Sulle tracce dei briganti: Itinerario storico, sociale e antropologico
Brigantaggio postunitarioIl governatore di Campobasso all'epoca dell'Unità d'Italia era Nicola de Luca, subito dovette provvedere all'organizzazione territoriale e amministrativa, e soprattutto ad assegnare la scorta ai mercanti di grano, dato che dilagò il brigantaggio. I più famosi nel Molise furono Cicchino e Cimino da Roccamandolfi, Nunzio Di Paola da Macchiagodena, e Luigi Alonsi da Sora detto "Chiavone". I roccamandolfani terrorizzarono l'area meridionale molisana del Matese, facendo scorrerie anche nelle campagna di Bojano.
Nell'agosto 1861 la banda di Roccamandolfi era a San Polo Matese, aveva raccolto vari accoliti e sbandati, come i membri dei Rogati di Oratino vicino a Campobasso, tra cui Giovanni Rigati arciprete. La banda cercò di prendere d'assalto il paese, andando nel palazzo della polizia, disarmando le guardie, radunando la gente in chiesa, cantando inni in lode dell'ex re borbonico Francesco II. All'arrivo della Guardia Nazionale capitanata da Colà, la banda di Roccamandolfi fuggì da San Polo dopo il saccheggio, e terrorizzò le aree di Cantalupo, bruciando i documenti della cancelleria, il 15 agosto 1861 la banda fu a Roccamandolfi, che fu occupata e amministrata in un clima di completa anarchia, sicché il 16 agosto lo stesso Cimino fu ucciso dai suoi accoliti.
Tornati a funestare Bojano, la banda fu raggiunta alla fine dell'agosto dalla compagnia del Capitano La Crou con il distaccamento di truppe di Attanasio De Filippis, costui cercò di spaventare i briganti facendo battere un rullio di tamburi, e la banda si disperse sopra le montagne senza attaccare battaglia. Successivamente il corpo di spedizione decise di proseguire verso Isernia, anch'essa funestata dalle banda. A Roccamandolfi la Guardia Nazionale, che era stata decimata dalla banda di Cimino, si riorganizzò con 20 uomini. Il capobanda Cicchino Domenicangelo fuggì in una grotta lì vicino, ma fu denunciato da un contadino e catturato il 5 settembre.
Brigantaggio in Molise
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Il brigantaggio nel Molise
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
Il brigantaggio è un fenomeno che ebbe inizio a partire dalla fine del XVIII secolo come tentativo di rivolta da parte di piccole minoranze, per poi diventare un vero e proprio fenomeno di massa durante gli anni post-unitari. Dopo il 1861in Italia e in particolare al Sud si aprì quella che è stata denominata la “questione meridionale”, dovuta al forte divario che vi era tra il nord industrializzato e il sud agricolo. Durante i primi anni di governo della Destra Storica, sorse proprio nel Sud Italia il problema della cosiddetta “piemontizzazione” del Regno d’Italia, perché le istituzioni del Meridione vennero omologate a quelle del Nord sebbene avessero un sistema più arretrato. Questo malcontento favorì proprio il fenomeno del brigantaggio: le masse contadine vedevano ancora una volta disattese le loro aspirazioni al possesso delle terre, per cui all’inizio il brigantaggio si presentò in modo positivo come un tentativo di rivolta da parte delle classi contadine. Tuttavia, dall’altro lato della medaglia, il brigantaggio può essere visto anche come prototipo di quella che oggi chiamiamo “criminalità organizzata”. Mentre solitamente i grandi fenomeni non hanno mai raggiunto i meandri delle nostre terre, il brigantaggio ha colpito quasi esclusivamente il Meridione, e dunque anche il Molise. Sono state molte, infatti, le bande che hanno terrorizzato il popolo molisano.
Ancora oggi Roccamandolfi viene ricordato come la patria dei briganti. In verità il paese è stato interessato da diversi fenomeni di brigantaggio, favoriti dalle caratteristiche del territorio che offriva sicuro rifugio e già alla fine del '700, episodi di rivolte sociali videro coinvolti alcuni cittadini di Rocca.
Una delle figure di brigante circondata da un alone di leggenda è quella di Sabatino Lombardi detto il Maligno. Il povero Maligno non nacque brigante, lo divenne per reazione ad una serie di torti subiti. La sua vicenda ha inizio nel 1804 con la fuga dalle carceri di Capua, ove era stato rinchiuso per un crimine non commesso. Unitosi ad altri briganti organizzò numerose scorrerie; la sua ferocia si scaricò soprattutto contro la famiglia Cimino, responsabile delle sue disgrazie. Nonché della morte della madre. Venne ucciso nel 1812 in località "Colle Castrilli" ed il suo cadavere, si narra venne trascinato per le vie dei paese. La testa, staccata dal corpo, fu messa in una gabbia e appesa al campanile ove rimase sino al 1843.
Il brigantaggio, dopo la morte di Cecchino e Cimino, perse motivazioni politiche che lo avevano caratterizzato, degenerando in fenomeno di criminalità comune e marginale, ma non per questo i successori furono meno famosi per le loro scorrerie. La banda, divisa in due, fu guidata dai nuovi capi "Pace" e "Guerra" ed in ultimo Domenico Fuoco, che con pochi compagni visse undici anni nelle campane e si fece temere nel Molise...
