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POESIA BAROCCA: MARINO -METAFORISMO E METAMORFISMO – CAMPANELLA




Antologia II Anno - 4^ Lezione (video)
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POESIA BAROCCA:  MARINO -METAFORISMO E METAMORFISMO – CAMPANELLA
 
Quarta lezione del secondo anno. Con noi Barbara. Eravamo al momento in cui si doveva trattare la poesia barocca. In particolare avevamo già visto qualche accenno in Spagna, con Gongora e in Inghilterra con Shakespeare. Adesso passiamo alle espressioni della lirica barocca in Italia, dove il grande promotore di questa iniziativa artistica, culturale è Giovambattista Marino, tanto che da noi questo gusto poetico si chiama marinismo. Oggi avremo modo di chiarire meglio quali sono i contenuti e le forme di questa produzione in genere, partendo da quella che è stata la culla dell’espressione massima della poesia barocca, che è stata appunto l’Italia. Il termine “barocco” viene da una figura retorica, da uno degli schemi del metodo di ragionamento del sillogismo. Per altri invece il termine deriverebbe da “barrueco”, che è una parola portoghese che indica una pietra preziosa. In ogni caso partiamo subito dalla lettura di uno di questi testi e attraverso questi cominceremo l’analisi, come sempre, per non essere troppo teorici. Leggi Barbara…
 
GIOVAMBATTISTA MARINO, LA DONNA AVEA SPIEGATO LE SUE CHIOME
   A l'aura il crin ch'a l'auro il pregio ha tolto,
sorgendo il mio bel sol del suo oriente,
per doppiar forse luce al dì nascente,
da' suoi biondi volumi avea disciolto.
   Parte, scherzando in ricco nembo e folto,
piovea sovra i begli omeri cadente,
parte con globi d'or seri gìa serpente
tra' fiori, or del bel seno or del bel volto.
   Amor vid'io, che fra' lucenti rami
de l'aurea selva sua, pur come sòle,
tendea mille al mio cor lacciuoli ed ami;
   e, nel sol de le luci uniche e sole,
intento, e preso dagli aurati stami,
volgersi quasi un girasole il sole!

 
Come vedete, è tutto un gioco sulla parola “sole”, che alimenta più metafore. Diventa, da sostantivo, aggettivo e verbo. Naturalmente è l’immagine della donna, della bellezza, con le chiome d’oro che richiamano lo splendore del sole. Il nodo fondamentale è questa conclusione in cui il sole si volge come un girasole. In questa idea c’è il condensato dell’attenzione che Marino dà alla parola, alla metafora, all’immagine, perché il sole si trasforma nel girasole, e il girasole ha in se stesso l’idea del movimento, dello spostamento. Il barocco, la metafora, non sono altro che un movimento continuo, un traslato, il trasferirsi di un’immagine in un'altra. Il contenuto ha poca importanza, ha importanza la forma, cioè il modo in cui esprimiamo un concetto anche banale, come, semplicemente, l’ammirazione di una donna.
Anche se poi nella poesia barocca questi contenuti si animeranno in situazioni psicologicamente più approfondite, ma senza mai accentuare l’introspezione. Il dato fondamentale è che abbiamo soprattutto un cambiamento continuo, una metamorfosi, uno spostamento da un’immagine a un’altra, come dicevamo. Vediamo un altro componimento, di Antonio Basso…
 
ANTONIO BASSO, ALLE INCENERITE OSSA DI UMANO CADAVERE
   Sostenner, tempo è già, membra e figura
queste d'umano frale ossa insensate,
che vòlte in polve fur pria formate,
mostran di noi vil fasto esser natura.
   Pasto a lui diede il mondo, indi pastura
di fère ci fu da se medesmo, ahi, nate!
in tenebre riposa or lunga etate
chi poca ebbe qua giù di luce usura.
   Ma qual riposo è 'l suo se, reso informe,
fatto d'aspri contrari atro suggetto,
varia in lui la materia ognor più forme?
   O di mortal cagion continuo effetto!
Viviam, lassi, poche ore; e di noi l'orme
serbare al cener nostro anco è disdetto.

