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ETA’ BAROCCA:CAMPANELLA: La città del sole-COMMEDIA DELL’ARTE-GIULIO CESARE CROCE




Antologia II Anno - 5^ Lezione (video)
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COMMEDIA DELL’ARTE E RACCONTO POPOLARE NELL’ETA’ BAROCCA
 
 Siamo arrivati alla quinta lezione del secondo anno, in cui ci dedicheremo alla letteratura popolare, quindi anche alla commedia dell’arte, che è un aspetto importante della produzione del periodo barocco. Però dovremo partire prima dall’ultimo spunto della lezione precedente. Eravamo fermi a quel componimento di Tommaso Campanella per la morte dell’amico Pucci.
Tommaso Campanella è quel filosofo visionario sottoposto all’Inquisizione che si salva fingendosi pazzo, l’autore della “Città del Sole”, una delle grandi utopie di questo periodo. Abbiamo detto in altre occasioni che in un’epoca di grandi contraddizioni, di grandi sofferenze, capita che si desideri un mondo migliore e quindi si arrivi a prospettarlo nell’impossibile, come “Utopia” di Tommaso Moro, “L’Abbazia di Theleme” di Francois Rabelais, “Nuova Atlantide” di Francesco Bacone, luoghi che abbiamo già percorsi; ma ancora parleremo più avanti degli  “Stati e Imperi della Luna” e degli “Stati e Imperi del Sole”, di Cyrano de Bergerac. Tra queste utopie c’è anche “La Città del Sole” di Campanella, una città governata dai sapienti, dai saggi.
Campanella in quel sonetto che abbiamo presentato l’ultima volta parlava della morte di un uomo che aveva sacrificato la vita per la libertà e per la verità, per le sue idee insomma. E parlava al Signore chiedendo un intervento in questa società, perché fosse modificata secondo le idee che sono contenute poi nella “Città del Sole”, idee per cui non sia l’utile, non sia la proprietà la discriminante fra gli uomini, ma questi siano tutti possessori di un bene comune. Insomma è una società comunista quella in cui credeva Tommaso Campanella, giovane ancora, all’epoca in cui finiva sul rogo Giordano Bruno. Questo mondo, infatti, sentiva il bisogno di giustizia, ed era il mondo del popolo, in fondo, della gente comune.
Un po’ un’espressione di questa voglia di rivincita del popolo nei confronti del potere è la stessa commedia dell’arte. Sembrerà strano, perché questo genere è una forma di servilismo, se vogliamo, in quanto ci sono dei guitti che si mettono a disposizione dei potenti, che li chiamano presso di loro perché si rappresentino con i loro difetti, le loro manchevolezze, la loro semplicità. Quindi sono visti un po’ dall’alto, dalla società benestante, questi popolani che si ingegnano di divertire il pubblico aristocratico. Però, se ricordiamo il fatto che i comici dell’arte poi mettevano in scena anche per il popolo, e se ricordiamo che da questo vengono le loro ricostruzioni teatrali, possiamo anche immaginare che la loro commedia, pur essendo preparata per servire il potere e per guadagnare, fosse in fondo la rappresentazione di un’esigenza di questo mondo del popolo, che non si sente protagonista della realtà e cerca di diventarlo, anche se in modo grottesco.
La commedia dell’arte era strutturata, tu lo sai, Barbara, perché l’hai studiata, sull’improvvisazione, perché c’era il capocomico che scriveva soltanto il “canovaccio”, cioè una trama essenziale, sulla quale poi gli attori intervenivano con la loro interpretazione, improvvisata. Perciò la commedia dell’arte veniva chiamata anche commedia all’improvviso. Gli attori creavano sulla base di un loro repertorio, che era niente altro che l’esperienza che si era fatta in opere precedenti.  Quindi, quando capitava di dover recitare una scena di rabbia, lo facevano con le stesse parole e magari con le stesse espressioni che avevano usato in un’altra commedia; per una scena di amore, di sentimento, di trasporto, lo stesso. E così via. Comparivano anche delle maschere, dei tipi fissi. Esamineremo tra un momento altre caratteristiche della commedia dell’arte, però prima vi vogliamo dare, come sempre, un esempio diretto, perché il nostro metodo vuole essere, magari non lo è in pieno o perfettamente, ma tende almeno ad essere quello di presentare prima il testo e poi parlarne.
La difficoltà sarà quella di farvi vedere come al canovaccio corrisponda poi l’improvvisazione. Io e Barbara saremo chiamati a operare per voi come due comici dell’arte di allora. E’ il canovaccio dell’”Incauto”, di Nicolò Barbieri.
 
