Gli anni cinquanta

Gli anni cinquanta: fra continuità della tradizione, svolgimenti del neorealismo e secessione astratta
(da appunti di Massimo Bignardi)

  
A.Venditti, Murale policromo, 1954, tescinca mista

Negli sviluppi del serrato dibattito sviluppatosi nell'arte italiana fra il 1945 e il 1948 vanno ricercati i riferimenti per meglio ridisegnare i con- torni della nuova situazione venutasi a creare nel Molise nella prima metà del decennio Cinquanta. La scoperta del cubismo riletto alla luce di Guernica che per i giovani artisti italiani degli anni Quaranta rappresentava il punto d'arrivo della trasformazione osserva Argan - espressionistica di Picasso, è lo sprone decisivo per accelerare i tempi del rinnovamento e restituire l'arte italiana alla cultura europea». Dell'ottobre del 1946 è la "dichiarazione programmatica" della "Nuova secessione artistica", redatta a Venezia da Marchiori ed Apollonio e firmata da Birolli, Cassinari, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova, Leoncillo e Viani; "secessione" che, subito dopo, prende il nome di "Fronte Nuovo delle Arti", inaugurando la prima mostra collettiva del gruppo nel giugno del 1947 alla Galleria della Spiga di Milano. Il termine "fronte" sta a sottolineare maggiormente l'impegno comune degli artisti ad operare sostituendo «<all'estetica delle forme si legge nella citata dichiarazione del 1946- una dialettica delle forme» e questo in direzione di un tentativo di «avvicinare a una prima base di necessità etica e morale le loro singolari affermazioni nel mondo delle immagini, le loro osservazioni, assumendole come atti di vita». A meno di un anno dalla sua costituzione la vita interna del "Fronte" registra i primi movimenti di dissidenza; Cassinari, già prima della mostra milanese aveva ritirato l'adesione, mentre Birolli e Morlotti, in tale occasione, non esporranno. Successivamente aderiranno Turcato, Corpora e gli scultori Franchina e Fazzini.
Alla Biennale veneziana del 1948, la prima del dopoguerra, i sintomi di una dichiarata distanza fra due precise posizioni iniziano a delinearsi: da una parte l'attenzione verso l'astrattismo, più che altro un'astrazione nata da una rinnovata dialettica con la natura, linea sulla quale si muovo- no Corpora, Birolli, Turcato e Vedova (quest'ultimo attestato già dal 1943 su una scomposizione astratta dell'impianto figurale, segnalato dalla poco nota tela Osteria della libertà oggi nella collezione della Cassa di Rispar- mio di Parma e Piacenza); dall'altra la scelta operata da Pizzinato e. soprattutto, da Guttuso maggiormente aderente ad una figurazione attenta ai temi sociali, ad una motivazione politica.
E' proprio nel 1948 che si accende la polemica fra realisti ed astrattisti, una polemica che nasce all'indomani, anche, di una preoccupante posizione di chiusura assunta dalla sinistra storica italiana, in particolare dal Partito di Togliatti. Per farsi un'idea in tal senso basta leggere la corrosiva e demagogica recensione apparsa sulla rivista "Rinascita", a firma di Roderigo di Castiglia della "Prima Mostra Nazionale d'Arte Contemporanea", organizzata dall' Alleanza della Cultura a Bologna nell'autunno del 1948, chiusura sobillata e sollecitata proprio da quelle forze che si dichiaravano progressiste. Roderigo di Castiglia in un passo saliente della sua breve recensione, guardando forse alle opere di Vedova, di Birolli che, peraltro, partecipa al dibattito organizzato nel corso della mostra, si chiede: «Come si fa a chiamare "arte", e persino "arte nuova" questa roba, e come mai hanno potuto trovarsi a Bologna(...) tante brave persone disposte ad avallare con la loro autorità, davanti al pubblico, questa esposizione di orrori e di scemenze come un avvenimento artistico?». Non tanto diverso è stato il giudizio di Paolo Ricci rispetto al nuovo corso di attenzione all'arte concreta, avviato a Napoli nel 1950 da Venditti, Barisani, De Fusco e Tatafiore: eloquente è il titolo "Astrattismo alla pizzaiola" dato alla recensione apparsa sulle pagine napoletane de' "l'Unità" nel gennaio del 1952. Nelle file del P.C.I. l'eco del discorso sul realismo sociale fatto da Zdanov nel 1946 (la traduzione italiana è pubblicata solo nel 1949) fa sentire i suoi chiari e negativi effetti.


