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ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: ASTOLFO SULLA LUNA




Antologia - 17^ Lezione
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ARIOSTO, ORLANDO FURIOSO: PAZZIA DI ORLANDO (PARTE II), ASTOLFO SULLA LUNA
  
Diciassettesima lezione di Antologia. Con me Barbara, che impegneremo nella lettura della seconda parte dell’episodio della pazzia di Orlando. Eravamo arrivati al punto in cui il pastore, che ha raccontato la storia d’amore tra Medoro e Angelica, ha fatto vedere l’anello che Angelica aveva avuto in dono da Orlando e che la donna aveva regalato allo stesso pastore per ricompensa dell’ospitalità agli amanti. Ricordo che la cosa che fa impazzire il protagonista è anche il fatto che si sia innamorata di un semplice fante e non di un cavaliere del suo livello. Leggiamo…
 
ORLANDO FURIOSO, CANTO XXIII
    Questa conclusion fu la secure
che 'l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d'innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d'occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
    Poi ch'allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch'un sasso, e più pungente
che se fosse d'urtica, se lo sente.
    In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l'ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.

 
E’ come se Orlando saltasse e si agitasse su questo letto perché vi sono stati Angelica e Medoro; vuole evitare quasi il contatto…
 
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l'erba il villan che s'era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

 
Scappa dal letto come il villano quando vede un serpente…
 
    Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant'odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l'albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l'arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d'esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.

 
Finalmente è solo e questa volta (avete visto, nella lezione precedente, che Orlando non riusciva nemmeno a piangere, anzi era rimasto fermo, muto davanti al sasso) può dare libero sfogo al dolore…
 
    Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né 'l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch'abbia in testa
una fontana d'acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
(legge il professore)
    - Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch'a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch'agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e 'l dolore e la vita all'ore estreme.

 
Quello che sta uscendo da lui non sono le lacrime ma il suo umore vitale, la sua vita…
 
    Questi ch'indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che 'l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m'arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l'ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che 'n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

 
Non sono sospiri, ma è vento che fa l’amore per attizzare il sentimento nel cuore…
 
    Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch'era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l'ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch'in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l'ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. –

 
Io sono la mia ombra che va vagando sulla terra per ammonire gli altri innamorati a non seguire il mio destino...E comincia a vagare nel bosco, a disperarsi, a buttare via le piastre, l’armatura, l’elmo, lo scudo, si denuda completamente e non mangia, non dorme per tre giorni e per tre notti…
 
    Qui riman l'elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l'usbergo:
l'arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l'ispido ventre e tutto 'l petto e 'l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch'intenda.
    In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.

 
Ariosto scherza, è la sua famosa ironia. Non gli venne in mente di prendere in mano la spada, perché credo, dice, che avrebbe compiuto delle grandi imprese, vista la forza che aveva in quel momento in cui si sentiva pazzo…
 
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe' ben de le sue prove eccelse,
ch'un alto pino al primo crollo svelse:
    e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti; (come fossero piante tenere)
e fe' il simil di querce e d'olmi vecchi,
di faggi e d'orni e d'illici e d'abeti.
Quel ch'un ucellator che s'apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l'urtiche,
facea de cerri e d'altre piante antiche.

 
Quello che il cacciatore fa, per prepararsi il campo libero, dei piccoli arbusti, che vuole togliere per ripulire e poter mettere la rete, lui lo faceva con le grandi piante, le querce, gli elci e cos’ via…
 
    I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.

 
E’ un grande teatro quello che sta facendo Orlando…
 
Ma son giunto a quel segno il qual s'io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo' più tosto diferire,
che v'abbia per lunghezza a fastidire.