NICOLÒ BARBIERI, L’INCAUTO
Interlocutori (i protagonisti):
UBALDO Padre di Valerio
VALERIO suo figlio
COLA suo servo
PULCINELLA mercante di Schiava
LUCINDA Schiava, sotto nome di Clarice
CAPITANO (non mancava mai in queste commedie)
STOPINO suo servo amico di Cola
PANDOLFO padre d’Ardelia
ARDELIA sua figlia, amante d’Ottavio
OTTAVIO da sé
DORETTA schiava; alla fine si può rappresentare in voce.
La Scena finge in Napoli (la scena si immagina in Napoli)
ATTO PRIMO
Scena I
Valerio, Ottavio e Cola

Si rallegra Ottavio con Valerio perché sposa Ardelia, lui dice non volerla, sapendo che Ottavio l’ama, ma bensì che vive amante della schiava.
 
Dobbiamo fare vedere come l’attore che impersona Ottavio, leggendo questo canovaccio, lo renda con parole sue. Io sono Ottavio che sta parlando con Valerio, che sei tu, Barbara…
 
OTTAVIO: Valerio, sono contento del fatto che tu sposi Ardelia. E’ una bellissima donna, sono veramente felice, ma dimmi tutto su questo fatto. Sei pronto a sposarla? Quando vi sposerete?
VALERIO: Eh, mio caro Ottavio, io non voglio Ardelia, perché so che tu sei innamorato della mia futura sposa. Ma io voglio la schiava…
OTTAVIO: Quale schiava?
VALERIO: Io voglio Lucinda, mio caro Ottavio.

 
Dice Ottavio voler comprar la schiava e Valerio lo consiglia non la comprare, dicendo non essere conveniente sposare una schiava. Ottavio la vuole in tutti i modi e va.
 
OTTAVIO: Ah, Lucinda. Bella quella schiava! La voglio comprare. Mi intriga quella donna.
VALERIO: Ma no, caro amico mio, caro Ottavio, non è conveniente sposare una schiava!
OTTAVIO: No, no, lascia stare, non preoccuparti troppo. Lascia fare a me. Ci penso io.

 
Valerio la vuole lui, esagera la tenacità di suo padre,  si raccomanda a Cola, il quale lo fa ritirare in disparte e chiama la schiava.
 
VALERIO: Ma perché mio padre è così avido e taccagno da non potermi far comprare la schiava. Cola, vai dalla schiava.
 
Scena II
Schiava, Pulcinella e sopra detti
Pulcinella vede che Cola parla con la schiava, lo grida; si fa avanti Valerio, e dice che cosa ha con il suo servo; si fa avanti Valerio, e dice che cosa ha con il suo servo; Pulcinella, perché parla alla schiava; Valerio, che se li parla, li parla per conto suo, ciò sente Pulcinella, serra la schiava, e parte.
 
Qui io sono Pulcinella...
 
PULCINELLA: Cola, e che fai con la mia schiava. Se tutti i servi si dovessero mettere a parlare con le schiave che sono proprietà degli altri! Ma la vuoi finire?
VALERIO: Pulcinella, perché ti lamenti col mio servo?
PULCINELLA: Perché sta parlando con la mia schiava! Una mia proprietà! Un servo non può mettersi a parlare così! Piuttosto, tieni a bada i tuoi servi!
VALERIO: Ma…Cola sta parlando alla schiava perché glie l’ho raccomandato io! Parla per conto mio!
PULCINELLA: Ah, è così? E va bene, non ti preoccupare. So cosa fare. La chiudo e così nessuno potrà più parlare con lei!

 
Il canovaccio prosegue:
 
Cola si lamenta con Valerio, lui via, Cola batte da Pandolfo; in questo…
 
“In questo” era un’espressione tipica dei canovacci. Significa: a questo punto. E c’era un’altra scena. Continuiamo la lettura del canovaccio della scena successiva…
 
Scena III
Cola, Pandolfo e poi Ardelia
Dice Cola essere venuto a salutar la sposa da parte di Valerio (Cola è andato da Pandolfo, padre di Ardelia, la promessa sposa di Valerio), Pandolfo la fa chiamare, Ardelia accetta il saluto freddamente (perché non vuole sposare Valerio, ma Ottavio); Cola li dice piano che finga, perché farà che suo marito sia Ottavio, lei finge di gradire ed entra;

 
Il servo astuto, Cola, consiglia ad Ardelia di stare al gioco, perché lui sa bene che lei ama Ottavio, e non è Valerio che le vogliono far sposare, cosa che devono far credere al padre, ma Ottavio.
 