E’ stato recentemente inaugurato a Roccamandolfi un museo multimediale di documentazione sul Brigantaggio, che racconta questo frangente del nostro passato, attraverso la proiezione in 3D di un filmato coinvolgente e l’esposizione del costume tradizionale del brigante e della brigantessa.
di Marco Lupisella e Francesco Cristofano
♦ Lo stato e le condizioni del Molise alla fine del 700
♦ Il brigantaggio molisano e sua relazione con quello meridionale
♦ Prime notizie sul brigantaggio nel Molise alla fine del 700
Un tour interessante in Molise, ripercorrendo la storia del brigantaggio.
Nella Terra dei Briganti: il Molise (4 giorni) - Roma - Trekking
http://passeggiateinmontagna.it/event/nella-terra-dei-briganti-il-molise/
Il Brigantaggio nel sud Italia e nel Molise
https://www.santacroceonline.com/2011/news/150unita/index2.htm
Repressione del Brigantaggio in Molise (1868) - Biblioteca ...
https://www.bdmpaterno.eu › archives
Titolo: Istruzione teorica ad uso delle truppe destinate alla repressione del Brigantaggio nelle province di Terra di lavoro (Aquila, Molise e Benevento).
Roccamandolfi, il paese dei briganti - TGR Molise - RaiNews
https://www.rainews.it › tgr › molise › video › 2019/11
Un viaggio nella storia e nelle tradizioni per questa nuova tappa del Tg itinerante. di Chiara Balestrazzi; montaggio Danilo Sergio ...
RaiNews · 30 nov 2019
Bojano - Matese.org
http://www.matese.org › brigandirocca
l “Brigantaggio” nel territorio di Roccamandolfi alla fine del '700 . ... nelle campagne e si fece temere nel Molise , in Terra di Lavoro e nel beneventano ...
Roccamandolfi, la storia del brigantaggio raccontata in 3d
https://www.youtube.com › watch
Roccamandolfi, la storia del brigantaggio raccontata in 3d. ... del Folklore - 03 - Roccamandolfi - Viaggio in Molise - Puntata 4918.
YouTube · Telemolise · 12 ott 2020
Lo stato e le condizioni del Molise alla fine del 700
Stato e condizioni del Molise
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
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La società molisana tra la fine del 1700 e i primi decenni del secolo scorso aveva una struttura quasi simile a quella delle altre regioni del Mezzogiorno d'Italia: la proprietà era nelle mani dei baroni dei comuni e degli enti ecclesiastici, mentre per poco ben poco apparteneva ai contadini (una ricchezza terriera molto frazionata e non certo la migliore.)
Inoltre era sempre viva la lotta dei Baroni contro i maggiorenti dei Comuni per prendere abusivo possesso dei demani comunali e trasformarli in beni burgensatici o privati.
Di qui l'interesse a occupare le cariche di amministratori comunali, cioè i punti nevralgici di una società che andava trasformandosi per effetto di situazioni nuove che si verificavano altrove, ma che avevano riflessi non sempre trascurabili anche nel Molise.
Avevano così inizio interminabili liti tra Comune e usurpatori, portate davanti ai tribunali regi con una serie di cavilli, che alimentavano a caro prezzo le entrate degli avvocati, senza far concludere mai in breve tempo le varie controversie.
Era anche questo motivo di disordine, di rancori madre repressi, di risentimenti di carattere personale, che agivano nei rapporti sociali, togliendo ancor più credito a quello già scaduto della giustizia.
Se oggi il Molise è ancora una regione prevalentemente agricola, figuriamoci quale doveva essere la sua economia due secoli addietro: prevaleva la coltivazione dei cereali in pochissime zone si coltivavano l'olivo, la vite e gli alberi da frutta; discreto era l'allevamento degli ovini, in massima parte però portati a Napoli per nutrire la corte regia, la nobiltà e la ricca borghesia.
I coloni coltivavano gli immensi possedimenti dei baroni e del clero, pagando esosi canoni in natura, fissi oppure il rapporto ai raccolti, trasmigrando frequentemente da un comune all'altro in cerca di terreni meno sfruttati o di padroni più comprensivi.
La loro miseria era in parte attenuata da quando essi ricavavano dai terreni soggetti agli usi civici.
Accanto ai contadini poverissimi, costretti a lavorare saltuariamente la terra degli altri, vi erano pure altri gruppi, poco numerosi in verità, di contadini relativamente benestanti, che abitavano in paese e cominciavano a costituire il primo nucleo di una borghesia terriera.
Possedevano infatti dei piccoli appezzamenti ben coltivati ed anche abbastanza fertili, sui quali lavoravano con le loro famiglie e nei periodi di semina e di raccolto si facevano aiutare, pagandoli miseramente, dai braccianti.
Vi erano piccoli commercianti o usurai che avevano investito nella terra il loro denaro; vi erano gli addetti all'amministrazione o alla guardia dei terreni dei Baroni; vi erano i pastori, divenuti proprietari di grosse greggi, i quali assumevano altri pastori per condurre le pecore al pascolo del tavoliere pugliese.
Appartenevano dunque a queste categorie gli amministratori dei Comuni. E mentre essi lottavano contro i baroni per liberarsi degli oneri feudali, nello stesso tempo cercavano di estendere la loro proprietà, usurpando i beni dei demani comunali e mettendosi così contro i contadini poverissimi, privati in questo modo degli usi civici dei demani stessi.
Quindi non sembri il nemico da abbattere era il barone, spesso si trovarono assieme i baroni e i borghesi contro i coloni, i piccoli proprietari contro i braccianti che rivendicavano gli usi civici, la borghesia terriera contro la proprietà ecclesiastica.
Inoltre l'assoluta mancanza di strade e i pedaggi rendevano quasi impossibile commercio interno, mentre l'industria era immobilizzata a livello artigianale e più ancora casalingo.
