, tu mi hai condotta, tu. Tu, con le tue preghiere, mi strappasti al dovere. Io lo evitavo, Ippolito, e tu me lo mostrasti. Perché ti sei immischiata? Perché quell'empia [bocca, accusandolo, ha osato oscurargli la vita? Forse lui morirà, forse il voto sacrilego di un padre dissennato è già stato esaudito. Io non ti ascolto. Vattene, esecrabile, va' e lascia a me la cura del mio destino infame. Possa il cielo pagarti degnamente. E il supplizio che meriti spaventi quelli che, come te, con vilissime astuzie aiutano chi è principe nelle sue debolezze, lo spingono agli abissi a cui tende il suo cuore, spianandogli la strada del delitto. Odiosissimi adulatori, voi: il dono più funesto di quanti ne dia il cielo ai re.
ENONE (sola ): Ah dei, ho fatto tutto, tutto, per lei. Tutto lasciai. E questo è il premio che mi merito.

 
Si chiude questo passo dominato dalla gelosia di Fedra. Nella fantasia di Racine è un personaggio appassionato, ma nello stesso tempo ha la lucidità di analizzarsi e anche di giudicarsi. Poi ci sarà il momento in cui dichiarerà il suo amore disperato per il figlio Ippolito. E infine si ucciderà. Una pagina straordinaria della letteratura, su un tema che aveva interessato anche il grande Seneca.
Il teatro del Seicento ha per protagonista anche il grande Moliére, l’autore soprattutto dell’”Avaro” e del “Malato immaginario”, le due commedie che più si ricordano di lui. Altre sono “Il misantropo”, “Il tartufo” e così via. Del “Malato immaginario” si ricorda che fu l’ultima rappresentazione di Moliére. Infatti mentre recitava si sentì male, tornò a casa e morì. Si racconta che non ci fosse la sua compagna, che era la figlia della sua prima amante, tutte e due commedianti della sua compagnia, e che non ci fosse proprio perché, come si diceva, lo tradiva. A parte questo dato biografico sulle circostanze della sua morte, rivediamo, dal “Malato immaginario”, la scena di Argante alle prese con questo medico, o infermiere, chiamiamolo così, che deve praticargli un clistere. Erano i sistemi usati, in modo superficiale, per curare le persone. E’ una gustosa scena che riprendiamo da uno dei filmati relativi alla nostra attività teatrale in questo liceo. Oggi,  gli studenti che lavoreranno con me in questa lezione emergono dal passato recente…
(Registrazione dal “Malato immaginario, Atto III, Scena V, con allievi del liceo “Galanti” di Campobasso, Teatro Savoia)
MOLIÉRE, IL MALATO IMMAGINARIO, ATTO III, SCENA V
ARGANTE: Ah! fratello, chiedo licenza.
BERALDO: Come? che cosa dovete fare adesso?
ARGANTE: Un clisterino; me la sbrigo in fretta.
BERALDO: Siete un bel tipo. Ma non potete stare un momento senza lavativi e senza medicine? Non lo potete rimandare a un’altra volta e rimanere un po’ in pace?
ARGANTE: Signor Olezzanti, facciamolo stasera o domani mattina.
OLEZZANTI (a Beraldo): Voi di che v’impicciate? con quale diritto vi opponete a una prescrizione fatta dal medico e volete impedire al Signore di fare il clistere? Avete una bella faccia tosta!
BERALDO: Oh! Signore, come si vede che non siete abituato a guardarla in faccia, la gente.
OLEZZANTI: Non si può scherzare in questo modo con i rimedi e farmaci indicazione del medico; dirò al dottor La Squacquera che mi è stato impedito di eseguire i suoi ordini e di esplicare le mie funzioni. Vedrete, vedrete…
ARGANTE: Fratello, finirete per provocare un disastro.
BERALDO: Il gran disastro di non fare un lavativo prescritto dal dottor La Squacquera! Una volta ancora, fratello, possibile che non ci sia un mezzo per guarirvi della malattia dei medici e che vogliate trascorrere tutta la vita sepolto dai loro rimedi?
ARGANTE: Santo Dio! fratello, voi parlate da persona che sta bene; se foste al posto mio, cambiereste tono. È facile scagliarsi contro la medicina quando si è in perfetta salute.
BERALDO: Ma voi di che male soffrite?
ARGANTE: Adesso mi fate arrabbiare. Vorrei che l’aveste voi, il mio male, e vedremmo se cicalereste tanto. Oh! arriva il dottor La Squacquera.
LA SQUACQUERA: Ne ho sentite delle belle, giù alla porta; qui ci si prende gioco delle mie prescrizioni, ci si rifiuta di assumere i rimedi che ho ordinato.
ARGANTE: Signore, non è…
LASQUACQUERA: Ci vuole un bel coraggio, siamo di fronte all’aperta ribellione di un malato al proprio medico.
ANTONIETTA: È spaventoso.
LASQUACQUERA: Un clistere, che avevo con tanto piacere ideato io stesso.
ARGANTE: Io non…
LASQUACQUERA: Composto e formato secondo le regole dell’arte.
ANTONIETTA: Ha sbagliato.
LASQUACQUERA: E che avrebbe prodotto nelle viscere un effetto meraviglioso.
ARGANTE: Mio fratello…
LASQUACQUERA: Mandarlo indietro con disprezzo!
ARGANTE: È stato lui…
LASQUACQUERA: Poiché vi siete sottratto all’obbedienza che si deve al medico…
ANTONIETTA: È una cosa che grida vendetta.
LASQUACQUERA: Poiché vi siete dichiarato ribelle ai rimedi che vi ordinavo…
ARGANTE: Ma niente affatto.
LASQUACQUERA: Devo comunicarvi che vi abbandono alla vostra cattiva complessione, all’intemperie delle vostre viscere, alla corruzione del vostro sangue, all’acredine della vostra bile, alla fecciosità dei vostri umori.
ANTONIETTA: Ben fatto.
ARGANTE: Dio mio!
LASQUACQUERA: E voglio vedervi cadere, fra quattro giorni, in uno stato di incurabilità.
ARGANTE: Ah! misericordia!
LASQUACQUERA: Preda della bradipepsia…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: E passare dalla bradipepsia alla dispepsia…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: Dalla dispepsia all’apepsia…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: Dall’apepsia all’acolia…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: Dall’acolia alla dissenteria…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: Dalla dissenteria all’idropisia…
ARGANTE: La Squacquera!
LASQUACQUERA: E dall’idropisia alla vita che se ne va via per colpa della vostra follia!

