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ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: LA PAZZIA DI ORLANDO




Antologia - 16^ Lezione
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ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: LA PAZZIA DI ORLANDO
 
Siamo alla sedicesima lezione di Antologia, Pagine della nostra letteratura, sempre con Barbara come alunna, e stiamo leggendo l’opera di Ariosto. L’altra volta avevamo parlato del Proemio dell’”Orlando furioso”, avevamo stabilito come in questo poema Ariosto avesse un suo interlocutore nel mondo della corte, al quale raccontava storie di antichi cavalieri, ma in realtà richiamava qualcosa che fosse utile per affrontare l’esperienza di tutti i giorni. Descriveva la vita con le sue aspirazioni, i suoi sogni e la necessità di controllare le passioni, le emozioni, per non farsi prendere dagli avvenimenti. E poi abbiamo anche insistito già una volta, e possiamo riprendere questo ragionamento, sul superiore equilibrio che Ariosto impersona, che è tipico della società rinascimentale. Quell’equilibrio che per esempio in Leonardo è rappresentato dall’uomo vitruviano, l’uomo del canone di proporzioni, preso appunto dall’antico esempio di architettura e scultura del mondo classico, Vitruvio, che poi ricalcava il modello di Policleto, del Doriforo, della figura come canone, come sistema di proporzioni che andavano rispettate. Ecco, il rinascimento è fatto di proporzioni, di equilibrio, di prospettiva anche: si studia molto la linea nello spazio. E infatti abbiamo quadri interessanti sotto questo aspetto, tra i quali il più significativo, di solito riportato, è quello di Raffaello, lo “Sposalizio della vergine”. E poi una rappresentazione stretta dell’armonia rinascimentale è la Cupola di Brunelleschi, in cui le pietre si mantengono con un gioco di contrappesi e fanno sì, così disposte, che la volta non crolli. Questa idea dell’unità nella diversità, dell’uno nel molteplice, viene dalla filosofia platonica. In quell’epoca il circolo neoplatonico di Marsilio Ficino funzionava già nella Firenze del Magnifico e i suoi riverberi si sarebbero mnifestati anche nel primo Cinquecento. E l’idea dell’equilibrio ritornava nelle arti figurative, anche nella “Primavera” di Botticelli, che era di questo periodo, con questa figura che impersona la primavera, inserita perfettamente nel paesaggio, nella natura, nel sereno rapporto con l’ambiente nel quale ci si ritrova, senza scompensi. Tra l’altro nello stesso periodo, sempre in una visione di equilibrio generale, Raffaello aveva disegnato la “Scuola di Atene”, che rappresentava tre grandi filosofi in mezzo ad altri, Aristotele, Platone e Socrate.
Avevamo anche ricordato, a proposito di Ariosto, che la sua è un’immagine di uomo che non perde mai la calma. Ma nella realtà circostante è invece costretto a verificare atteggiamenti che non corrispondono a questa linea ideale. Stabilito dunque che l’equilibrio è la dominante dell’epoca, che Ariosto non ritrova nei contemporanei, e anzi questa è la minaccia che produrrà con altre cose la crisi del rinascimento, andiamo a vedere come si arriva all’episodio famoso della pazzia di Orlando, quello in cui si descrive come il grande paladino, che è il più saggio dei cristiani, impazzisca di gelosia, perché Angelica lo ha lasciato per Medoro.
Si passa prima attraverso le vicende del mago Atlante, del suo castello, in cui raccoglie i cavalieri e li incanta, li inganna; e poi solo con difficoltà riescono a sfuggire a questa grande illusione. Del film di Luca Ronconi abbiamo recuperato nella lezione precedente le immagini della fuga di Angelica, in questo lavoro molto moderno, con i personaggi su cavalcature che sono in realtà dei grandi giocattoli, mossi da macchine. Ma per lo stesso castello di Atlante ci sono illusioni create dalla fantasia architettonica e scenografica di Luca Ronconi, che vi daremo a commento della nostra lezione…
 
(FILMATO DALL’ORLANDO FURIOSO DI LUCA RONCONI)
 
Ora passiamo all’episodio della Pazzia di Orlando…
 
ORLANDO FURIOSO, CANTO XXIII
    Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin (Mandricardo) pel bosco senza via,
fece ch'Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
    Il merigge facea grato l'orezzo (l’ombra)
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l'elmo e lo scudo.