Alla fine del '700 Giuseppe Maria Galanti Galanti scriveva: "Il contado di Molise e intanto per i nostri tempi una delle province le più fertili del Regno e la piu importante ai bisogni della capitale".
Certo se si considera lo stato in cui vivevano, per esempio, nel feudo di San Gennaro di Palma, a poche miglia da Napoli, quegli abitanti: dimoravano nelle case solo i ministri del barone, il resto, 200.000 persone "stavano sotto le radici e pagliai o nelle grotte come bestie".
Tanta miseria c'era pure nel Molise, ma non paragonabili in verità a quella che imperava altrove, se dobbiamo credere (e non c'è motivo per dubitarne) a quanto scrive lo stesso Galanti: "fino al 1770 questa provincia è stata ripiena di ladri di mendicanti e oziosi, oggi non vi sono poveri e in piccolissimo numero: tutti lavorano i propri campi, se non i propri poderi e ai proprietari oziosi mancano sempre più gli operai mercenari".
Tuttavia c'erano ugualmente delle situazioni intollerabili, anche perché la legislazione di allora differiva da paese a paese, in quanto era rimasta in piedi un'accoglienza di norme di origine romana, longobarda, normanna, angioina, sveva, aragonese, spagnola, canonica, tedesca, oltre alle consuetudini locali.
Non dobbiamo infatti dimenticare che i feudi cambiano continuamente padroni i quali adattavano ad essi il retaggio delle diverse leggi a loro trasmesse dagli avi.
E quello che portava il maggior peso era sempre il contadino il quale oltre alle decime feudali doveva pagare le decime creasti che doveva alimentare i monaci mendicanti il medico e i governatori
La sua era una continua lotta per l'esistenza: si toglieva perfino il pane di bocca per far fronte agli oneri fiscali a cui era sottoposto
Si pensi che l'origine della focaccia è in un certo senso collegata a una curiosa circostanza.
Il contadino al mulino doveva pagare la tassa per sfarinare e poi un'altra tassa per cuocere il pane al forno feudale.
Per evitare i due balzelli preferiva allora cuocere le focacce in casa, sotto la cenere, perché era l'unica concessione che faceva il feudatario.
E se poi per avventura decideva di andare da Campobasso a vendere il grano a Napoli (cosa che accadeva sovente data la buona produzione che c'era nel Molise) facendo la strada per Morcone, nello spazio di 50 miglia, doveva pagare otto pedaggi, senza alcuna speranza di poter passare inosservato per qualcuno di essi, perché gli esattori o gli appaltatori avevano stabilito dei controlli rigorosissimi, ai quali difficilmente si sfuggiva.
E' vero che tutti questi fatti oggi suscitano i noi meraviglia e quasi incredulità ,ma dobbiamo considerare che allora la popolazione li accettava senza ribellarsi, ritenendo, nella sua grande ignoranza, che quella fosse "una legge" che non si doveva neppure mettere in discussione. Il pedaggio, per esempio, si giustificava, perché il senso del possesso era così radicato nella mentalità del più sprovveduto che il mio e il tuo erano canoni intoccabili.
Quando perciò negli ambiti colti si cominciò a discutere circa la soppressione della giurisdizione feudale, che era così strettamente legata al possesso della proprietà terriera, si concepì tra l'altro nella restituzione allo stato e quindi al sovrano delle terre usurpate o di cui non potevasi provare il illegittimo possesso, per poi usarle e distribuirle a quei contadini che non possedevano nulla.
In questo caso il mio e il tuo non subivano alterazioni del significato, in quanto il re, supremo regolatore padrone, aveva fatto applicare il principio sacrosanto della giustizia.
Indubbiamente con l'avvento del Regno di Carlo III nell'anno 1734 la situazione nel Molise migliorò, perché il re permise la formazione di una nuova struttura dello Stato, non più in funzione della Spagna, ma assolutamente autonoma.
Il re rivendicò così il diretto dominio di tutto il paese, facendo comprendere ai baroni come essi avessero dei privilegi solo temporaneamente delegati da lui, unica, somma autorità riconosciuta. Perciò questo atteggiamento del re valse a suscitargli le simpatie del popolo, che veniva finalmente limitata, se non proprio fiaccata la potenza dei baroni, un tempo sempre alle costole dei poveri abitanti della giurisdizione feudale.
E' vero che l'attività dello Stato continuò ad essere essenzialmente fiscale, ma pagavano tutti e in primo luogo i baroni anche se il modo di imporre i tributi era discutibile, mentre continuavano a sopravvivere forme patenti di ingiustizie e di privilegi.
Non fu certo facile e non si risolve in breve tempo la lotta sorda della monarchia contro i baroni, le rendite ecclesiastiche e la manomorta, tuttavia alla fine del 1700 la situazione era notevolmente migliorata per le classi povere che rispetto a cinquant'anni prima.
Quando cioè i baroni erano di fatto padroni dei demani, delle gabelle e delle rendite più sicure dei comuni, ottenuti per privilegi, intrallazzi, appalti camuffati e soprattutto con la prepotenza.
Nella gestione dei Comuni essi riuscivano a controllare tutto per mezzo di amministratori senza scrupoli, legati ai baroni da una fitta rete di interessi pronti, ad assumere qualsiasi ruolo pur di realizzare quanto il barone desiderava.
In verità il governo favoriva le liti che i Comuni talvolta intentavano ai baroni per frenarne gli abusi e rivendicare i diritti usurpati, ma gli inconvenienti erano tanti e tali da scoraggiare le iniziative, per cui anche le cause iniziate non vedevano mai la conclusione.