 
Erano Giuseppe Lamenta, Domenico Florio e Veronica Geremia in “Dune”, del 2007. Dopo questa scena sapida, divertente, rivediamo altri momenti delle lezioni precedenti, sfruttando il nostro laboratorio teatrale. Ecco Lady Macbeth, che non riusciva a mandare via il sangue dalle sue mani, rappresentata da una nostra alunna…
 
WILLIAM SHAKESPEARE. MACBETH, ATTO I, SCENA V
LADY MACBETH: Via, dannata macchia! Via, ho detto! Una, due: e allora, è il momento di farlo. L’inferno è buio. Vergogna, mio signore, vergogna! Un soldato che ha paura? Che bisogno c’è di temere che si sappia, se nessuno può chiamarci a renderne conto? Eppure, chi poteva prevedere che il vecchio avesse dentro tanto sangue? (…)  Il Signore di Fife aveva una moglie: dov’è ora? E queste mani  non saranno mai pulite?
 
Era Francesca Rossodivita, in “Don Chisciotte”, del 2010, al teatro Savoia di Campobasso. Ricorderete tutti anche Giordano Bruno. Ve lo facciamo rivedere, in questo passo in cui si muove contro la guerra, che anima tutti i regnanti del tempo…
 
DAL FILM “GIORDANO BRUNO” DI GIULIANO MONTALDO
BRUNO: Quando ho detto che i procedimenti usati dalla chiesa non sono quelli degli apostoli, poiché la Chiesa usa il potere e non l’amore, quando ho detto questo, non avevo torto. Quando ho detto che la mia filosofia è la libera ricerca e non il dogma, non ho sbagliato. Ho sbagliato quando ho creduto di poter chiedere alla Chiesa di combattere un sistema di superstizione, d’ignoranza, di violenza. Ho sbagliato quando ho creduto di poter riformare la condizione degli uomini con l’aiuto di questo o quel principe. Ho visto, tutti i tentativi che ho fatto, che mortificazione! Enrico terzo di Francia...sangue! Elisabetta d’Inghilterra…sangue! Rodolfo secondo d’Asburgo…sangue! E addirittura il monarca che proclama di sedere più in alto di tutti...sangue! Che mortificazione! Chiedere a chi è al potere di riformare il potere, che il cielo gli dà !
  