 
Se l’ombra è gradita al pastore che è nudo, figuriamoci a Orlando che in quel caldo di mezzogiorno era vestito con una corazza pesante…
 
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v'ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell'infelice e sfortunato giorno.

 
Il solito Ariosto, che ci dice che quando vogliamo fare una cosa poi ne troviamo un’altra. La vita è piena di sorprese. E’ entrato lì per gradire l’ombra e trova qualcosa che non si aspettava, negativo, invece che positivo. Infatti…
 
    Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l'ombrosa riva.
Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
    Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch'al suo dispetto crede:
ch'altra Angelica sia, creder si sforza,
ch'abbia scritto il suo nome in quella scorza.

 
La prima reazione di Orlando è quella di immaginare che l’Angelica lì nominata non sia la sua. E’ il primo inganno che opera nei propri confronti per non soffrire…
 
    Poi dice: - Conosco io pur queste note:
di tal'io n'ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch'a me questo cognome mette. –

 
La seconda illusione è che sì, lei è Angelica, perché la grafia è la sua, però il Medoro di cui lei parla potrebbe essere lui stesso: cioè Angelica, per non far sapere il suo vero amore per Orlando, potrebbe averlo nominato come Medoro…
 
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

 
Cerca di resistere con quella speranza che si è procurato da solo, con le illusioni…
 
    Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l'incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l'ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.

 
Gli capita quello che succede all’uccellino che finisce nel paniere del cacciatore, che quanto più sbatte le ali tanto più si invischia nella rete. Quanto più Orlando cerca di  liberarsi di questa idea che Angelica lo abbia tradito, tanto più gli è chiara la cosa…
 
Orlando viene ove s'incurva il monte
a guisa d'arco in su la chiara fonte.
    Aveano in su l'entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V'aveano i nomi lor dentro e d'intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

 
Ancora i loro nomi, Angelica, Medoro, incisi nella pietra o graffiati col carbone o con il gesso…
 
    Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l'entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
 

Scherza Ariosto: sembravano scritte allora, tanto erano evidenti…
 
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.

 
Aveva sintetizzato in versi il piacere che aveva provato nella grotta…
 
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:

 
Li aveva scritti in arabo, quei versi, e nella nostra lingua il significato era questo…
 
    - Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m'è data,
io povero Medor ricompensarvi
d'altro non posso, che d'ognor lodarvi:

 
Loda questi luoghi che gli hanno consentito di amare Angelica, nata da Galafrone, che quindi deve essere per forza la Angelica di Orlando: gli smonta anche quell’illusione…
 
    e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –

 
Si rivolge ai luoghi in cui ha amato Angelica e dice: o luoghi bellissimi, provvedete sempre, con me e con altri, che non arrivi, mentre si è impegnati nell’amore, un pastore o un gregge a disturbare…
 
    Era scritto in arabico, che 'l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch'avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:

 
Orlando conosceva tutte le lingue, e tra queste l’arabo, cosa che gli era servita molto nel passato, sia per le traduzioni che per gli accordi con i nemici. Ma adesso…
 
ma non si vanti, se già n'ebbe frutto;
ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto.
    Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v'era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.

 
Lo legge, lo rilegge, per credere che non sia, ma è…
 
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

 
Orlando sta entrando nella follia…
 
SCENEGGIATO DI LUCA RONCONI
    Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n'ha fatto esperimento,
che questo è 'l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che 'l duol l'occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
    L'impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l'acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l'umor che vorria uscir, tanto s'affretta,
e ne l'angusta via tanto s'intrica,
ch'a goccia a goccia fuore esce a fatica.