 
Immaginiamo Ariosto davanti alla sua corte: “Sono arrivato a quel punto che forse mi sono dilungato troppo (e in effetti si è dilungato) e la storia potrebbe infastidirvi, per cui la interrompo, non vado oltre”. Interrompiamo anche noi, richiamando sempre questa idea che nella pazzia di Orlando l’autore voglia rappresentare la follia degli uomini. E’ un tema sul quale ritornerà, nello stesso periodo, qualche anno dopo, Erasmo da Rotterdam, che scriverà “L’elogio della follia”: un titolo ironico, se pensiamo alla follia che lui condanna, quella degli uomini che seguono appunto indirizzi sbagliati, e invece reale, se intende l’altra che ritiene giusta, la piccola follia, quella creativa, che consente al saggio, al sapiente, di essere anche produttivo. Lo spiegheremo nelle prossime lezioni; comunque Erasmo ritiene che se il saggio è sempre razionale e non ha momenti diversi dalla razionalità, poi non riesce a rendere appunto producente e operativo il suo sapere.
Dunque, la follia. E’ impazzito Orlando e bisogna recuperare il suo senno. Nella sua immaginazione straordinaria, che però non è tutta di Ariosto, che riprende questo tema del ritrovamento sulla luna di ciò che si perde sulla terra da altri scrittori della sua epoca, appunto vediamo che il cugino Astolfo va sulla luna a recuperare il senno di Orlando. Non solo il senno, ma tutte le cose che si perdono sulla terra si ritrovano sulla luna, un po’ deformate, modificate. E diventa, questo canto, una sorta di rassegna degli errori compiuti dagli uomini. Quindi si può avvicinare questo passo all’”Elogio della follia” di Erasmo, laddove appunto il grande umanista del Cinquecento passava in rassegna tutti gli errori, tutte le ingiustizie, tutte le insufficienze della società del suo tempo. Leggiamo di quando Astolfo e Giovanni vanno al regno della luna…
  
 ORLANDO FURIOSO, CANTO XXXIV
         Tutta la sfera varcano del fuoco,
     ed indi vanno al regno de la luna.
     Veggon per la più parte esser quel loco
     come un acciar che non ha macchia alcuna;
     e lo trovano uguale, o minor poco
     di ciò ch’in questo globo si raguna,
     in questo ultimo globo de la terra,
     mettendo il mar che la circonda e serra.
         Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
     che quel paese appresso era sì grande,
     il quale a un picciol tondo rassimiglia
     a noi che lo miriam da queste bande;
     e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
     s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
     discerner vuol; che non avendo luce,
     l’imagin lor poco alta si conduce.
         Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
     sono là su, che non son qui tra noi;
     altri piani, altre valli, altre montagne,
     c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
     con case de le quai mai le più magne
     non vide il paladin prima né poi:
     e vi sono ample e solitarie selve,
     ove le ninfe ognor cacciano belve.

 
Vedete questa sottolineatura di “altro”: si trovano laghi, montagne, campagne eccetera, ma sono “altri”, cioè sono diversi, sono deformati…
 
         Non stette il duca a ricercar il tutto;
     che là non era asceso a quello effetto.
     Da l’apostolo santo fu condutto
     in un vallon fra due montagne istretto,
     ove mirabilmente era ridutto
     ciò che si perde o per nostro diffetto,
     o per colpa di tempo o di Fortuna:
     ciò che si perde qui, là si raguna.

 
Questa idea del viaggio sulla luna poi è un’idea che attraversa anche altre opere. Per esempio Cyrano de Bergerac, nel Seicento, scrive “Gli Imperi e gli Stati del Sole e della Luna”, in cui immagina un viaggio utopico nel sole e uno sulla luna. Altro viaggio, nel Cinquecento, è quello alla base di “Utopia” di Tommaso Moro, verso l’isola della società ideale. Poi, nel Settecento, ci saranno i viaggi di Swift, Defoe, lo stesso Voltaire. Comunque, si raduna in questo vallone tutto ciò che si perde sulla terra…
 
         Non pur di regni o di ricchezze parlo,
     in che la ruota instabile lavora (la ruota della fortuna);
     ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
     non ha Fortuna, intender voglio ancora.