Era Paolo Terebini, sempre nel “Don Chisciotte” messo in scena dal liceo “Galanti” al teatro Savoia. Ed ora ritorniamo indietro allo stesso Bruno, quando arringa per gli studenti della Sorbona. Ce lo rappresenta sempre Paolo, in questa seconda nostra ricostruzione dalla sceneggiatura del film “Giordano Bruno” di Giuliano Montaldo. Una contaminazione tra letteratura, teatro, cinema e laboratorio con studenti…
 
DAL FILM “GIORDANO BRUNO” DI GIULIANO MONTALDO
Se la terra gira intorno al sole, così come gli altri pianeti girano intorno al sole, ci sono altri soli, altri sistemi solari sparsi nell’universo. (applausi) Se ciò è vero, allora Dio non è in alto, sopra di noi, fuori dal mondo, ma ovunque, in ogni particella di materia, inerte o vivente che sia; è la materia stessa. (applausi) Voi, voi, voi, gli stupidi pedanti! Hanno fatto della Sorbona una bottega dell’ignoranza! (applausi) Noi vogliamo una filosofia libera, una libera ricerca scientifica, mentre voi imponete la vostra volontà di sopraffazione! (applausi) Noi vogliamo l’autonomia del pensiero e della scienza da ogni autorità religiosa, civile o accademica! Voi volete soffocare ogni manifestazione dello spirito! (applausi) Così, così, così, possano essere scacciati dalla Sorbona e da ogni università i bigotti ed i pedanti! Amen amen amen. Questa università non aperta a tutti non è giusta. (applausi) Le cattedre ai sapienti, non ai dogmatici. (applausi) I banchi a disposizione di chiunque abbia amore per le scienze. (applausi) Un insegnamento  veramente libero. Una società in cui il lavoro delle mani e quello dell’ingegno siano onorati in egual misura. Soltanto in questo modo può nascere l’homo novus. (applausi)
 
E ancora, sempre in questo fuoco d’artificio che ci siamo riservati, anche per meravigliarvi, stupirvi (vogliamo essere barocchi pienamente oggi), vi presentiamo la scena di Maritornes, appunto dal “Don Chisciotte” di Cervantes, nella nostra riduzione teatrale per lo spettacolo del Savoia. Potrete apprezzare e valutare la differenza tra il testo del romanzo, riportato nella lezione dedicata allo stesso Cervantes, e questa versione dialogata per la scena….
 