Diceva in proposito il Ministro Zurlo: "le cause tra baroni e università (comuni) si discutevano nel Sacro Regio Consiglio, ma il comune non poteva iniziare il procedimento senza la preventiva autorizzazione della Camera della Sommaria. Conviene dunque fare una lite preliminare in Camera, ove il barone saprà comparire dei particolari cittadini ad opporre delle eccezioni, a ritardare e a far spendere la maggior parte del denaro, che dovrebbe erogarsi nella lite principale.Nel caso che si ottenesse l'autorizzazione, il barone sotto coverta dei medesimi particolari cittadini (perché non è possibile che non abbia degli aderenti) cercava di colpire in ogni modo gli amministratori che avevano osato levarglisi contro. Tutto questo prolunga le liti a molti anni, e frattanto il cambiamento dei sindaci, portando il cambiamento delle idee, l'affare resta senza decisione."
Gli avvocati erano però i veri protagonisti e il loro spirito cavilloso dei "paglietta" fu efficacemente descritto dal Galanti alla fine del 1700: "tutte le classi dello Stato si armarono per litigare e tutti i talenti si svilupparono nei mezzi per eternare le decisioni e rendere inefficace la forza delle leggi. La proprietà delle nostre terre fu sviluppata in un numero senza fine di vincoli, dicensi,di doti, di servitù, di ipoteche. Così la giurisprudenza del foro divenne simile alla scolastica e gli avvocati divennero tanto sofisti, il cui mestiere non sembrò essere che di opporre al diritto ciò che le particolari passioni volevano."
Altro nemico della monarchia borbonica era il clero, che verso la metà del '700 era costituito di circa 75.000 persone godenti di privilegi fiscali e giudiziari, fornite di rendite notevoli, di cui buona parte finiva fuori dello Stato perché la Curia Romana usava investire di benefici ecclesiastici napoletani prelati stranieri o residenti fuori del Regno di Napoli.
L'influenza ecclesiastica fu limitata nel campo politico ed economico anche all'epoca del viceregno austriaco (1707-1734) ed ancora più sotto il Regno di Carlo III (1734-1759).
Infatti fu proprio intorno al 1740 che si giunse finalmente all'eliminazione dell'immunità fiscale dei beni cecclesiastici, che da allora furono sottoposti a tributi, fu ristretta la giurisdizione del foro ecclesiastico è limitato il diritto di asilo, fu abolita l'inquisizione, furono soppressi alcuni monasteri, furono espulsi gesuiti e confiscati i loro beni.
Non furono certamente riforme da poco se si considera che tutto questo alleggeriva di conseguenza i pesi che gravavano sulle spalle dei contribuenti. Tuttavia non trasse benefici concreti il Molise costituito in massima parte di comuni poveri, i quali mancando di entrate proprio per affitto di terreni o di altri cespiti dovevano far fronte agli oneri imposti dal re con le sole forze dei contribuenti (per lo più gente poverissima.)
Infatti alla fine del 1700 Biase Zurlo, prima di diventare intendente del Molise, visitò la Regione e nella sua relazione al re mise in evidenza che a Campobasso, dove si viveva "a gabella", la famiglia numerosa di un povero operaio pagava fino a 24 Ducati all'anno sul dazio della farina, la cui tassa era la principale rendita della città, mentre quelle che possedevano terreni, da cui ricavavano grano, non pagavano assolutamente nulla.
Se poi si considera che l'amministrazione dei Comuni era diventato un vero e proprio monopolio di poche famiglie, protagoniste di malversazioni, di usurpazioni di beni comunitari a vantaggio degli appartenenti al proprio ceto (che indebitavano i Comuni fino all'inverosimile, ben sapendo che la Camera della Sommaria era nell'impossibilità di controllare), ci si può rendere conto delle condizioni materiali e morali delle popolazioni nella grande maggioranza.
Perciò la lotta contro l'antico ordinamento amministrativo fu assai aspra, accompagnandosi con quella per l'individualismo agrario, che si articolava intorno al problema dei demani comunali e degli usi civici.
In questa società in trasformazione, in cui la classe di piccoli proprietari terrieri aveva varia provenienza e cercava con ogni mezzo di aumentare la sua ricchezza, il senso dello Stato era completamente assente e la figura del re manteneva ancora il ruolo del mito, per cui la lotta delle diverse classi era legata. quasi esclusivamente, al processo di privatizzazione della terra e quindi contro i Baroni, gli enti ecclesiastici e la ricca borghesia, ormai introdotta con buoni addentellati nell'economia delle campagne.
Certamente alla fine del '700 il baronaggio aveva subito una radicale trasformazione ed era sceso a patto con le altre classi sociali, compresa quella dei braccianti, per cui possiamo veramente dire che erano lontani i tempi in cui era "in balia del barone impoverire e rovinare un vassallo; tenendolo in carcere o non permettendo al governatore o al giudice del borgo di sbrigare la causa." Scriveva Paolo Mattia Doria "col diritto di grazia fa ammazzare chi vuole e grazia all'omicida con la transazione della pena riempie di birbi e di assassini la terra."
Abusa del suo potere contro gli averi, come contro l'onore dei vassalli, Al suo capriccio deve sottostare il commercio come il matrimonio. Provare il delitto di un barone è impossibile. E lo stesso governo, or vigoroso e talor violento col barone debole, non ha che indulgenza per barone potente. Da detti abusi si vede che alcuni baroni sono come sovrani nelle loro terre"
Effettivamente l'esercizio della giurisdizione assicura vantaggi incalcolabili, non per proventi tratti dai feudatari dall'amministrazione della giustizia (erano per la verità quasi irrilevanti, considerate le spese da sostenere), ma per il potere che assicurava loro e per la posizione di privilegio, di arbitrio e se vogliamo di monopolio nella gestione delle attività economiche del feudo.