A.Pace, Itinerario, 1960 , tempera e filo vianco su tela

E' questo il clima che vive l'arte italiana allo scadere del decennio Quaranta, acceso da un dibattito fra realisti ed astrattisti, confronto che ha preso anche le vicende dell'arte napoletana di quegli anni di Napoli. Sono gli stessi nei quali all'Istituto d'Arte ed all'Accademia di Belle Arti studiano due giovanissimi artisti molisani Antonio Pettinicchi, allievo alla scuola di pittura di Emilio Notte e Walter Genua che frequenterà nei
primi anni Cinquanta i corsi di scultura di Emilio Greco e di Antonio Venditti. Le pagine della situazione artistica napoletana dell'immediato dopoguerra sono segnate dalle vicende del Gruppo Sud, da quella fervida congiuntura di artisti ed intellettuali che ha rappresentato «un momento decisivo di maturazione - scrive Enrico Crispolti - problematica, nel rapporto con una drammatica realtà sociale, tuttavia piena di speranze di rinnovamento...».
E' proprio sull'onda di quanto accade nella vecchia capitale del Mezzogiorno che prendono l'avvio e si formano i primi germi del dibattito dell'arte nel Molise: apre la strada Antonio Pettinicchi, legato all'area del realismo sociale, fortemente sollecitato da Paolo Ricci che lo inviterà alla Biennale di Venezia del 1956, insieme ad un nutrito gruppo di "neorealisti" napoletani quali Armando De Stefano, Antonio Tammaro e Augusto Perez presente con tre sculture e tra queste Testa che ride un bronzo del 1953. In questa occasione l'artista di Lucito espone alcune acquaforti realizzate nel 1955, quali Donne del Codacchia, Ragazzi del Codacchia e Paesaggio con maschere, tutte ispirate da un approccio referenziale con il dato visivo, con la realtà, esasperata da un segno espressivo, denso di neri e di ombre già presente in opere quali Partenza di due donne presentata da Pettinicchi alla Mostra dell'Arte nella vita del Mezzogiorno, allestita a Roma nel 1953. Più tardi sarà la volta di Walter Genua, formatosi alla scuola di Antonio Venditti: la sua adesione al dilagante "neorealismo", diversamente da quanto proposto dalla pittura di Pettinicchi, è in direzione di un approfondimento della dialettica delle forme, di un riscoperto arcaismo ben evidente in sculture quali Spigolatrici del 1954, Cavallino e La famiglia entrambe del 1955, quest'ultima forse tra le opere con le quali l'artista partecipa alla "Mostra Nazionale d'Arti Plastiche e Figurative" allestita al Chiostro dei Girolomini a Napoli nel 1956.
All'alba e nel corso del decennio Cinquanta, la situazione artistica nel Molise, penso soprattutto a Campobasso, si può riassumere in tre precisi e ben delineati indirizzi di ricerca: da una parte v'è la pittura di tradizione, nel senso di una figurazione che trova il suo terreno facile nel suggestivo ed amiccante dettato naturalistico e popolare, il cui paladino resta Marcel- lo Scarano. In quest'area, ove non mancano esempi di una qualità anche formale della pittura, si nascondono, per quella facile copertura d'ignoranza che lievita nei salotti mondani, i pittori di quello che, con grande lucidità, Antonio Cirino definisce "il sottobosco", dal titolo del citato volume.