 
Non voglio parlare di quelle cose che la fortuna ci dà, che si perdono finendo sulla luna, ma di quelle cose che noi ci procuriamo e poi si perdono sulla luna…
 
     Molta fama è là su, che, come tarlo,
     il tempo al lungo andar qua giù divora:

 
La fama nel mondo viene divorata come da un tarlo, cioè la nostra notorietà si consuma con il passare del tempo: pian piano ci si dimentica di noi, anche se siamo stati grandi protagonisti. E Ariosto vuole ammonire i contemporanei anche su questo: non gloriatevi troppo del successo che avete, perché col passare del tempo si smorzerà e finirà nel vallone della luna…
 
     là su infiniti prieghi e voti stanno,
     che da noi peccatori a Dio si fanno.

 
Anche le preghiere a Dio si pèrdono. C’è tanta umanità in questo rinascimento, dopo il medioevo, che continua a pregare, a fare voti di castità, di purezza, di santità, ma poi questi voti si perdono sulla luna, cioè tanti propositi, dice Ariosto, non si traducono in realtà e tutte le promesse non vengono mantenute…
   
         Le lacrime e i sospiri degli amanti,
     l’inutil tempo che si perde a giuoco,
     e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
     vani disegni che non han mai loco,
     i vani desideri sono tanti,
     che la più parte ingombran di quel loco:
     ciò che in somma qua giù perdesti mai,
     là su salendo ritrovar potrai.

 
In quel luogo si trovano e lo ingombrano tanti momenti importanti per noi, per la nostra vita, che però poi vanno a svanire. Per esempio quanti sospiri, quante lacrime abbiamo versato per amore poi si pèrdono, come le ore di ozio e i progetti…
 
         Passando il paladin per quelle biche,
     or di questo or di quel chiede alla guida.
     Vide un monte di tumide vesiche,
     che dentro parea aver tumulti e grida;
     e seppe ch’eran le corone antiche
     e degli Assiri e de la terra lida,
     e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
     incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.

 
Ariosto sulla luna trasforma i trionfi, i successi dei popoli antichi in vesciche gonfie, cose brutte e insignificanti, mentre prima queste presenze degli antichi popoli erano gloriose…
 
         Ami d’oro e d’argento appresso vede
     in una massa, ch’erano quei doni
     che si fan con speranza di mercede
     ai re, agli avari principi, ai patroni.
 

Anche questo non è nuovo. Ariosto riprende queste immagini da altri scrittori del suo tempo. Ammassati ci sono degli ami d’oro e d’argento, che sono i doni che si fanno con la speranza di ricompensa. Infatti sulla luna, trasformati, diventano tali perché attraverso questi abbiamo cercato di attirare l’attenzione di chi ci doveva proteggere. E lì finiscono, sono inutili, perché poi i re, i prìncipi, i padroni non sempre corrispondono alle nostre richieste. Ricordo che Ariosto aveva cercato l’aiuto del papa Leone Decimo, che quando era andato lì gli aveva dato soltanto il “santo bacio” perché non riteneva potesse essergli utile…
    
     Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
     ed ode che son tutte adulazioni.

 
Le adulazioni che facciamo ai prìncipi sono ghirlande in cui si nascondo i lacci, i legami. Perché appunto l’adulazione è questo: dentro la ghirlanda delle mie parole c’è il laccio della mia volontà di ottenere dal potente…
   
     Di cicale scoppiate imagine hanno
     versi ch’in laude dei signor si fanno.