E i veri protagonisti di questa lenta trasformazione della società furono certamente gli affittuari, gli usurai, gli allevatori, gli amministratori dei feudi, i governatori delle terre baronali, i sindaci dei Comuni i medi e i piccoli commercianti, tutti interessati a rodere alla base del sistema per mettere insieme un bel patrimonio, togliendo un pezzo al feudatario, una piccola parte al demanio comunale e una particella ai beni della Chiesa.
Gli esclusi furono ancora una volta i nullatenenti, i braccianti ,i poverissimi insomma, quelli che in una parola costituivano la massa priva ancora della coscienza della sua forza reale e incapace di valutare i fasti e nefasti della rivoluzione francese.
D'altra parte ben pochi conoscevano nel Molise, allora, il pensiero del portavoce della lotta contro la feudalità e quindi contro i baroni cioè il Filangieri che a chiare note scrivev: " togliete prima d'ogni altro le primogeniture, togliete i sedecommessi. Sono queste le cause delle ricchezze esorbitanti di pochi e della miseria della maggior parte." A lui si affiancarono con decisioni e autorevolezza il Galanti ed il Delfico, molto sentiti a Corte e pertanto protagonisti anche essi di quel moto di rinnovamento sociale e politico, che con la legge 2 agosto 1806, con la quale si stabiliva la definitiva abolizione della feudalità.
Il primo Il primo articolo della legge infatti proclamava a tutte lettere : "a feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili."
I baroni perciò privati della giurisdizione, dei diritti proibitivi e di alcune prerogative fiscali, mantennero la libera proprietà di quei terreni del feudo goduti senza contestazione; perdettero una buona parte del demanio del feudo assegnata ai Comuni, perché forse quotizzata ai cittadini più poveri in compenso degli usi civici perduti.
I baroni, se però si erano rassegnati alla perdita della giurisdizione, di cui erano stati, un tempo, "più gelosi dell'onore delle mogli" molto si agitarono quando furono colpiti nelle terre e nei redditi, e cercando in ogni modo di far cadere in disgrazia Giuseppe Zurlo, stimato da Gioacchino Murat, che lo nominò primo ministro della Giustizia e quindi dell'Interno.
Fu il ministro Zurlo infatti il vero animatore di tutte le operazioni diversive della feudalità, aiutato in quest'opera immane dal Procuratore Generale presso la Commissione feudale, Davide Winspeare.
Per rendere esecutivi decreti egli dovette lottare non soltanto contro i baroni, ma anche contro taluni ministri ed altri personaggi interessati a mantenere lo status quo. Riuscì però nel suo grande intento di distruggere il baronaggio, anche se gli eredi di esso, i galantuomini (la grande borghesia agraria che si andava formando) assieme alle terre erano destinati ad ereditarne una parte dello spirito feudale. Ma non fu colpa di Zurlo, perché ormai la borghesia meridionale era già sufficientemente forte per ereditare astutamente, e perciò senza lotte drammatiche, le ricchezze di una classe, che dopo molti secoli scompariva precipitosamente dalla storia.
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Il brigantaggio molisano e sua relazione con quello meridionale
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
Il brigantaggio molisano e sua relazione con quello meridionale
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A questo punto conviene porsi una domanda come mai proprio in coincidenza di una grande riforma come può essere definita all'eversione della feudalità nel Molise che pure fu fortemente interessato all'avvenimento si sviluppò il brigantaggio in maniera notevole virulenta perché mai per oltre 10 anni fu possibile vivere alla macchia e briganti furco Fulvio qui Paolo Vasile ed altri.
Indubbiamente una prima causa è rappresentata dalla controffensiva dei galantuomini contro gli archivisti del 1799 che, come Fulvio Quici erano stati messi nella condizione di doversi buttare allo sbaraglio per sfuggire alla persecuzione di quelli.
Questo però non significa che non ci fossero altre ragioni per esempio i galantuomini erano coloro che nella spartizione dei demani avevano ottenuto quasi in esclusiva le terre vendute essi infatti erano i soli che possedendo denaro liquido avevano potuto acquistare altre terre fornite di scorte vive scorte morte sottraendo così ai contadini poveri anche l'unico privilegio degli usi civili.
Per i contadini era senza dubbio giacobino quello che teneva pane e vino, perciò contro i galantuomini si fece più feroce l'odio, accresciuto ancora dalle prime operazioni di divisione dei demani, le quali ad essi, già poverissimi non andarono neppure le briciole.
Si spiega perciò anche la simpatia del popolo verso il re Ferdinando IV, continuatore della politica di Carlo III a favore delle rivendicazioni delle masse contadine, e dal rinnovamento portato dall'esercito francese non avevano tratto alcun beneficio, anzi molti casi la loro situazione era peggiorata: non avevano avuto la terra, avevano perduto buona parte degli usi civici, continuavano a pagare le tasse per mantenere le truppe in misura maggiore rispetto a quelle che pagavano in precedenza.
Infatti le insurrezioni armate nel Comune di Roccamandolfi nell'anno 1807 al grido di viva Ferdinando IV , ebbero come protagonisti molti contadini (Angelo D'Andrea, Giovanni Castrillo, Geremia Martelli, Giuseppe Cianella, così pure Riccia, l'anno precedente, quando una cinquantina di fuorilegge, tra i quali Lorenzo Santopuoli, Francesco Morrone e Vitale Mastroianni tentarono di restaurare l'antico governo borbonico.