 
Partiamo anche qui dalla fine. E’ una conclusione sofferente, l’idea che viviamo per poche ore e poi ci è vietato anche il desiderio di conservare l’ombra delle nostre ceneri, perché anche quelle si tramuteranno in altro. Questo sonetto lo abbiamo letto per dare un’altra idea fondamentale della poesia barocca, che è questo senso del disfacimento, della decadenza, della precarietà della vita dell’uomo. Si comincia con l’immagine delle ossa che hanno sostenuto le nostre forme: ora queste forme non ci sono più, sono rimaste soltanto le ossa, che d’altra parte sono minacciate da vermi che sono generati dalla nostra stessa morte. È il consumarsi del nostro corpo che genera vermi. Quindi la morte che dà vita, che genera altra vita, è il massimo dell’espressione del tema della metamorfosi, che è contenuto a sua volta nell’idea della metafora. Ma prima ancora di approfondire questo rapporto tra metamorfismo e metaforismo diamo un altro esempio di lirica barocca, con Gianfrancesco Maia Materdona…
 
GIANFRANCESCO MAIA MATERDONA, A UNA ZANZARA
   Animato rumor, tromba vagante,
che solo per ferir talor ti posi,
turbamento de l'ombre e de' riposi,
fremito alato e mormorio volante;
   per ciel notturno animaletto errante,
pon freno ai tuoi sussurri aspri e noiosi;
invan ti sforzi tu ch'io non riposi:
basta a non riposar l'esser amante.
   Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza
vattene; e incontro a lei quanto più sai
desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.
   D'aver punta vantar sì ti potrai
colei, ch'Amor con sua dorata frezza
pungere ed impiagar non poté mai.

 
Addirittura un sonetto dedicato a una zanzara. Ci fermiamo un momento sul contenuto e poi riflettiamo sul fatto che il tema sia una zanzara. Il contenuto è scherzoso, divertito, l’idea di una zanzara che dà fastidio al poeta, che le dice: vattene, non stare da me che non do fastidio a nessuno, vai da chi dà fastidio, dalla mia donna, quella che è appunto insensibile al mio amore. Il vecchio tema petrarchesco della donna che è dura, che reagisce freddamente alle offerte dell’amante viene ripreso, ma centrando  poi l’attenzione su una zanzara. Questo ci fa riflettere sull’attenzione dei poeti a tutta la realtà del mondo circostante. La zanzara non sarebbe mai stata tema di un componimento petrarchesco. Questa è la grande novità della poesia barocca. Qui entriamo nei suoi aspetti positivi. L’idea di poter fare oggetto di poesia tutti gli elementi della realtà. Non a caso siamo nel Seicento, secolo della scienza, della conoscenza della natura. Ma fermiamoci e passiamo a un altro, Girolamo Preti…
 
GIROLAMO PRETI, PER LA SUA DONNA SPECCHIANTESI
   Mentre in cristallo rilucente e schietto
il bel volto costei vagheggia e mira,
armando il cor d'orgoglio, il ciglio d'ira,
del suo bel, del mio mal prende diletto.
   Vaga del vago e lusinghiero aspetto
dice: - Ben con ragion colui sospira! –
Sembrano a lei, che sue bellezze ammira,
oro il crin, rose il labro, e gigli il petto.
   Ah, quel cristallo è mentitor fallace,
che scopre un raggio sol del bello eterno,
anzi un'ombra d'error vana e fugace!
   Vedrai, se miri il tuo sembiante interno,
cui ritragge il mio cor, specchio verace,
angue il crin, tosco il labro, il petto inferno.

 
Siamo vicini al tema del componimento precedente. Il poeta ce l’ha con la sua donna, insensibile e dura, e dice: tu ti rimiri nello specchio e ti ritieni bella, ti vedi come oro nei capelli, rosa sulle labbra, giglio, bel colore,  sul petto. Ma, conclude, se ti miri nello specchio che ti offro io vedrai che i tuoi capelli sono “angui”, serpenti, che le tue labbra sanno di veleno e che il tuo petto contiene inferno. Tutto il risentimento del poeta per la sofferenza che questa donna genera su di lui. Ma fatto fondamentale, a parte il contenuto, rimanendo alle strutture della lirica barocca, è che pure qui si parla di prospettiva, di immagine e soprattutto di soggettività della sensazione. La donna si vede in una maniera, il poeta la vede in un’altra, e gioca su questa doppia visione che crea lo specchio. Addirittura ci sono due tipi di specchio: lo specchio nel quale si guarda la donna e lo specchio nel quale il poeta impone alla donna di guardarsi. Ne abbiamo ancora un’altra di Ciro di Pers…
 
CIRO DI PERS, OROLOGIO DA ROTE
   Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: Sempre sí more.
   Mentre il metallo concavo percuote
voce funesta mi risuona al core
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
   Perch'io non speri mai riposo o pace
questo che sembra in un timpano e tromba
mi sfida ogn'or contro a l'età vorace
   e con que' colpi onde 'l metal rimbomba
affretta il corso al secolo fugace
e, perché s'apra, ogn'or picchia a la tomba.