Cola dice a Pandolfo che compri la schiava in nome di Ubaldo, il quale li renderà il suo denaro, perché Valerio par che ami la schiava, ciò facendo uscirà di speranza, e volterà l’affetto suo verso la sposa; il Vecchio contento batte da Pulcinella, ed entra.
 
Cioè, qual è l’artificio che ha creato il servo astuto? Che, poiché il padre di Valerio, Ubaldo, è taccagno e non vuole comprare la schiava, Cola consiglia a Pandolfo, padre di Ardelia, di comprare lui quella schiava a nome di Ubaldo, che è d’accordo e poi restituirà il danaro che avrà speso Pandolfo, perché per evitare che Valerio stia con la schiava bisogna far sì che la schiava diventi proprietà di Pandolfo e così Valerio sarà pronto per sposare sua figlia. In realtà l’obiettivo di Cola è che la schiava sia tolta dalle mani di Pulcinella, acquistata da Pandolfo, per diventare proprietà e quindi l’amata di Valerio. E il vecchio Pandolfo va da Pulcinella per comprare la schiava.
E’ una situazione già riscontrata nella “Mandragola”, ricorderete, che la commedia del rinascimento derivava da quella plautina e dalla vecchia Atellana. Ci sono le figure tipiche. C’è il servo astuto. Nella “Mandragola era Ligurio, che consigliava a Callimaco uno stratagemma per conquistare Lucrezia. Qui è Cola, che consente a Valerio di ottenere la sua Lucinda, la schiava, riscattandola dal mercante Pulcinella grazie al danaro dello sprovveduto di turno, che è Pandolfo, il quale fa la parte dello sciocco ricco, come il messer Nicia babbeo della commedia di Machiavelli. Abbiamo così visto i tipi fissi dell’antica Atellana. Il servo astuto, il vecchio sciocco e cosi via. Ricordate Maccus, Pappus, Buccus e Dossennus, Quindi la commedia dell’arte, la commedia all’improvviso, cosiddetta, ripropone i tipi dell’antica farsa popolare e anche della produzione rinascimentale che da questa derivava. E vediamo già Pulcinella, una di queste maschere.
La commedia dell’arte: era molto popolana, anche volgare, in molti punti. Noi abbiamo improvvisato, ma senza eccedere. Tutte le volte che lì qualcuno si muoveva per rimproverare un’altra persona usava, lo dobbiamo immaginare, delle espressioni di quelle che si utilizzano ancora oggi per far  ridere molto facilmente la gente. Non finirò mai di dire ai miei alunni, e anche alla mia finta alunna, che si può fare ridere anche senza volgarità e oscenità. Ma in quell’epoca, invece, era molto diffuso questo aspetto della questione.
A proposito di riso, capacità di divertire, abbiamo un altro testo popolare di questo periodo, che per certi suoi aspetti ci fa ricordare la commedia rinascimentale di altro genere, non la “Mandragola”, ma per esempio il “Ruzante” di Angelo Beolco. Anche in questo caso leggiamo subito un passo del testo di Giulio Cesare Croce, “Bertoldo” e poi ne parleremo. E’ il libro che volgarmente si ricorda con il titolo di “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, già significativo del tipo di linguaggio utilizzato in queste opere di natura popolare.
L’antefatto è questo. Bertoldo, contadino sudicio e fisicamente mostruoso, giunge alla corte del re Alboino. Le sue maniere irriverenti, i suoi motti arguti, conquistano le simpatie del re, che vuole mettere alla prova la sua astuzia, imponendogli, tra le altre cose, questa strana incombenza. Sentiamo, tu sei il re e io sono Bertoldo…
 