Anche il Comune di Campochiaro venne preso di mira dei briganti nell'anno 1810. Furono assalite le case dei ricchi e spogliati di tutto. Alcune furono perfino incendiate, senza che gli assalitori fossero in qualche modo contrastati dagli abitanti.
Tutta la zona del Matese fu dominio quasi assoluto dei briganti, favoriti dalla perfetta conoscenza della zona, dalla presenza di grotte di crepacci, dalla folta distesa dei boschi, che per coloro che si mettevano alle loro costole diventavano nelle diverse occasioni, un vero e proprio labirinto, donde solo i briganti riuscivano a districarsi a loro piacimento.
Dobbiamo ammettere che paurosi misteri e straordinare leggende circondano i briganti dell'Italia meridionale da Taccone a Quagliarella in Basilicata, a Parafante, Francatrippa, Benincasa, Boia, Mazziotti e Bizzarro in Calabria, Antonelli in Abruzzo a Fulvio Quici in Molise; per cui non sempre il giudizio che si ha su essi è sereno e obiettivo e lo storico stesso si lascia quasi inconsciamente suggestionare dalla fantasia che la tradizione popolare ha alimentato nel corso degli anni. Anche di recente il famoso brigante Pezza detto Fra Diavolo è stato oggetto di rivalutazione da parte di un suo anonimo omonimo discendente, che ha inteso così, secondo le sue affermazioni, rettificare giudizi errati in passato circa le brigantesche imprese di quel personaggio.
E' mancato poco che non proponesse l'erezione di un monumento con la scultoria scritta che dicesse, magari a colui che difese a viso aperto i diritti e la libertà del popolo, perché talvolta in determinate circostanze, per il passaggio da brigante a patriota, il passo è breve. E' chiaro che in questo caso è soltanto un meschino tentativo per giustificare crimini con il riscatto della liberta della patria non hanno nulla a che fare.
Tuttavia è necessario dire subito che nel Molise, alla fine del 1700 e nei primi 20 anni del secolo scorso, il brigantaggio assunse una fisionomia alquanto diversa da quello della Calabria e della Basilicata, per i motivi che spiegheremo più avanti e che configurano non proprio un brigantaggio sui generis, ma certamente meno sanguinoso e avente caratteristiche spiegabili da un certo punto di vista di valutazione ambientali e sociali.
Certamente, malgrato approfonditi studi, molti misteri permangono, ma le leggende sono quasi scomparse (non così in Calabria la bellissima storia di Angelillo) e si parla genericamente di briganti con gli orecchini e i capelli lunghi, incubo dei tempi trascorsi, ma nulla più.
Il brigante vendicatore, il brigante benefattore e talvolta la personificazione della giustizia, furono diversi aspetti che nella fantasia accesa delle popolazioni del meridione d'Italia, assunsero i menzionati personaggi, ed anzi si può affermare che durante tutta la storia del vicereame spagnolo e del Regno dei Borboni, il brigantaggio ne sia stato un capitolo fondamentale e assai interessante, soprattutto per dare una risposta a taluni interrogativi riguardanti la vita sociale e politica delle popolazioni stesse.
Contadini, giunti alla disperazione per fame o perseguitati dalla giustizia del barone, si riunivano in comitive, eleggevano un capo, certamente il più intelligente, il più feroce e si davano alla macchia per rapinare e per uccidere.
Il brigantaggio di solito iniziava per spirito di rivolta, ma in molte circostanze era soltanto l'istinto delinquenziale che spingeva al delitto taluni che camuffavano i loro crimini dietro presunte ingiustizie o torti patiti.
E nel Molise la vera causa fu proprio questa, mentre l'ambiente geografico si prestava egregiamente a favorire gli assalti di sorpresa, le fughe dopo i misfatti e il ricovero tranquillo, al sicuro da ogni attacco delle truppe del Governo e della guardia civica.
La storia dei Borboni, dopo Carlo III, ha una grande relazione con brigantaggio, che assunse addirittura il ruolo di protagonista nell'anno 1799 per aver determinato decisamente la riconquista del Regno a Ferdinando IV, dopo aver sotterrato i fermenti liberali della Repubblica Partenopea, venuta su, purtroppo, con l'aiuto delle armi francesi.
In quell'occasione i Borboni, calpestando qualsiasi legge morale e sfidando il giudizio del mondo civile, si servirono senza scrupoli e senza pudore, dell'opera dei briganti, da essi nominati colonnelli o generali, come premio per i servizi resi alla causa della monarchia.
E quando nel 1806 i Borboni, cedendo agli eserciti francesi, fuggirono in Sicilia in esilio si adoperarono ad aizzare il popolo e a far risorgere il brigantaggio: tornarono allora alla ribalta Fra Diavolo, Pizza, Guariglia e Furia già noti nel 1799. In quello stesso anno Fulvio Quici da Trivento cominciò a far parlare di sé (insieme ad altri briganti, compaesani o di paesi vicini) divenendo per oltre un decennio l'incubo della polizia e dei militari che invano tentarono ogni mezzo per catturarlo.
Però prima di iniziare la cronaca degli avvenimenti che lo ebbero protagonista è opportuno continuare la descrizione dello Stato del Regno e quindi del Molise, che con la Campania, la Calabria, la Basilicata, la Puglia e l'Abruzzo costituiva il Regno di Napoli in una unità politica di ben sei secoli che aveva nel complesso una notevole uniformità di caratteri.
