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LA DISSIMULAZIONE ONESTA E L’ARTE BAROCCA




Antologia II Anno - 6^ Lezione (video)
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LA “DISSIMULAZIONE ONESTA” E L’ARTE BAROCCA
 
Sesta lezione di Antologia, con Barbara. Eravamo al punto di passaggio dalla poesia barocca al teatro. Avviamo la nostra riflessione sul contrasto fra realtà e apparenza. C’è un testo, nel Seicento, che è fondamentale per capire l’atteggiamento di questa società nei confronti della finzione. E’ il testo di Torquato Accetto, “Della dissimulazione onesta”. Dissimulazione significa finzione. L’aggettivo “onesta” indica l’idea che la finzione sia dovuta, sia necessaria, sia giustificata, e addirittura sia fondamento del vivere sociale. Leggi Barbara:
 
TORQUATO ACCETTO, DELLA DISSIMULAZIONE ONESTA, CAPITOLO IX
Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di produrre brutti accidenti.
 
In quest’ultima affermazione c’è sia l’idea della ricerca di ciò che è bello, nel senso che è un po’ più scenico, che dell’accidente che può portare, cioè della minaccia del negativo che incombe sulla società: il tema della precarietà…
 
Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de’ corpi che stanno soggetti alla mutazione, e veggansi tra questi i fiori, e tra’ fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dissimula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una semplice superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch’ella sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par che disiata avanti/fu da mille donzelle e mille amanti;
 
Attenzione. La rosa bella è però caduca, è destinata a sfiorire.. Ritorna il tema della brevità dell’esistenza. Torquato Accetto però sta parlando della finzione: la rosa è pure un elemento che finge di essere bello per sempre, sapendo bene che questa bellezza non può durare in eterno, è destinata a morire...
 
perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d’Amore; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terrena, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell’età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que’ colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte.
 
Quindi anche quando ci dichiariamo belli dimentichiamo o vogliamo far dimenticare che siamo destinati a scomparire…
 
Giova dunque una certa dissimulazion della natura, per quanto si contiene tra lo spazio degli elementi, dov’è molto vera quella proposizione che afferma di non esser tutt’oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre, perché ivi tutte le cose son belle dentro e fuori.
 
Una contrapposizione tra ciò che è terreno, ed è caduco e precario, e ciò che è celeste ed eterno…
 
Or, passando all’utile che nasce dalla dissimulazione ne’ termini morali, comincio dalle cose che più bisognano, dico dall’arte della buona creanza, la qual si riduce nella destrezza di questa medesima diligenza.
 
La buona educazione è basata sulla finzione. Ricordiamo quello che si era detto nel “Galateo” di Giovanni Della Casa, ma ne parla lui stesso…
 
E leggendosi quanto ne scrisse monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina insegna così di ristringer i soverchi disiderii, che son cagion di atti noiosi, come il mostrar di non veder  gli errori altrui,  acciò che la conversazione riesca di buon gusto.
 
Quindi, da una parte bisogna stare attenti noi  a non apparire sconvenienti, dall’altra bisogna fingere di non notare le sconvenienze degli altri; è buona educazione per mantenere il buon livello della conversazione. In fondo siamo in una società che ha questo culto delle apparenze, come abbiamo già detto, una società della quale poco ci si può fidare. E la comunità di cui stiamo parlando è anche quella in cui Paolo Sarpi, nel suo famoso scritto “Istoria del concilio tridentino”, di cui riportiamo una parte del Proemio, dirà appunto che la realtà non corrisponde a ciò che si finge di voler fare. Applicato, questo, al concilio di Trento, perché fu convocato con tanta pompa nel Cinquecento dalla Chiesa che reagiva alla Riforma di Lutero con l’intento apparente di voler mettere pace nella cristianità; ma la sostanza, la realtà dietro questa finzione fu che il concilio si rivolse all’altra direzione, si risolse in un altro esito. Infatti, tra le altre cose, Paolo Sarpi ci dice:
 
PIER PAOLO SARPI, ISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO, LIBRO I, CAPITOLO I
Imperoché questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che comminciava a dividersi, ha così stabilito lo schisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato da li prencipi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano, e dalli vescovi sperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior servitù; nel contrario temuto e sfuggito dalla corte di Roma come efficace mezzo per moderare l’essorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta con varii progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggetta, che non fu mai tanta, né così ben radicata.
 