 
Come nell’otre pieno d’acqua che giriamo non esce quest’acqua se non a goccia a goccia dall’imboccatura stretta, così accade per Orlando, che è tanto pieno di voglia di piangere, di lacrime, che queste non riescono a venir fuori…
 
    Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d'insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

 
Non si rassegna Orlando. Vuole immaginare che quello che parla sia uno che lo voglia infamare e fare ammalare di gelosia, fingendo di essere stato con Angelica; a quel punto però rimane il fatto che abbia visto la grafia della sua donna e allora immagina che anche quella sia stata ben imitata da questo lestofante che vuole togliergli la serenità…
 
    In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.

 
Va proprio nella villa in cui Angelica ha curato il suo Medoro, nella casa del pastore. Ricordo che Medoro era rimasto ferito in battaglia, l’amico  Cloridano era andato in suo aiuto, era morto per aiutarlo e poi Angelica aveva trovato Medoro ferito e lo aveva curato nella casa del pastore…
 
    Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n'abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d'oro
gli leva, altri a forbir va l'armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v'ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d'altra vivanda.
    Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l'odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

 
Cerca di mantenere nella nebbia tutto, non vuole vedere, non vuole sapere…
 
    Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l'istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch'a molti dilettevole fu a udire,
gl'incominciò senza rispetto a dire:
    ome esso a prieghi d'Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch'era ferito gravemente; e ch'ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d'una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l'accese tanto e sì cocente fuoco,
che n'ardea tutta, e non trovava loco:
    e sanza aver rispetto ch'ella fusse
figlia del maggior re ch'abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d'un povero fante.
All'ultimo l'istoria si ridusse,
che 'l pastor fe' portar la gemma inante,
ch'alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.

 
(SCENEGGIATO DI LUCA RONCONI)
 
Per dare maggiore effetto alla sua storia fa portare l’anello che Angelica gli ha dato per compenso. Era quello che Orlando le aveva regalato. E qui maturerà la follia, di cui leggeremo nella prossima lezione.  Questo canto che stiamo leggendo in buona parte proprio restituisce l’idea dell’ariosità, della spazialità, della grandezza rappresentativa dell’”Orando furioso”, che sembra essere un’opera come la definisce De Sanctis…
 
(legge Barbara)
FRANCESCO DE SANCTIS, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
Non è credente e non è scettico, è indifferente…non è dunque il sentimento della natura, come non è il sentimento della patria, della famiglia, dell’umanità e neppure dell’amore, dell’onore. Questo mondo dove non è alcuna serietà di vita interiore è, dal punto di vista della vita reale, uno scherzo.
 
Ariosto sembra essere uno che scherza sempre. Poema dell’evasione, Ma vediamo cosa dice Lanfranco Caretti, che non è d’accordo con De Sanctis…
 
LANFRANCO CARETTI, ARIOSTO E TASSO
La vera materia del Furioso non è costituita dalle antiche istituzioni cavalleresche, ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell’uomo che in ogni pagina del poema è presente e liberamente celebrata. Ariosto non è affatto indifferente alla propria materia, ma partecipa ad essa con tutto il suo impegno, trasformando così il poema cavalleresco in romanzo contemporaneo, nel romanzo cioè delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo.
 
Possiamo condividere il giudizio di Caretti e non accettare la limitazione di De Sanctis, uno che nell’Ottocento,nell’epoca del Risorgimento, quando l’impegno politico del letterato è utile per la maturazione di una nazione, amava questo atteggiamento in tutti glli autori. Cervantes ha apprezzato moltissimo l’”Orlando furioso” e dice lui stesso che il tema della follia, di cui abbiamo parlato e che è in Don Chisciotte, lo ha maturato e lo ha sviluppato ispirandosi allo stesso Ariosto. Voltaire ne ha dato questo giudizio…
 
Questo poema è insieme l’Odissea, l’Iliade e il Don Chisciotte.
 