Infatti le differenze regionali non erano sensibili se non in talune ristrette zone costiere della Campania e della costa pugliese, densamente popolate e coltivate intensivamente. Tutto il resto del Regno aveva pochi centri urbani degni di questo nome, mentre l'agricoltura era praticata in modo estensivo e caratterizzata da estese zone boschive o incolte o completamente abbandonate.
Questa diversità tra zone rivierasche e località interne, ancora oggi assai accentuata, era allora assai forte a causa della generale arretratezza economica e sociale di tutto il Regno, quasi assolutamente privo di strade e suddiviso in un numero stragrande di mercati locali.
Napoli, ad esempio, alla fine del 1700 con i suoi 400.000 abitanti era la l'Italia è certamente una delle più grandi d'Europa, ma era soltanto ed essenzialmente una capitale burocratica. La residenza della classe dominante, intorno a cui viveva una massa enorme di popolazione non qualificata economicamente di servitori, di disoccupati e dimenticati.
Il resto del Regno, che complessivamente aveva una popolazione di 5 milioni di abitanti, era costituito da centri abitati di cui nessuno superava i 30.000 abitanti, ma quasi tutti organi di un corpo senza vita, perché il commercio e l'industria svolgevano una funzione assai ridotta e in un ambito molto ristretto che non facilitava nè scambio di prodotti né contatti umani.
E' questo è un elemento importante per penetrare nella concezione sociale di un isolamento psicologico, in cui vivevano gli abitanti dei paesi molisani, quasi tutti facenti parte di feudi affidati ai fiduciari dei signori che risiedevano a Napoli in confortevoli dimore e assolutamente dimentichi delle loro terre e degli abitanti del feudo, proni a coltivare le zone di lande sconfinate, pronti a tributare l'ossequio e fare atto di sottomissione alla rappresentante del padrone incaricato di riscorrere di riscuotere le rendite.
Infatti quando nel 1734 Carlo IIIdi Borbone divenne re, Il Regno di Napoli aveva ancora una struttura essenzialmente feudale, perché vi erano oltre 10.000 feudatari, tre quarti della popolazione del Regno erano soggetti alla giurisdizione feudale e solo un quarto dipendeva dal re.
E quantunque i Baroni non rappresentassero più una forza politica indipendente, come ai tempi dei re angioini ed aragonesi, perché erano stati fiaccati prima dai vicerè spagnoli e quindi dalla monarchia, tuttavia continuarono a tenere in pugno non soltanto l'economia del Regno, ma anche l'organizzazione strutturale dello Stato per mezzo di rapporti di amicizie e di interessi.
Pertanto fu assai difficile il lavoro di erosione che in particolare dovette compiere la borghesia e la classe degli intellettuali alla base di un sistema politico ed economico diventato intollerabile perfino al re, ormai cosciente di dover eliminare i privilegi della nobiltà e talune inconcepibili ingiustizie.
Si dovette aspettare dominio napoleonico, delegato nelle mani di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat (Febbraio 1810 maggio 1815) per veder crollare certe strutture che le buone intenzioni della monarchia borbonica non avevano neppure scalfito.
E infatti talune fondamentali riforme furono realizzate soltanto nel predetto periodo influenzando così, profondamente, lo sviluppo sociale e politico della popolazione.
Tuttavia, quasi contro ogni logica, proprio in questo scorcio di tempo si sviluppò con vigore il fenomeno del brigantaggio, alimentato ovunque dalla omertà delle popolazioni e dal manutengolismo di molte personalità assai influenti e ritenute perbene.
E' da considerare invero che la che la spietata reazione borbonica contro gli instauratori della Repubblica Partenopea del 1799 aveva particolarmente colpito la borghesia di una parte della nobiltà, mentre i contadini, veri protagonisti del ritorno del re a Napoli, quelli erano rimasti delusi per le promesse fatte e non mantenute dal cardinale Ruffo per il quale il solenne impegno, a nome del sovrano, di estirpare l'ordinamento feudale e risolvere a vantaggio del popolo il problema delle terre demaniali, non era stato mantenuto neppure in minima parte.
Tasse, gabelle, imposte indirette continueranno a gravare sul popolo, ma furono aboliti, ( quasi per dare il fumo negli occhi) i sedili (antiquata amministrazione patrizia della città di Napoli) e i fedecommessi per i fondi urbani.
Dunque il tradimento delle aspettative del popolo avrebbero dovuto rappresentare un elemento di seria ostilità contro i Borboni e invece, sotto i napoleonidi, le masse contadine auspicavano il loro ritorno dando manforte ai briganti e agli amici dell'antica monarchia.
In questo periodo di confusione, tra il dire e il fare e il non fare delle riforme, all'inizio del secolo scorso, anche gli ecclesiastici, già buoni detentori di uin ricco patrimonio, continuamente in concorrenza con la nobiltà e la grossa borghesia, ripreso il sopravvento, estendendo ancora più lla mano morta e ricostituendo il temutissimo ordine dei gesuiti.
Ma nell'anno 1805, l'ambiguità della politica estera napoletana determinò nuovamente la caduta dei Borboni.
Infatti Napoleone non ebbe più incertezze, (allorché in una discutibile politica del doppio gioco, l'ambasciatore dei Borboni a Parigi sottoscriveva un trattato di neutralità con la Francia, mentre il governo di Napoli concludeva alleanze con la Russia e accordi con l'Inghilterra) e inviò un'armata al comando del generale Massena che entrò in Napoli il 14 Febbraio 1806.
Dopo qualche mese Giuseppe Napoleone venne nominato dal fratello re delle due Sicilie.