REGISTRAZIONE DALLO SPETTACOLO “DON CHISCIOTTE”, TEATRO SAVOIA
LOCANDIERE- Di che male soffre?
SANCIO- Non è niente. E’ venuto giù dall’alto di un picco e ha le costole un po’ indolenzite
LOCANDIERA- Forza, curiamo il nostro ospite
FIGLIA- Sì, mamma. Maritornes, su, aiutami!
MARITORNES- Subito, padrona
(preparano il letto di paglia e massaggiano Don Chisciotte)
LOCANDIERA- Ma questa mi sembra più una bastonatura che una caduta
SANCIO- Non sono state bastonate. Il fatto è che la roccia aveva molte punte e sporgenze, e ciascuna ha lasciato il suo livido…Faccia in modo, signora, che avanzino un po’ di filacce, che non mancherà hi ne avrà bisogno; perché anche a me mi dolgono un po’ i lombi
LOCANDIERA- Allora dovete essere caduto anche voi
SANCIO- No, non sono caduto, ma a vedere cadere il mio padrone ho avuto un tale soprassalto che mi sento spezzato tutto il corpo, come se m’avessero date mille bastonate
FIGLIA- Sì, può darsi benissimo, perché a me molte volte m’è capitato di sognare che cadevo giù dall’alto d’una torre e quando mi svegliavo mi sentivo spossata come se fossi veramente caduta
SANCIO- E qui è il colmo, signora, che io, senza sognar nulla, anzi stando più sveglio di ora, mi trovo appena con qualche livido in meno  del mio signore
MARITORNES- Come si chiama questo signore?
SANCIO- Don Chisciotte della Mancia, ed è cavaliere di ventura
MARITORNES- Che cos’è un cavaliere di ventura?
SANCIO- Siete così novella al mondo che non lo sapete? Sappiate, sorella mia, che cavalieri di ventura è una cosa che in due parole si può veder bastonato  o imperatore. Oggi è la più disgraziata di tutte le creature del mondo e domani avrà due o tre corone di regni da regalare al suo scudiero
LOCANDIERA- E com’è che voi che siete scudiero di questo bravo signore, a quanto pare, non avete neppure una contea?
SANCIO- Ancora è presto , perché è solo un mese che andiamo cercando avventure, e finora non ce n’è capitata nessuna. Ma se il mio signore guarisce da questa ferita e io non rimango storpio, non farei a cambio delle mie speranze con il più grande titolo di nobiltà della Spagna
DON CHISCIOTTE (prende per mano la locandiera)- O squisita signora, credetemi, ben fortunata potete reputarvi di aver alloggiato in questo vostro castello la mia persona, che è tale che se non la lodo è solo perché chi si loda s’imbroda, ma il mio scudiero vi dirà chi sono. Io vi dico solo che eternamente porterò scritto nella memoria il servigio che mi avete reso, per esservene grato finché avrò vita; e se fosse piaciuto agli alti cieli che l’amore non mi tenesse vincolato alle sue leggi con gli occhi di quella ingrata il cui nome pronuncio tra i denti, quelli di questa dolce donzella sarebbero i signori della mia libertà
LOCANDIERA- E’ proprio un signore
FIGLIA- E’ diverso da tutti gli altri
MARITORNES- E come parla difficile
LOCANDIERA- Andiamo ora. Facciamoli riposare
(Buio. Maritornes entra nella stanza cercando il mulattiere, che l’aspetta più in là, e urta le braccia di Don Chisciotte, che la scambia per la figlia della locandiera)
DON CHISCIOTTE – Vorrei essere in grado, bella e alta signora, di poter ripagare così eccelsa grazia qual è quella che con la vista della vostra grande beltà m’avete reso, ma la fortuna, instancabile nel perseguitare i buoni, ha voluto cacciarmi in questo letto così rotto e spezzato che quand’anche la volontà mia volesse soddisfare alla vostra, mi sarebbe impossibile. Tanto più che si aggiunge a quest’impossibilità un’altra ben più grande, che è la fede promessa all’impareggiabile Dulcinea del Toboso, unica signora dei miei più segreti pensieri; che se non vi fosse quest’ostacolo non sarei un così volgare cavaliere da lasciare in bianco la propizia occasione in cui mi ha collocato la bontà vostra
(Il mulattiere sferra un pugno a Don Chisciotte e lo pesta; crolla il letto e accorre il locandiere con un lume in mano)
LOCANDIERE- Maritornes! Dove sei?! Sei sempre tu, donnaccia!
(Maritornes si rifugia impaurita nel letto di Sancio, che si sveglia) 
LOCANDIERE- Dove sei, donnaccia? Questa è certamente una delle tue!
(segue un gran parapiglia, con Sancio che si mena con Maritornes, il locandiere che cerca di battere lei ecc. Il mulattiere picchia Sancio, Sancio la serva, la serva lui, il locandiere la serva, mentre si spegne il lume del locandiere e se le danno all’impazzata. Buio, luce sui due di prima)

 
Il locandiere era Simone Brundu, Sancio Panza Francesco Ippolito, Don Chisciotte Domenico Florio, la locandiera Vittoria Pillarella, la figlia Carolina Diodati, Maritornes Ira Turyanytsya, il mulattiere Jakson Palmieri. Vi diamo appuntamento alla prossima lezione.
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