GIULIO CESARE CROCE, LE SOTTILISSIME ASTUZIE DI BERTOLDO
RE: Bertoldo, torna domani da me e fa che io ti vegga e non ti vegga, e portami l’orto, la stalla e il molino.
Il giorno seguente Bertoldo fece fare una torta a sua madre di bietole ben unta con butiro, casio e ricotta in abbondanza, e poi, preso un crivello da formento (un setaccio), se lo pose sopra la fronte, sì che pendeva giù al petto e al ventre; e così con esso e con la torta tornò dal Re, il quale, vedendolo comparire in guisa tale, ridendo disse:
RE:  Che cosa vuol dire quel crivello che tu hai dinanzi al viso?
BERTOLDO:  Non mi commettesti tu ch'io tornassi a te in modo tale che tu mi vedessi e non mi vedessi?
RE:  Sì, ti commisi.
BERTOLDO:  Eccomi dunque doppo i buchi di questo crivello, dove tu mi puoi vedere e non mi puoi vedere.
RE:  Tu sei un grand'uomo e ingegnoso; ma dove l'orto, la stalla e il molino ch'io ti dissi che tu portassi?
BERTOLDO:  Ecco qui questa torta, nella quale vi sono infuse tutte tre le dette cose, cioè la bietola, la quale dinota l'orto, il casio, il butiro e la ricotta, che significa la stalla, e la spoglia della farina, che altro non vuol dimostrare che il molino.
RE:  Io non ho mai veduto né pratticato il più vivo intelletto del tuo; però serviti della mia corte in ogni tua occorrenza.
Piacevolezza di Bertoldo. 
A queste parole Bertoldo, scostatosi alquanto dal Re e ritiratosi nella corte, si calò le brache, mostrando di voler fare un suo servigio corporale; laonde, veduto il Re tal atto, gridando, disse:
RE:  Che cosa vuoi tu fare manigoldo?
BERTOLDO:  Non dici tu ch'io mi serva della tua corte in ogni mia occorrenza?
RE:  Sì, ho detto; ma che atto è questo?
BERTOLDO:  Io me ne voglio servire adunque a scaricare il peso della natura, il quale tanto m'aggrava ch'io non posso più tenerlo.
 Allora uno di quelli della guardia del Re, alzato un bastone, volse percuoterlo, dicendogli:
“Brutto poltrone, va' alla stalla dove vanno gli asini pari tuoi, e non fare queste indignità innanzi al Re, se non vuoi ch'io t'assaggi le coste con questo legno”.
A cui Bertoldo rivolto, disse:
BERTOLDO:  Va' destro, fratello, né voler tu fare il sofficiente, perché le mosche che volano sulla testa ai tignosi vanno sulla mensa regale ancora e cacano nella propria scodella del Re e pure esso mangia quella minestra;

 
Ti vai così scandalizzando che io faccia una cosa del genere quando la sporcizia sta sulle vostre mense, le mosche, si mangia pure le mosche il re…
 
 e io dunque non potrò  fare i miei servigi in terra, che è cosa necessaria? E tanto più che il Re ha detto ch'io mi serva della sua corte in ogni mio bisogno? E qual maggior bisogno per servirmene poteva venirmi che in questo fatto?
 Intese il Re la metafora di Bertoldo e si cavò di deto un ricco e precioso anello e, volto a lui, disse:
RE:  Piglia questo anello, ch'io te lo dono; e tu, tesoriero, va', porta qui mille scudi ch'io gliene voglio far un presente or ora.
BERTOLDO:  Io non voglio che tu m'interrompa il sonno.
RE:  Perché interrompere il sonno?
BERTOLDO:  Perché quand'io avessi quell'anello e  tanti danari io non poserei mai, ma mi andarei lambiccando il cervello di continuo, né mai più potrei trovar pace né quiete. E poi si suol dire: chi l'altrui prende, se stesso vende. Natura mi fece libero, e libero voglio conservarmi.
RE.  Che cosa poss'io dunque fare per gratificarti?
BERTOLDO:  Assai paga, chi conosce il beneficio.
RE: Non basta conoscerlo solamente, ma riconoscerlo ancora con qualche gratitudine.
BERTOLDO:  Il buon animo è compìto pagamento all'uomo modesto.

 
Dice Bertoldo: già il fatto che mi vogliate bene è una ricompensa per un uomo modesto come me…
 
RE:  Non deve il maggiore cedere al minore di cortesia.
BERTOLDO:  Né deve il minore accettar cosa che sia maggiore del suo merito.

 
E con tutta questa cerimoniosa dimostrazione di modestia, di generosità, di attenzione per l’altro di questi due protagonisti si chiude questo passo preso dal “Bertoldo” di Giulio Cesare Croce. E’ un esempio, anche questo, di comicità popolare, tutta sapida, tutta fatta di terra, di animalità, di concretezza. E come vi dicevo, appunto, risentiamo il sapore della commedia di Ruzante, dove si parlava del popolano che era andato alla guerra per la sua povertà. C’è il tema del richiamo alla natura, che è di Ruzante e di tanti altri interpreti del rinascimento in funzione antirinascimentale, di quella società che aveva attenzione al popolo contro la società cortigiana. E ritorna quest’anima popolare anche agli inizi del Seicento, con questa idea di Bertoldo, che quello che conta è la natura, la realtà, la verità, con la semplicità e anche l’autenticità delle cose. Lui con questa genuinità e schiettezza conquista un aristocratico, un re addirittura. E questo richiamo alla natura e alla realtà è anch’esso nello spirito della attenzione alla scienza di questo secolo. Ci lasciamo per la prossima lezione.

 
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