Su un'altra sponda si attesta il lavoro, sollecitato anche dall'attività di denuncia politica, svolto dai "neorealisti" con alla testa Pettinicchi e Genua: è in quest'ambito che si formano e si nutrono quei giovani artisti che sul finire del decennio Cinquanta inaspriranno, fino ad esasperarlo, il confronto con la realtà culturale ed artistica locale. La terza posizione è assunta dalla compagine astratta: essa non interpreta un vero e stanziale segmento delle vicende artistiche molisane, bensì è la misura della dialettica che guarda alle vicende nazionali ed internazionali, alla grande onda dirompente del gesto e del segno informale, del suo allarmante grido. Essa respira a fianco dei giovani, serpeggia nell'aria, sollecitando dall'esterno i focolai interni, vivi come piccoli ed irrequieti fronti: la figura chiave è quella di Antonio Venditti che già dal 1948-49 e fino al 1954 (dal 1953 è professore ordinario di scultura decorativa presso l'Accademia di Belle Arti di Roma) precisa la sua definitiva svolta dapprima verso l'assunzione di forme organico-astratte guardando a Moore attraverso Viani come nelle "composizioni" esposte a Roma nel 1951 in occasione della mostra "Arte astratta e concreta in Italia", poi la dichiarata adesione al concretismo (si veda ad esempio l'opera Murale policromo del 1954) nell'ambito delle esperienze del M.A.C. napoletano. Nell'area di ricerca che apre ad una sentita riflessione sulle possibilità offerte dall'astrazione guardano le scelte sia di Pace, sia di Marotta. Il primo segnala, già con le opere realizzate sul finire degli anni Quaranta, penso all'Autoritratto del 1945 o il Paesaggio di Lugano del 1951. una sua particolare attenzione, letta attraverso la pittura di Mafai (si veda- no i dipinti degli anni della resistenza) al dettato proprio della pittura degli espressionisti della Brücke, studiati dal vero in occasione di un lungo soggiorno in Svizzera a metà degli anni Cinquanta. Tensione tra- dotta, in senso di approccio neonaturalistico, nel fugace attraversamento della poetica informale, come attestano le opere esposte alla personale allestita alla Galleria "L'incontro" di Roma del 1958, quali ad esempio Ghiaccio e fiori o Pittura entrambe del 1957, con richiami alla sensuale corposità di impianti cromatici molto vicini a quei pittori che Francesco Arcangeli chiamò "ultimi naturalisti". In Svizzera l'artista scopre la lirica tensione emotiva di Klee, la sua rigorosa costruzione di un "assoluto" che fonda sul rapporto fra teoria e prassi: la linea, lo sviluppo del punto saranno i punti centrali sui quali l'artista di Termoli lavorerà dal 1959, ed indicativo è il dipinto dal titolo Itinerario.
Diversa e più complessa la personalità di Gino Marotta: innanzitutto perché la sua azione, già dal 1954 appena diciannovenne ed all'indomani della partecipazione al Premio Anagni, è diretta ad un coinvolgimento complessivo e più radicato nel rinnovamento culturale locale. Si pensi al lavoro svolto in parallelo alle iniziative del periodico "Mazzamauriello" di cui disegna la testata, poi la frontale contestazione del qualunquismo culturale nel quale lievitava "il sottobosco". La sua ricerca subisce infatti una decisa svolta, in senso di rifiuto (anche se rispettoso) sia del facile compiacimento figurale proprio della pittura di Scarano, sia dell'invadenza neorealista, politicizzata. Marotta si trasferisce a Roma all'inizio della seconda metà del decennio: la sua pittura guarda già a soluzioni proprie dell'espressionismo astratto, come nel dipinto Fiori del 1957, approdato, poi, ad una sorta di assemblaggi materici, come testimonia l'opera dal titolo Il bandone del 1959 esposta al "Premio Nazionale Scipione" a Macerata ed oggi conservata nella raccolta della Pinacoteca Civica di questa città.