 
I versi che si scrivono in lode dei signori sono lì sulla luna, persi e trasformati in cicale che siano scoppiate: canta, grida, starnazza e poi esplode, questo poetucolo, questo poetastro. Ariosto naturalmente non si ritiene uno di questi adulatori. Ricordo che c’è un luogo molto bello dell’opera in cui parla di “cigni” e di “corvi”. Ci sono delle tesserine sul lago, che contengono dei nomi di personaggi importanti del suo tempo e i corvi vengono a beccare queste tesserine che stanno sull’acqua, vanno in volo e poi sbadatamente le lasciano cadere, così che si perdono con i nomi; mentre il cigno le raccoglie, con maggiore lentezza e calma, con maestosità, le prende col suo becco e le va a depositare sulla sponda, dove dovranno avere evidenza. In metafora Ariosto vuole dire che i poeti minori sono come i corvi, che svolazzano, si agitano, operano nella corte, ti fanno famoso, ma per poco tempo, presto la loro opera così ridicola, così infima farà sì che nessuno la leggerà e quindi il nome del personaggio che essi stessi hanno ricordato non sarà più nella memoria dei lettori; mentre i grandi poeti sono i cigni, che se ti nominano lo fanno per sempre. Naturalmente tra questi si colloca lui stesso. E abbiamo ricordato anche nel Proemio che il cardinale otterrà fama per sempre proprio dalla citazione che Ariosto ne fa in questo poema. E ancora…
 
         Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
     vede c’han forma i mal seguiti amori.

 
Gli amori che sono finiti male hanno qui l’aspetto di nodi d’oro e di catene gemmate. In effetti l’amore è un legarsi, in cui oro e pietre preziose poi si deformano in catene e nodi che finiscono sulla luna…
     
     V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
     l’autorità ch’ai suoi danno i signori.

 
I signori danno ai loro alleati, ai loro dipendenti, gli artigli d’aquila, per potere meglio azzannare il popolo e ridurlo in schiavitù. E si perde anche questo potere male esercitato. Non è vero, quindi, che Ariosto sia così superficiale o indifferente come lo vuole descrivere De Sanctis, da noi citato nella precedente lezione. Ariosto dà i suoi giudizi politici contro la corruzione, l’adulazione, la promessa dei favori, l’esercizio dell’autorità inteso in questi artigli. E poi…
 
     I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
     sono i fumi dei principi e i favori
     che danno un tempo ai ganimedi suoi,
     che se ne van col fior degli anni poi.

 
Astolfo vede nel vallone i mantici, questi enormi soffioni per attizzare il fuoco, nei quali si sono trasformati i favori dei prìncipi ai loro ganimedi. Ariosto qui colpisce anche un aspetto della corruzione del tempo, che i grandi, i potenti, avevano dei compagni di erotismo. Omosessualità del potere, diciamo…
 
         Ruine di cittadi e di castella
     stavan con gran tesor quivi sozzopra.
     Domanda, e sa che son trattati, e quella
     congiura che sì mal par che si cuopra.

    
Vede edifici in rovina, e viene a sapere che sono i trattati, che venivano stipulati e poi si disintegravano, in quanto non venivano rispettati. Questi grandi edifici, questi accordi, si sgretolano e finiscono tutti, in questa metafora, sulla luna, perché si sono persi. Anche qui c’è un giudizio politico importante sul suo tempo. Questo tema lo riprenderà Machiavelli, che sarà argomento della prossima lezione, dicendo che in un mondo in cui non si rispettano i trattati il principe, che lui crea come modello di attività politica, non deve a sua vota rispettarli, lo vedremo. …
 
     Vide serpi con faccia di donzella,
     di monetieri e di ladroni l’opra:
     poi vide bocce rotte di più sorti,
     ch’era il servir de le misere corti.

 
Vede l’ipocrisia, vede la schiavitù degli uomini nelle corti, rappresentata in “bocce rotte”. E poi, questo è importante…
 
         Di versate minestre una gran massa
     vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
     - L’elemosina è (dice) che si lassa
     alcun, che fatta sia dopo la morte. –

 
L’elemosina che facciamo, cioè la donazione che facciamo alla Chiesa delle nostre ricchezze per ottenere la salvezza dell’anima (ricorderete che abbiamo detto in lezioni precedenti che i mercanti di quel tempo per rifarsi una verginità davanti al Signore donavano una parte del loro patrimonio alla Chiesa), si perde sulla luna e si trasforma in “versate minestre”. Cioè come una minestra che invece che utilizzata sia stata sprecata; perché la Chiesa quello che incassa non lo dà poi ai poveri…
 
     Di vari fiori ad un gran monte passa,
     ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
     Questo era il dono (se però dir lece)
     che Costantino al buon Silvestro fece.