C’è tutto il processo, da parte di Paolo Sarpi, alle buone, finte intenzioni del concilio: convocato per mettere pace, in realtà ha creato ancora più guerre. Infatti Sarpi ha vissuto l’ultima parte del Cinquecento con le continue guerre di religione. Convocato per dare maggiore autorità ai vescovi, in realtà gliel’ha tolta, perché questo potere è rimasto soltanto al papa. Era una secolare questione il rapporto fra il potere del papa e quello dei vescovi. Già erano passati tre secoli da Guglielmo di Ockham, che aveva sostenuto che il potere della Chiesa doveva andare ai vescovi, cioè doveva essere espressione della volontà di più persone e non di uno solo. Come vediamo, siamo ancora a questo genere di discussione: il pontificato deve essere una sorta di esercitazione della forma di potere del dispotismo, dell’assolutismo nel campo ecclesiastico.
Paolo Sarpi è una delle tante espressioni della lotta contro il potere della Chiesa, di cui abbiamo più volte parlato. Ricordiamo con lui Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo stesso, processato per le sue idee sulla scienza. Ma a proposito di questo rapporto fra la Chiesa e la cultura ritorniamo al ragionamento che abbiamo fatto per le arti figurative. Ricorderai, Barbara, quando parlammo di Caravaggio e della “Madonna dei pellegrini”. Dicemmo che il Caravaggio prendeva la commissione dalla Chiesa e poi la interpretava non in modo edificante ma in maniera realistica. Anche lui corrisponde a quell’esigenza di attenzione al popolo, alla semplicità, ala povertà di certi ambienti, contro questo contesto così aristocratico, paludato, ricco, benestante, che era quello della Chiesa che gli commissionava l’opera d’arte. E per far questo, nella “Madonna dei pellegrini” metteva in primo piano…
BARBARA: i piedi sporchi dei pellegrini.
Brava. Ora, se andiamo a riprendere un’opera di questo stesso periodo, possiamo vedere come invece artisti che non avessero la statura di Caravaggio, la sua statura sociale, politica, morale, come questo pur straordinario artista che è Murillo, interpretassero invece la commissione della Chiesa in altro modo. Prendiamo per esempio “Le due Trinità”. In questo affresco Murillo presenta la Trinità terrena, Giuseppe, Maria e Gesù, e la Trinità celeste, raffigurata da questo Dio, che incombe su questa Sacra Famiglia, lo Spirito santo, raffigurato da questa colomba che è tra Dio e Gesù, e Gesù stesso, che è quindi il punto d’incontro fra le due Trinità, la terrena e la celeste. E Giuseppe ha in mano un giglio, come vedete, che è il simbolo della purezza, della verginità, perché secondo la tradizione Giuseppe non aveva procreato con Maria Gesù. Ma se osservate l’insieme di questo quadro, in fondo, vedete che il tema agiografico, il tema sacro, edificante, era perfettamente quello voluto dall’autorità ecclesiastica, senza quasi interventi da parte dell’autore. Ecco, ve lo faccio vedere in contrasto con l’altro di Caravaggio, per farvi notare come lo stesso tema sacro possa essere interpretato in maniera reattiva, nel caso di Caravaggio, e invece passiva, nel caso del pur grandissimo pittore che è Murillo.
Ma sempre nell’ambito della civiltà barocca voglio farvi vedere un’espressione scultorea di Bernini, altro grande protagonista del Seicento, che nell’”Estasi di Santa Teresa” ha dato un capolavoro di quest’arte. Nel marmo vengono scolpite le pieghe dell’abito e tutto questo lavorio straordinario dell’artista serve a dare levità e leggerezza a questa doppia figura, di Teresa d’Avila e dell’angelo che cerca di trafiggerla dell’amore per la divinità. E la luce di Dio su di lei è rappresentata nei raggi dorati dietro le due figure. Tutto l’insieme di questa “Estasi di Santa Teresa” vuole rappresentare appunto il rapimento e l’esaltazione interiore, che d’altra parte è anche ben descritta nella sua opera. Vi proponiamo il passo in cui Teresa racconta come il rapporto con la divinità per lei significhi un’esaltazione che le fa dimenticare i sensi, le fa dimenticare dove si trovi, la fa trasvolare sulla realtà, la fa rimanere in pieno rapimento. Leggi pure d’impeto, anche se non lo hai letto prima, tanto noi siamo esperti d’improvvisazione, da qualche tempo e in qualche modo. Ecco Barbara nei panni di Santa Teresa che si racconta nel “Libro della vita”, ordinatogli dal suo confessore, mentre voi guardatela nell’espressione che le ha voluto dare Bernini…
 
