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ROMANZO PICARESCO: LAZARILLO, GUZMAN, CERVANTES: Don Chisciotte: La locanda - La critica




Antologia II Anno - 2^ Lezione (video)
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ROMANZO PICARESCO: LAZARILLO, GUZMAN, CERVANTES: Don Chisciotte: La locanda - La critica
 
Seconda lezione del secondo anno di Antologia, sempre con Barbara. Cominciamo con Cervantes. La sua è stata una vita avventurosa, è stato anche rapito dai pirati, uno di quegli incubi da cui i mari erano infestati. E’ stato liberato dopo anni, con il pagamento di un riscatto, ha perso l’uso di una mano, all’epoca degli scontri fra cristiani e saraceni, della battaglia di Lepanto, nel 1571, ha avuto insomma un’esistenza difficile. Quando era già un uomo maturo, alle soglie della vecchiaia, ha scritto il suo capolavoro, il “Don Chisciotte”, fra il 1605 e il 1615. Il 1616 poi è stato l’anno della morte di Miguel de Cervantes.
Tutti conosciamo il “Don Chisciotte”, ma non sappiamo bene, forse, qual è la Spagna teatro dell’opera. E’ la Spagna di Filippo Secondo e Filippo Terzo, della decadenza. Infatti il Seicento sarà conosciuto non solo come il secolo della scienza, ma anche della decadenza: degli spagnoli, degli italiani, perché i nostri territori erano occupati dagli stessi spagnoli. Evidentemente è la Spagna in questo momento lo stato più decadente d’Europa. Perché, pur avendo conquistato terre oltre oceano, avendo quindi i metalli preziosi e le risorse del nuovo continente, l’America, non è riuscita ad utilizzare queste ricchezze per un miglioramento, un progresso della società. Cosa che ben altrimenti fa nello stesso periodo l’Inghilterra e farà anche la Francia, che infatti, nel corso di qualche decennio, dal punto di vista economico diventerà il primo paese d’Europa, seguita a ruota da Inghilterra e Olanda, che sono paesi di grande commercio. La Spagna pure lo sarebbe, però non riesce ad avere un’amministrazione organizzata e razionale. E’ il periodo dell’artificio, dell’apparenza: quella spagnola, che dà poi il modello all’Europa, è una società in cui si coltivano le apparenze e si fa poca sostanza, si interviene poco concretamente nel miglioramento della struttura e delle funzioni della stessa.
Affluivano le risorse dall’America, attraverso Siviglia, Cadice, le città che assorbivano tutto quello che proveniva dallo sfruttamento dell’altro continente, ma poi non venivano utilizzate bene, tanto che nel paese si parla del due per cento di privilegiati, nobiltà e clero, e di una grande massa di diseredati. Questa grande folla di poveracci, costretti al vagabondaggio, a portare la “pica”, il bastone in spagnolo, alimenterà quella letteratura che sarà chiamata appunto picaresca, di viandanti in cerca di lavoro, che vivono di espedienti. E’ la tradizione di Lazarillo de Tormes, Guzman de Alfarache e di altri, anche anonimi. A questa tradizione si rifarà poi Cervantes, quando scriverà i suoi vari racconti e infine il suo grande romanzo, il “Don Chisciotte”.
Ma la tradizione picaresca merita ancora un altro rilievo. Questi protagonisti sono tutti un’espressione di un mondo che non funziona, nel quale l’autorità costituita si preoccupa di mantenere se stessa e di perpetuarsi, senza però risolvere i problemi sociali. Per esempio Lazarillo, da ragazzo, dalla sua famiglia, che è povera in canna, viene messo al servizio di un cieco che ha frequentato come prostituta sua madre, nel senso che il padre, non sapendo come sbarcare il lunario, faceva prostituire la madre. Il cieco cliente della madre porta via Lazarillo e le vicende poi raccontate in questa serie picaresca ci parlano di diversi fatti anche gustosi, pur se amari: quello finale è che Lazarillo lo lascia cadere in un burrone, perché se ne vuole liberare; ma prima ancora che si arrivi a questo ne ha sperimentate tante, per esempio la prima lezione che gli dà questo cieco è di non fidarsi degli altri, in uno strano modo: lo mette vicino ad un grande toro di pietra nella città di Salamanca, gli fa porgere l’orecchio vicino a questo toro e poi gli molla un grande ceffone, lo insordisce quasi, questo ragazzino, dicendogli: “La prossima volta non ti fidare di chi ti dice di fare una cosa se non ti sei premunito”. Poi imparerà la lezione, tanto che sfrutterà la disattenzione del cieco per liberarsi di lui.
Il mondo dei picari è anche, per esempio, quello descritto da Guzman, che si mette al servizio di un nobile che è spiantato più di lui, lo porta al suo castello e non ha niente da mangiare. Guzman si è portato dietro un po’ di pane raffermo con una scorza di formaggio e il nobile stesso glielo prende e se ne divora una buona parte. Ugualmente, chiede del vino ma c’è soltanto dell’acqua. Per sfamarsi, devono andare in chiesa, dove questo spiantato hidalgo, che dovrebbe mantenere il suo servo e ne è quasi mantenuto, ha un suo sistema: vanno a ricevere la comunione e fanno diverse volte il giro, passano diverse volte davanti al prete e così si sfamano con le ostie. Questo soltanto per dare un’idea di quale sia questo mondo, che è così messo male che la povertà non è più soltanto nei bassi livelli della popolazione, ma si infiltra anche negli strati nobiliari, dei cavalieri, che cominciano a vivere nei loro castelli senza sostanze, senza possibilità.
Ve ne racconto un’altra, quella dei finti storpi e dei finti ciechi, famosissimo passaggio per chi è esperto di letteratura picaresca. In una  piazza di un paese si ritrovano insieme un finto storpio e un finto cieco. Il finto storpio chiede, come il finto cieco, ma in un altro lato della piazza, di fare a lui la carità. A un certo punto qualcuno butta un soldo vicino al finto storpio, e il cieco, che cieco non è appunto, scappa a prendere il soldo dell’altro, convinto che non lo possa inseguire, ma l’altro, che storpio anche lui non è, prende a rincorrerlo.
Questo è il contesto picaresco che viene rappresentato in questo periodo da tutta una serie di autori che descrivono la società. E Cervantes attinge a questo mondo, che è anche quello della commedia dell’arte, della rappresentazione all’improvviso, su canovaccio, della quale pure dovremo dire più in là qualcosa, perché è importante. A questa commedia dell’arte si rifà lo stesso Cervantes, anche lui autore e interprete teatrale secondo quei modi; cioè in parte scriveva in parte improvvisava testi, metteva palco in una piazza e avviava le sue rappresentazioni. Spesso ha messo in scena anche momenti del “Don Chisciotte”. Quello della commedia dell’arte è appunto il mondo degli imbrogli, degli espedienti che si usano per poter sopravvivere.
Ora, comunque, per entrare nell’atmosfera del “Don Chisciotte” ne leggeremo un passo. E’ un famoso episodio, quello in cui il cavaliere con il suo fido Sancio Panza entra in un’osteria e vede come sempre una realtà che non esiste: la immagina come un castello di cui l’oste sia un castellano. Sancio vede benissimo la realtà ma non riesce a contrastare questa grandissima fantasia, questa illusione che il suo padrone crea sempre intorno a sé. Dopo vi darò la ricostruzione di chi è Don Chisciotte nel romanzo. Adesso entriamo nell’atmosfera. Immaginiamo un cavaliere secco, allampanato, vestito da hidalgo, ma con sistemi e mezzi di fortuna, accompagnato da un grassoccio Sancio, che è il suo scudiero, ma in realtà è poco più che un contadino da lui recuperato per strada. Comincio a leggere io, poi interverrai tu, Barbara, nei dialoghi…
 