 
Di questa donazione di Costantino avevamo già parlato con Dante, che non sapeva che fosse falsa. Ariosto lo sa (nel Quattrocento  è stata dimostrata la sua falsità) e allora la dipinge qui come un mucchio di fiori che ora puzzano. Cioè quel documento che la Chiesa prima faceva passare per vero adesso puzza di falsità, perciò si è perso sulla luna. Sono tante frecciate alla società del tempo, che ritroveremo in Erasmo, in Machiavelli, in Aretino, in Cellini, in Rabelais, in tutti i dissenzienti del rinascimento, in quel fenomeno che descriveremo come antirinascimento. E quindi Ariosto sta su quella linea, già anticipa i tempi addirittura. Come facciamo a descriverlo come indifferente, come poeta dell’evasione pura?
 
         Vide gran copia di panie con visco,
     ch’erano, o donne, le bellezze vostre.

 
Rappresenta le bellezze delle donne come panie con il vischio per attirare, quelle usate dal cacciatore…
  
     Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
     le cose che gli fur quivi dimostre;
     che dopo mille e mille io non finisco,
     e vi son tutte l’occurrenze nostre:
     sol la pazzia non v’è poca né assai;
     che sta qua giù, né se ne parte mai.

 
Il tempo è tiranno e abbiamo appena il modo di arrivare a presentarvi quello per cui Astolfo era andato. Era andato per recuperare il senno di Orlando. E arriva dove ci sono vari cervelli…
 
         Era come un liquor suttile e molle,
     atto a esalar(pronto a evaporare), se non si tien ben chiuso;
     e si vedea raccolto in varie ampolle,
     qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
     Quella è maggior di tutte, in che del folle
     signor d’Anglante era il gran senno infuso;
     e fu da l’altre conosciuta, quando

     avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
 
Hanno anche un’etichetta. Ma perché più grande quella di Orlando? Orlando è il più saggio dei cavalieri cristiani e il suo senno lo ha perso tutto. Essendo tutto il senno enorme di Orlando, l’ampolla che lo deve contenere è gigantesca.
 
         così tutte l’altre avean scritto anco
     il nome di color di chi fu il senno.
     Del suo gran parte vide il duca franco;
     ma molto più maravigliar lo fenno
     molti ch’egli credea che dramma manco
     non dovessero averne, e quivi dénno
     chiara notizia che ne tenean poco;
     che molta quantità n’era in quel loco.

 
Vedete poi sempre l’ironia di Ariosto. Astolfo vede tanti senni di persone che a lui risulta che non ne abbiano perso. Si vuole dire, scherzando sempre, che molto spesso non sospettiamo quanto siano un po’ pazze e strane le persone. Bisogna andare sulla luna per vederlo. Quella che ci sembra sensata in realtà ha dei risvolti che non sospettavamo nemmeno. E poi conclude…
 
         Altri in amar lo perde, altri in onori,
     altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
     altri ne le speranze de’ signori,
     altri dietro alle magiche sciocchezze;

 
Se la prende anche con la magia, tanto diffusa nel suo tempo…
 
     altri in gemme, altri in opre di pittori,
     ed altri in altro che più d’altro aprezze.
     Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
     e di poeti ancor ve n’era molto.

 
Ce l’ha anche coi sofisti, che si perdono in ragionamenti un po’ assurdi, con gli astrologi… E’ una rassegna, dicevamo, della insanità, della follia nel mondo. Così concludiamo, “ex abrupto”, perché pensiamo che ormai l’anima di Ariosto sia entrata nei nostri ascoltatori.