TERESA D’AVILA, LIBRO DELLA VITA, CAPITOLO 18
Mentre l'anima sta così cercando il suo Dio, si sente come svenire per la forza di un soavissimo godimento: il respiro le manca, le forze corporali svaniscono, tanto che senza un grande sforzo non può muovere neppure le mani. Le si chiudono gli occhi anche senza volerlo, e se li tiene aperti, non vede quasi nulla. Se legge, non riesce a pronunciare una sillaba, e quasi neppure a rilevarla; vede d'averla innanzi, ma non essendo aiutata dall'intelletto, non è capace di leggerla, nemmeno volendolo. Ode, ma non capisce ciò che ode. I sensi non le servono più, anzi le sono piuttosto di danno perché le impediscono di stare in pace. Parlare? Nemmeno pensarlo, ché non riuscirebbe a mettere insieme una parola; e se pure vi riuscisse, non avrebbe la forza di pronunciarla. Le energie corporali cedono a quelle dell'anima che aumentano sempre più per farla meglio godere. E' un piacere molto grande e sentito si riversa pure nel corpo.
Per quanto duri, quest'orazione non è mai di danno: almeno a me non è mai stata. Per ammalata che fossi, quando il Signore me la concedeva, non mi ricordo che me ne risentissi una sola volta, anzi me n'uscivo sempre migliorata. Che male può fare un bene così grande? I suoi effetti esteriori sono così evidenti da non lasciare alcun dubbio sulla grandezza della loro causa, perché se con quell'eccesso di gioia il Signore ci toglie le forze, è solo per ridarcele in maggiore quantità.

 
Teresa ha usato l’immagine che poi ha ispirato Bernini: l’anima mia si riempiva tutta di una grande luce, mentre un angelo sorridente mi feriva con pungente strale d’amore. Dell’opera di Bernini voglio dire ancora soltanto che ha un impianto teatrale, di proiezione nell’immaginario, tutto secondo il culto dell’apparenza, della meraviglia, della straordinarietà della visione di Santa Teresa, che spesso appunto combinava  e si combinava con il bisogno di edificazione di una Chiesa che era in difficoltà in quel periodo. In questo caso si fondono la tendenza alla grande scena della Chiesa che si deve difendere dalla riforma luterana e la tendenza allo spettacolo della sensibilità degli artisti dell’epoca.
Evidentemente la cultura di questo periodo ci chiama a parlare del teatro, la forma d’arte fondamentale del Seicento, grande espressione di questo gusto, di questo senso della realtà che è la scena, la rappresentazione per un pubblico, diretta e non filtrata dalla pagina e altro. Questo bagno nella realtà che abbiamo visto nella poesia barocca è appunto lo stesso immergersi nella realtà che opera il fenomeno, il miracolo, il prodigio del teatro, che tu conosci molto bene, Barbara, perché sei un’attrice più di me e perché vivi intensamente questa esperienza che ami. E allora di teatro dovremo parlare. Voglio soltanto ora farvi una grande panoramica  perché nella lettura di testi, nell’interpretazione di questi testi entreremo nella prossima lezione, non avendone il tempo oggi.
Pensate. Shakespeare lo abbiamo già presentato. Del campo spagnolo con Cervantes pure abbiamo parlato. Ma dovremo parlare di Calderon de la Barca, tra i tanti, con il suo “La vita è sogno” e poi di Moliére, con le sue commedie, nella Francia di Luigi Quattordicesimo. E dovremo parlare delle tragedie di Racine, tra cui la “Fedra”,  e di Corneille. Del teatro italiano può valere il richiamo nella lezione precedente alla commedia dell’arte. Non so se abbiamo sottolineato abbastanza che quel canovaccio da noi interpretato era ambientato nella città di Napoli. E un protagonista non a caso era Pulcinella, perché il mondo dei comici dell’arte si forma lì e poi questi grandi esperti della commedia e del divertimento (e lo sono ancora, attraversano invadono e occupano il nostro ambiente culturale con il loro bisogno di gioia, di espressione felice, spesso anche amara, ma comunque tesa a divertire nel senso etimologico del termine, e cioè a far uscire dalla vita quotidiana il pubblico, non solo napoletano), questi esperti, dicevo, si muovono in Europa. Il loro itinerario preferito sarà verso la corte di Luigi XIV, nella reggia di Versailles, che è stata da questo re immaginata come la celebrazione dell’apparenza, del fasto, del magnificente, meraviglioso, stupefacente, per dare l’impressione dell’autorità assoluta. In questa corte di Versailles arriveranno i comici dell’arte a divertire i cortigiani, che nelle intenzioni del re dovevano essere soltanto un motivo di facciata, perché poi chi governava doveva ricorrere a un borghese, o intimamente aderente alla borghesia, come Colbert, che ispirò appunto la politica economica del re di Francia. E questa commedia dell’arte, che navigherà dentro la reggia di Versailles, ispirerà quel grande autore che sarà Moliére, a cui ci rivolgeremo nella prossima lezione, in cui vedremo come questo grande temperamento teatrale sia nello stesso tempo una fotografia della realtà sociale di quel tempo, non soltanto un animale di scena. Arrivederci.
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