CERVANTES, DON CHISCIOTTE, LIBRO I, CAPITOLO XVI
L'oste che vide don Chisciotte posto attraverso dell'asino, domandò a Sancio che male avesse. Sancio rispose essere cosa di niente; ch'era caduto da un masso e si era ammaccate un poco le costole. Aveva l'oste una moglie d'indole diversa da quelle che sogliono esercitare tal professione, naturalmente caritativa e compassionevole delle altrui miserie. Si applicò ella a medicare l'ammalato, e volle pure che la aiutasse una sua figlia, nubile, giovane e di buona grazia. Serviva nella stessa osteria una giovanotta asturiana con viso schiacciato, colla collottola spianata, col naso un po' storto, guercia da un occhio e ammalaticcia  dall'altro; ma la sua gagliardia di corpo contrabilanciava tutti questi difetti. Non era alta sette palmi, e le spalle alquanto aggobbate la costringevano a guardare a basso più di quello che avrebbe voluto. Anche questa ragazza garbata aiutò l'altra, ed ambedue allestirono un cattivo letto per don Chisciotte in un sito che mostrava di avere già servito da pagliaio molti anni, e dove tuttavia stavasi un vetturale il cui letto poco discosto da quello del nostro cavaliere errante, era fatto colle bardelle, ossia coperte dei muli, e contuttociò era migliore di quello di don Chisciotte, formato da due tavole mal piallate e mal collocate su due panche disuguali; un materasso che per leggerezza pareva un'imbottita ripiena di palle da balestra, che sarebbersi credute pietre se da qualche sdrucitura non si fosse veduto che veramente era lana; due lenzuola di cuoio di targhe così sfilate che avrebbe potuto numerarne i fili chiunque avesse avuto tal voglia. In questo tristissimo letto entrò don Chisciotte, e l'ostessa e sua figlia gli applicarono empiastri dal capo ai piedi, facendo lume Maritorna, che così chiamavasi l'Asturiana. Vedendo l'ostessa nell'ungerlo, che don Chisciotte avea molte lividure sparse per il corpo, si avvisò che ciò fosse proceduto piuttosto da percosse che da caduta.
— Non sono state percosse, disse Sancio, ma la natura del monte scabroso e pieno di  pietre, ciascuna delle quali impresse il suo segno; e poi soggiunse: Piaccia alla signoria vostra di fare che avanzi un po' di stoppa, che vi sarà altro sito bisognoso, perché io pure mi sento addolorato alquanto nei lombi.
— Se così è, disse l'ostessa, convien dire che siate voi pure caduto. 
— Eh non è questo, rispose Sancio, ma il batticuore che mi assalì quando vidi precipitare il padrone mi ha prodotto una scossa sì grande da rendermi tanto addolorata tutta la persona come se  mi avessero bastonato con mille bastoni.
— Questo può essere, soggiunse la ragazza, mentre anche a me accadde le molte volte di sognare di cader dall'alto di una torre senza arrivar mai abbasso; e svegliandomi trovarmi sì pesta e macinata come se la caduta fosse stata realmente vera.
— Qui sta il guaio, o signora, rispose Sancio Pancia, che io senza far sogni di sorta, ma standomi desto come sono presentemente, mi trovo tutto coperto di lividure come il mio signor padrone.
— Come si chiama egli questo cavaliere? gli domandò l'asturiana Maritorna.
 — Don Chisciotte della Mancia, rispose Sancio, ed è cavaliere venturiero dei più celebri e valorosi che da molto tempo in qua siensi veduti al mondo.
— Che significa cavaliere venturiero? soggiunse la serva
— Siete voi sì bambina al mondo, rispose Sancio, che nol sapete? Vi sia dunque noto, sorella mia, che cavaliere venturiero è uno che in due parole si vede bastonato e imperatore: oggi è la più sventurata e la più bisognosa creatura del mondo, e avrà dimani due o tre corone di regni da regalare al suo scudiere.