 
Come vedete, in questo componimento che è un po’ più famoso degli altri si parla dell’orologio. La poesia si apre su tutta la realtà, su una zanzara come sull’orologio, che è un portato della scienza del tempo. E su questo orologio il poeta si basa per trattare il motivo che abbiamo visto o cominciamo a vedere dominare la lirica barocca, quello del passare del tempo, della precarietà, del trasformarsi delle cose e della morte. Perché questo orologio a ogni suo tocco, dice il poeta, ricorda a me e agli altri come me che dobbiamo morire. Infatti concluderà dicendo che con quei colpi di cui risuona il metallo (la campana ribattuta dal meccanismo) affretta il corso del tempo, avvicina il momento della morte. Ogni ora picchia alla tomba perché s’apra. Questo battito sembra essere un colpo sul coperchio della tomba perché vada via e accolga noi. E’ quindi una meditazione sullo scorrere del tempo e sulla morte.
E’ arrivato il momento di fare una riflessione complessiva sulla poesia barocca. Intanto partiamo da un critico che se ne è occupato con grande sensibilità, Giovanni Getto. E’ lui che ha parlato di metaforismo e metamorfismo, i termini che avevamo prima enucleato. Metaforismo è appunto l’uso esasperato della metafora, il trasportare la sensibilità del lettore da un’immagine a un’altra. Il metamorfismo invece è l’idea della trasformazione continua, che ha insito in sé il tema della precarietà della vita e anche della morte. Questo trasformarsi continuo è purtroppo la legge della vita dell’uomo e di tutto quello che esiste intorno a noi, che cioè si nasce per vivere e scomparire; e poi si ritorna alla trasformazione, perché la nostra morte genererà altra vita, i nostri resti saranno concime di piante o addirittura, lo abbiamo visto prima, alimento dei vermi, che praticavano così orrendamente il cadavere di cui si parlava in quel componimento. Però questo trasformarsi continuo e questo usare continue immagini si relaziona anche con quell’altro tema importante che abbiamo segnalato, quello dell’attenzione alla natura e alla scienza. Proprio perché siamo in questa dimensione nuova, non possiamo fermare la nostra attenzione solo su poche, schematiche figure, su pochi elementi della realtà, bisogna spaziare nella nostra osservazione su tutto e tutto ha dignità per essere contenuto nella poesia. Quindi l’altro aspetto della poesia barocca è il realismo. Sembrerà strano, per una produzione così apparentemente superficiale, fatta più di forma che di sostanza, più di apparenza che di realtà, che sia poi indicata come realistica. Magari, proprio perché si fa attenzione a tutti gli aspetti della realtà, si finisce per non soffermarsi molto sugli stessi: perché appena toccato uno ci si sposta su un altro. Quindi non possiamo chiedere profondità a questa poesia, proprio perché nasce molteplice; però le dobbiamo riconoscere questa molteplicità di interessi, che è la sua grande novità.
La lirica barocca è l’affermazione del moderno, nella sostanza e nella forma. In quest’ultima era chiaro: il fatto di esasperare la metafora, di inventare nuove soluzioni, anche di meravigliare, di stupire il lettore è senz’altro moderno e nuovo. Ma anche moderno e nuovo è questo cannocchiale, questo osservatorio sulla realtà che fa sì che tutto assuma importanza come contenuto della poesia. Ricordiamo che questi poeti si sono occupati anche di pidocchi e di altri elementi secondari della nostra vita e si sono esercitati, divertiti a creare sorpresa. C’è il caso di un pettine che diventa una nave tra le onde dei capelli della donna e di pidocchi che si muovono come fiere d’avorio nel bosco d’oro che sono i capelli stessi. Tutto collabora a presentare una realtà veramente molto più varia. In una serie di versi di uno di questi autori c’era l’indicazione che “è dei poeti il fin la maraviglia, chi non sa stupir vada alla striglia”: cioè il fine della poesia è meravigliare; chi non sa ottenere questo stupore nel lettore o nell’ascoltatore vada a strigliare i cavalli, cambi mestiere.
D’altra parte questa idea dell’importanza della scena, dello spettacolo, abbiamo detto essere un altro elemento fondamentale della civiltà barocca del Seicento. Infatti, nelle lezioni precedenti, abbiamo già presentato qualcosa di molto teatrale, in Shakespeare. Anche lo stesso “Don Chisciotte” lo abbiamo visto come espressione di una vocazione teatrale di Cervantes. Ritorneremo sul teatro di questo periodo nella prossima lezione.
Ma ora ci fermiamo a considerare un altro aspetto che riguarda la poesia di Giovambattista Marino, che è il grande cultore e interprete di questa sensibilità barocca. Sempre a proposito dell’attenzione alla scienza di questa grossa personalità del secolo, voglio leggere un passo del suo grande poema “L’Adone”, che è la storia dell’innamoramento di Venere per Adone, figlio di un rapporto incestuoso tra Mirra e il padre Ciniro, che sarà argomento poi di una famosa tragedia di Alfieri. Questo Adone, bellissimo, fa innamorare di sé Venere, che lo coltiva cercando di insegnargli l’attenzione sia per la realtà naturale, e quindi i sentimenti, i sensi, sia per la razionalità, l’intelligenza. La favola poi si chiuderà con la morte di Adone, addirittura per un assalto sessuale di un cinghiale, una cosa terribile, significativa di quali interessi inseguissero questi poeti e di come suscitassero stupore e meraviglia anche con questi espedienti. Ma non è questo che mi interessava ricordare, quanto il fatto che a un certo punto Venere, con l’aiuto di Mercurio, porta Adone a conoscere la natura, l’universo, il cosmo e la luna stessa. Di questa si dice, da parte di Mercurio…
 