Appartato nella sua Baranello opera Alfredo Pizzanelli, un artista che sin dai primi anni del decennio fa registrare la sua presenza a manifesta- zioni quali il "Premio Terni" del 1954, la cui giuria è presieduta da Fortunato Bellonzi e nel 1956 alla "VII Quadriennale" di Roma ove espone anche Antonio Pettinicchi. Le esperienze pittoriche di Pizzanelli dei primi anni Cinquanta, si veda ad esempio il paesaggio dal titolo Case di Bara- nello, lo scoprono attento ad un dettato naturalistico, letto attraverso la lezione degli impressionisti, con accenti che rivelano una larvata influenza vangoghiana. Dopo questa data, o meglio a metà del decennio e con opere quali Figura di donna con ventaglio, realizzata tra il 1955 e il '56. l'interesse dell'artista di Baranello viaggia in direzione di un approfondi- mento formale degli impianti neoimpressionisti, per certi versi guardando le ultime opere di Signac. Subito dopo l'attenzione è rivolta alla capacità della materia, al suo darsi come dettato espressivo, alla sua forza evocati- va e sobillatrice di immagini analogiche come segnala Mario Discenza nella recensione dal titolo La poliedrica personalità del pittore Alfredo Pizzanelli apparsa (1962) sulle pagine regionali del quotidiano "Il Tempo". E' in questi anni, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta (si veda Composizione polimaterica, 1960, forse tra le opere esposte alla mostra di artisti molisani allestita alla National Art Club di New York nell'estate del 1962) che Pizzanelli si avvicina maggiormente alle frange dell'informale italiano, in modo particolare alle arruffate matasse segniche fatte "esplodere" su materiali plastici, dai pittori nuclea- risti. Indicativo in tal senso il rapporto di amicizia che lega Pizzanelli al napoletano Mario Colucci, tra gli artefici della pittura nucleare.
Questi tre segmenti della nuova situazione artistica molisana degli anni Cinquanta si contrappongono frontalmente a quel "desolante deserto" nel quale accampano «i responsabili - scrive Enzo Nocera in un mani- festo apparso intorno al 1956 e ripubblicato integralmente nel volume di Cirino del malgusto del popolo molisano»: il dito è puntato verso quei pittori di finta tradizione che per motivi diversi si ritroveranno tra le fila della Bottega Molisana d'Arte della quale è presidente Vincenzo De Lisio. La "Bottega" rappresenta, forse l'ultima roccaforte della retorica naturalistica ben vista nei salotti, espressione della compiacente e falsa immagine della "terra solare e della felicità rurale", ove la povertà e la miseria sono solo "inchieste parlamentari" ove i racconti di Jovine sono lontani ricordi della coscienza.
Nel 1955 hanno inizio le manifestazioni espositive di Termoli: le prime edizioni vedono, sotto l'egida del "sottobosco", la partecipazione di quegli artisti che frequentano la "Bottega", per poi subire, grazie agli slanci impressi da Achille Pace, una sostanziale svolta, con l'istituzione del Premio Nazionale, registrata nel 1960 e con la decisiva apertura al nuovo vento che si respira nell'arte italiana: la conferma di tale svolta è segnalata dalla presenza a Termoli di critici quali Calvesi, Ponente, Maltese e Vivaldi.


G.Marotta, Itinerario di una cronaca sentimentale, 1960, acrilico e gesso su tela

Va dato atto della capacità che Pace (trasferitosi a Roma nei primi anni Sessanta, nel 1962 è tra i fondatori del Gruppo Uno) ha avuto, se pur cedendo poi a una fin troppo marcata attenzione all'ambiente artistico e critico romano, di aver dato vita ad una delle pagine, ancor oggi, più interessanti dell'arte italiana contemporanea, come testimoniano le opere conservate nella raccolta della Galleria Civica d'Arte Contemporanea, forse l'unica organica raccolta presente nell'area meridionale.