 
 Perché Don Chisciotte ha promesso un’isola, un regno, a questo povero scudiero…
 
— Ma come mai dunque, disse l'ostessa, non possedete almeno qualche contea?
— È troppo presto, rispose Sancio; perché da un mese soltanto andiamo cercando avventure, e non ne abbiamo finora incontrata alcuna che potesse darci un sì gran bene: e poi le tante volte l'uomo trova altra cosa da quella che cerca. Ma in verità che se il mio signor don Chisciotte guarisce da questa ferita, cioè, caduta, ed io non ne rimango storpiato, in verità che non rinunzierei alle mie speranze pel maggiore titolo di Spagna”.
Stava don Chisciotte ascoltando con somma attenzione questi discorsi; e rizzandosi meglio che poté nel suo letto, prese la mano dell'ostessa, e disse: — Credetemi, bella signora, che vi potete chiamare ben fortunata di alloggiare in questo vostro castello la mia persona, la quale è siffatta che se io non la lodo, gli è perché si suol dire che la propria lode avvilisce; ma vi dirà il mio scudiere chi io mi sia, e vi assicuro intanto che terrò scolpito nella memoria il favore che mi avete impartito, e ve ne sarò grato finché mi duri la vita. Così piacesse agli alti destini che amore non mi tenesse soggetto e incatenato cotanto alle sue leggi, ed agli occhi di quell'ingrata vezzosa (e qui ne borbottò il nome fra i denti) che quelli di questa vaga ragazza già sarebbero dominatori della mia libertà!”

 
Dulcinea è la donna che Don Chisciotte ha eletto a sua dama dei sogni, in realtà era una contadinotta forse nemmeno bella, descritta da Cervantes in maniera molto truce…
 
Stavansene confuse l'ostessa, la figlia e Maritorna udendo i ragionamenti dell'errante cavaliere, ch'esse intendevano né più né meno, come se avesse parlato greco. Si accorsero nondimeno che quelle dovean essere parole di cortesia e gentilezza, ma non assuefatte a simigliante linguaggio lo stavano guardando con ammirazione, sembrando loro che fosse un uomo diverso dagli altri. Perciò ringraziatolo con gentilezza da osteria, lo lasciarono.
 