GIOVAMBATTISTA MARINO, L’ADONE, X : LA LUNA
Or io ti fo saver che quel pianeta
non è, com'altri vuol, polito e piano,
ma ne' recessi suoi profondi e cupi
ha, non men che la terra, e valli e rupi.
La superficie sua mal conosciuta
dico ch'è pur come la terra istessa,
aspra, ineguale e tumida e scrignuta,
concava in parte, in parte ancor convessa.

 
La luna non è una superficie liscia, specchiata, come l’hanno vista in precedenza, ma è piena di rilievi. E poco dopo citerà appunto Galileo e farà riferimento al telescopio che aveva puntato sull’universo per confermare la validità dell’ipotesi copernicana (l’Adone è del 1622). Quindi c’è l’esaltazione della scienza in un poema che sembra essere centrato sui temi futili che abbiamo visto poco fa, Venere, Adone, l’amore eccetera. C’è anche questa assunzione di corresponsabilità, affermando con Galileo quello che alla Chiesa in quel momento poteva apparire scomodo, rischiando di incorrere negli strali della Santa Inquisizione.
Vorrei presentarvi ancora, in conclusione, quello che Tommaso Campanella ha detto sulla morte di un compagno di carcere…
 
TOMMASO CAMPANELLA, SONETTO IN MORTE DI FRANCESCO PUCCI
   Anima, ch'or lasciasti il carcer tetro
di questo mondo, d'Italia e di Roma,
del Santo Offizio e della mortal soma,
vattene al Ciel, ché noi ti verrem dietro.
   Ivi esporrai con lamentevol metro
l'aspra severitate, che ne doma
sin dalla bionda alla canuta chioma,
talché, pensando, me n'accoro e 'mpetro.
   Dilli che, se mandar tosto il soccorso
dell'aspettata nova redenzione
non l'è in piacer, da sì dolente morso
   toglia, benigno, a sé nostre persone,
o ci ricrei ed armi al fatal corso
c'ha destinato l'Eterna Ragione.

 
Campanella, poeta anche lui, a suo modo, barocco, tratta il tema della morte per la verità e per la scienza, in una società ingiusta che chiede a Dio di modificare in una  giusta. Un vecchio, Francesco Pucci, è stato appena decapitato e bruciato e sta parlando della morte di questo suo compagno di sventura, lui che è ancora giovane e sta subendo carcere e tortura per le sue idee. Ci vediamo alla prossima lezione.
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