A.Venditti, Grande crostaceo, 1960, cemento e amianto

Il decennio si chiude consegnando una situazione nel pieno di nuovi fermenti e di momenti espositivi: sullo sfondo v'è ancora, però, il compiacente naturalismo che "assedia" le estemporanee organizzate ad Orati- no nel 1958 e del 1959 dal pittore Edmondo Fatica; quelle di Bojano ani- mate da Walter Genua, nonché le annuali mostre "nazionali" di pittura promosse dall'ENAL e dal Comitato dei festeggiamenti Corpus Domini a Campobasso, a partire dal 1958, ed allestite nella Casa della Scuola “E. D'Ovidio". Chiude questo sintetico indice la "Mostra dei Giovani Artisti Molisani" allestita fra il 30 aprile e l'11 maggio del 1959 al Centro Socia- le per i Giovani di Isernia. Quest'ultima negli intenti mira ad aprire un dibattito rivolto alle nuove forze dell'arte che, anche se con le vistose assenze di Marotta, Antonio Fiacco (giovanissimo pittore tra i premiati alla seconda edizione dell'estemporanea ad Oratino) e dell'isernino Domenico Notardonato, anticipa di un anno la polemica, nata sull'onda della miope "inchiesta" sull'arte molisana realizzata dal pittore futurista Giuseppe Folchi ed apparsa sulle pagine regionali del quotidiano "Il Messaggero" con il titolo "L'astrattismo divide i pittori anziani dalle nuove leve in cerca di affermazione", il 15 marzo del 1960. Nella mostra allestita al Centro Sociale di Isernia, espongono tra gli altri, Ottavio Boron, Pettinicchi, Genua, gli isernini Fernando Rea, Fernando Battista, Pietro Di Meo, Tonino, Edilio e Sante Petrocelli, Vittorio Di Clemente, quest'ulti- mo presente con tre opere a sbalzo. Occasione per verificare lo stato delle cose, scorrendo l'elenco delle opere in mostra e leggendone i titoli, è possibile rilevare quanto in realtà fosse ancora lontana l'eco dell'irruente e scompaginante vento dell'Informale che dalla fine degli anni Quaranta e nel corso del decennio successivo aveva travolto la pittura italiana. Una matrice neorealista che «non va oltre le soglie del simbolismo», così scrive Genua nella risposta al citato articolo di Folchi, apparsa sul "Messaggero", il 20 marzo del 1960, è il denominatore comune che prende la gran parte delle nuove leve, ristabilendo nell'area della figurazione, involontariamente, un irrigidimento formale, manipolato alla luce di un affranca- mento a temi sociali. Qualche mese prima, in gennaio, era stata allestita in un salottino del Grand Hotel Del Greco, a Campobasso, una mostra collettiva dei giovani artisti attivi in città: l'animatore è il vecchio pittore Giame, figura carismatica che affascina, per la personalità <<ricca e sconcertante>> - scrive Antonio Cirino - e per la sua vita avventurosa di nomade, i giovani artisti ed intellettuali. La collettiva all'Hotel Del Greco è la risposta ai malumori lasciati dalla citata mostra promossa dall'ENAL nel 1958: per i giovani è l'unica postazione dalla quale muovere una più aspra polemica con quella che aveva la pretesa di proporsi come la "cultura artistica" ufficiale. Al gruppo di artisti che espongono nel salottino dell'Hotel, o meglio Pettinicchi, Remigio Ruggiero, Fiacco, Boron, Lom- bardi e Antonio Mancini, più tardi si affiancheranno Genua, Pizzanelli e Franco Cirino. L'esperienza delle mostre e degli incontri all'Hotel Del Greco durerà poco tempo: nel novembre del 1961 Giame muore lasciando in eredità una nuova realtà, un nuovo desiderio di futuro.