E poi comincia l’avventura di Maritornes, che vi racconto in sintesi. Maritornes era d’accordo con il mulattiere che si sarebbero incontrati nella notte in quella stalla. Nel buio si va a trovare per sbaglio vicino a Don Chisciotte e questo inizia a parlare con lei come ha fatto prima con la locandiera. Il mulattiere si ingelosisce, si lancia contro il cavaliere, ma inciampa nella figura di Sancio. Interviene anche il locandiere, richiamato dalla confusione. Alla fine, Sancio mena il mulattiere, questo mena Don Chisciotte, l’oste mena Maritornes e il mulattiere. Insomma, se le danno di santa ragione e i due poveracci, Don Chisciotte e Sancio Panza, si prendono l’ennesima bastonatura. Questo per darvi l’idea di cos’è l’atmosfera picaresca rappresentata da Cervantes nel suo libro.
Nel suo insieme il romanzo è una grande metafora della Spagna di quel tempo. Ci sono due modi di interpretare il “Don Chisciotte”. Uno è che questo protagonista, con il suo volere affermare il valore del sentimento contro una realtà alienante, voglia rappresentare romanticamente tutti i sogni, tutte le persone che non rinunciano ai loro desideri e li vogliono realizzare in questa vita, anche magari a costo di essere disprezzati ed ostacolati da tutti e da tutto. L’altra interpretazione è più storico-sociale, che cioè don Chisciotte, in questo caso elemento negativo, raffiguri, con il suo volere a tutti i costi inseguire i sogni, il non aderire alla realtà della stessa Spagna, di cui l’hidalgo diventa il simbolo, una Spagna che non si rassegna all’idea che non basta avere le colonie per essere grandi, se poi non si sa organizzare, all’interno del proprio stato, un’efficiente politica, e quindi insegue i sogni delle conquiste coloniali ma non affronta la realtà di una sana amministrazione nazionale. Quindi il romanzo sarebbe una sorta di denuncia forte di uno stato che è rimasto legato al passato, come il personaggio di Don Chisciotte, che sceglie infatti di vivere le avventure da cavaliere in un mondo in cui i cavalieri non esistono più.
In ogni caso, raccontando l’inizio del romanzo per chi non lo avesse mai letto, dobbiamo ricordare che Alonso Quijano, italianizzato Chisciano, che è il vecchio hidalgo protagonista di questa storia, legge continuamente i testi degli antichi cavalieri e, imbevuto di queste letture, appunto decide di rientrare in questo mondo: il suo grosso errore è quello che possano vivere i cavalieri nel Seicento, quando erano scomparsi già nel Trecento. Vivere alla maniera di Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra. E si crea un’armatura tutta raffazzonata, con cartone, con altri oggetti di risulta: l’elmo è una specie di pentola, lo scudo è un coperchio e così via. E poi fa di un asino il suo cavallo, dal nome addirittura di Ronzinante, essendo un ronzino: questo ampliamento del nome rappresenta la nobiltà di questo asino che all’improvviso si trova proiettato nel mondo dei cavalli, dei puledri. E ha bisogno di uno scudiero, perché non c’è cavaliere che si rispetti che non abbia uno scudiero; e nomina il primo che si trova intorno, questo contadinotto di Sancio Panza, che a sua volta cavalca qualcosa di meno che un asino, che appunto diventa l’altra cavalcatura sulla quale vive con lui varie fantastiche avventure, di cui la prima che ricorderai è quella in cui affrontano i mulini a vento, che per Don Chisciotte sono dei giganti. Si scaglia contro di loro e addirittura viene preso dalle loro pale.
Sancio cerca ogni tanto di richiamarlo alla realtà, perché poi lui deve andare a raccoglierlo. Però la bellezza di questo romanzo è che nella seconda parte, quella che Cervantes scriverà dopo qualche anno, Sancio si è così abituato a queste avventure con il suo padrone, che addirittura è lui a tenere il gioco quando Don Chisciotte comincia ad avere dei dubbi. Lui comincia a vedere che Dulcinea non è quella che si era immaginato e Sancio lo rinforza lodando la sua bellezza. Perché ha paura di perdere questa illusione, questo giochetto, che lo riscatta da una bassa condizione sociale..
Ma come è nata l’idea della seconda parte? Non solo per questo, cioè per fare questi rovesciamenti che piacciono moltissimo a Cervantes, ma perché l’autore  immagina, dopo che erano circolate delle imitazioni del suo romanzo, che il suo stesso personaggio gli chieda di scrivere una seconda parte della storia, per rendere ragione o per avere ragione nei confronti di quelli che hanno usurpato il suo nome con delle avventure, delle cose in cui Don Chisciotte non si riconosce, perché non sono quelle che ha scritto il suo autore. Tra l’altro, poi, nella seconda parte si verifica appunto questo rovesciamento fra Don Chisciotte e Sancio Panza, come si diceva, e alla fine il protagonista morirà disperato e rinsavito, perché questo è interesse della sua famiglia, in quanto, prima di morire, deve lasciare in testamento le sue sostanze ai suoi eredi. Il cinismo, l’ipocrisia, la meccanica riproposizione delle esigenze più materiali da parte delle famiglie del tempo sono riprodotti dal nostro Cervantes. Arrivederci.
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