E ancora vediamo cosa dice di lui Camillo Pellegrino nel 1583…
 
Camillo Pellegrino paragonò il poema ariostesco a un palazzo falso di modello ma fornito di superbissime sale, di camere, di logge, di finestre fregiate ed adorne in apparenza di marmi africani e greci e ricco per tutto d’oro e d’azzurro, capace di dilettare appieno i semplici e i non intendenti, mentre i maestri e i professori di quell’arte, scorgendo in esso il falso e non veri ornamenti e ricchezze, meno soddisfatti ne resteranno.
 
Quindi questo studioso del Cinquecento dà anche lui un giudizio negativo come quello di De Sanctis e dice praticamente che il poema del Furioso è come un palazzo Kitsch, che piace a quelli che non ne capiscono niente di architettura e si fanno così abbindolare dai colori, dalle fantasie romantiche, stilistiche; un palazzo che non vale niente per gli esperti ma agli sprovveduti, la gentarella insomma, può apparire bello.  Ma Voltaire, lo abbiamo già visto, addirittura lo paragona ai grandi. E poi ancora abbiamo Foscolo…
 
L’Ariosto ci padroneggia ognor più tra per la sospensione nella quale ci tiene una serie tanto varia di casi e per la confusione che questi producono nella memoria. Nell’istante medesimo che la narrazione di un’avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto e subito dopo udiamo il mormorio di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarli.
 
Foscolo è stato un grande critico e nelle sue pagine londinesi, nell’ultima parte della sua vita, parla appunto della capacità costruttiva di Ariosto (contro quelle questioni di prima sul palazzo). Dice che nel momento in cui sembra che tutto si smonti tutto si rimonta e si ricostruisce nell’unità: è quell’unità nel molteplice di cui parlavamo prima. Ma sentiamo cosa dice Hegel, che apprezzò il modo in cui…
 
…le situazioni si realizzano, introducono straordinari intrecci e conflitti all’inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano, infine si risolvono inaspettatamente.
 
Il giudizio di Hegel, come vedete, è vicino a quello di Foscolo. E torniamo ancora a Caretti e a come descrive l’armonia che è nel Furioso, sottolineandone il caattere tipicamente rinascimentale…
 
L’unità che il Furioso riflette fedelmente in sé è tutt’altra cosa dall’unità di tipo medievale, immobile e con un centro fisso e stabilito. E’ proprio l’opposto, un’unità dinamica risultante dalla serie infinita dei moti della vita universale, compresenti nella loro totalità nell’intelletto dello scrittore, che li abbraccia e li rappresenta nei loro rapporti sempre diversi e inesauribili.
 
Unità dinamica la definisce. E poi ancora abbiamo il nostro autore più vicino ad Ariosto, Italo Calvino…
 
L’Orlando furioso è prima di tutto il poema del movimento, in cui il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito col senso di larghezza della disponibilità dello spazio e del tempo; un universo a sé, in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare e uscire, perdercisi.
 
Infatti questo cerca di rappresentare anche Luca Ronconi nel suo sceneggiato. Sentiamo ora Benedetto Croce…
 
Si direbbe l’ironia dell’Ariosto simile all’occhio di dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell’uomo e nel granello di sabbia, perché tutta l’ha fatta lui e non cogliendo in essa che il moto stesso, l’eterna dialettica e il ritmo e l’armonia.
 
Croce, come vedete, parla di ironia come unità del Furioso: la superiore visione del poeta, che riesce a scherzare, a sorridere della vita che sta rappresentando. In altri luoghi altri critici, lo stesso Caretti, diranno che in fondo Ariosto descrive in ogni personaggio una psicologia, anche semplificata, però è l’insieme delle diverse psicologie che fa la varietà dell’uomo e della vita. Quindi quest’opera è come un grande affresco dell’esistenza umana.
Abbiamo comunque chiuso questa prima parte del canto che parla della pazzia di Orlando con giudizi critici fra i più noti sull’Orlando furioso, per ambientare bene nel panorama della nostra letteratura, e della produzione mondiale, la posizione di questo grande autore. Ci vediamo alla prossima lezione.
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