Ferdinando IV e Maria Carolina si rifugiarono in Sicilia, nella speranza e con l'aiuto degli inglesi di fare insorgere, come nell'anno 1799, le masse contadine, che in verità all'inizio ottengono notevoli successi specie in Calabria, ma in seguito rallentarono lo slancio generale e preferirono assumere un atteggiamento quasi passivo, anche se non favorevole ai francesi.
La guerra fu allora caratterizzata da una serie di colpi di mano, piccoli sbarchi, spionaggi, intese con numerose bande di briganti, focolai di insurrezioni in numerose località del Regno, fu insomma un pericoloso caos di cui approfittarono delinquenti desiderosi di far fortuna e di sfogare i loro istinti e i poverissimi, spinti dalla fame e dalle ingiustizie, a mettersi contro la società magari facendosi passare per patrioti.
Infatti i disordini del 1799 avevano acceso gli spiriti per cui, come in una corsa alla fortuna, i briganti seguiti da torme fameliche, entravano nei paesi, depredavano, spargevano il terrore, violentavano e si autodefinivano difensori del sovrano legittimo.
Gli atti da essi commessi furono di inaudita ferocia: Bizzarro non meno feroce di Mammone, dava ai suoi cani dava in pasto ufficiali francesi trucidati Barbaramente.
Ovviamente le popolazioni prive di qualsiasi difesa da parte degli organi di governo, terrorizzate dalla fama dei briganti non osavano minimamente collaborare con l'autorità costituita per distruggere le comitive dei banditi. Anche perché il manutengolismo era annidato dappertutto e bastava il minimo sospetto di un'azione di spionaggio a danno dei briganti per far giungere agli interessati le indicazioni del presunto traditore. E in questo caso la vendetta colpiva inesorabilie l'indiziato e la sua famiglia.
Spesso gli informatori erano anche i protettori e i difensori, tali, talvolta per timididità, talvolta per avidità, e spesso il manutengolo arricchiva e il brigante finiva sulla forca.
Le chiese e i monasteri molte volte ospitavano i briganti e i monaci di Venafro di giorno pregavano e di notte si travestivano per assalire viandanti e derubarli.
In Calabria le truppe francesi a un certo momento furono ridotte all'impotenza, perciò il re Gioacchino Murat nel settembre 1810 inviò il generale Manhés con poteri di dittatore per fiaccare qualsiasi tentativo della popolazione di dare manforte alle bande di fuorilegge.
Il generale fu all'altezza della situazione e adottò metodi riprovevoli sotto molto aspetti, ma gli unici a consentire di ottenere risultati positivi.
Egli fu perciò spietato fino al punto da mettere in pratica barbare forme di intimidazione delle popolazioni, che in molti casi si erano chiusi in una pericolosa barriera di omertà e connivenza.
E ci riuscì completamente, perché distrusse fino alle radici il brigantaggio in Calabria e il suo nome divenne sinonimo di terrore.
Perché non fu inviato dunque anche nel Molise?
Evidentemente perché il brigantaggio nella regione molisana aveva più la caratteristica di un malandrinaggio vero e proprio, con rare manifestazioni sanguinarie, che potevano avere anche un movente, certamente non giustificabile, ma conseguenza di una logica, sotto alcuni aspetti accettabile: la vendetta per una delazione, per un torto ingiustamente patito, per una vergognosa prepotenza subita. Non mai il delitto per il delitto.
Questo dimostra anche che, il brigante molisano non aveva completamente perduto il senso morale e riusciva, in circostanze a lui sfavorevoli (spesso si trattava di vita o di morte) a mantenere un certo dominio di sé.
Prime notizie sul brigantaggio nel Molise alla fine del 700
(Da appunti scritti da Mario Gramegna)
(Per leggerlo in inglese cliccare sull'icona a fianco)
Secondo la documentazione storica i primi episodi di brigantaggio organizzato e sotto la guida di un capo riconosciuto, sono anteriori di poco agli anni della rivoluzione francese. Ma i crimini commessi erano di solito limitati a furti di bestiame e di prodotti agricoli nè risulta che vi siano stati massacri o uccisioni-
Intorno al 1792 già operava però nella zona di Trivento un certo capitano Landi, i cui luogotenenti erano gli stessi quattro figli: temerità, cattiveria e disprezzo della legge caratterizzavano le loro azioni.
A danno dei cittadini abbienti o miseri essi commettevano ogni sorta di sopruso, esercitando la violenza senza alcun limite fino a toccare nell'onore molte famiglie incapaci poi di difendersi per timore dello scandalo in un paese in cui quello valeva più di qualsiasi ricchezza.
Il commercio del traffico erano addirittura impediti, la pace pubblica e privata non più sicure, il clero era frastornato dai divini uffici, la devozione perduta per "li continui disturbi" causati da taluni sacerdoti compromessi nei misfatti dei briganti che se ha spesso è assai spesso conniventi.
Secondo la testimonianza del canonico Gesualdo Marchetti una sera di Marzo del 1789 si presentarono a casa del Primicerio don Antonio Lalli e il canonico don Nazario Vasile e il nipote di questi Arcangelo Quici (armato di tutto punto) ricercato dai gendarmi. Costui dormì in casa del sacerdote ed il giorno successivo si rifugiò in quella di Michelangelo Scarano, ove fu arrestato 10 giorni dopo.
Ma il fatto più importante è questo: morto il Vescovo Paglioni, il predetto don Antonio Lalli pretese di essere nominato Vicario Capitolare, sostenuto pubblicamente da Saverio e Samuele Quici, fratelli del brigante Arcangelo, e dal famigerato Paolantonio Vasile, ricercato per omicidio. Quest'ultimo, coram populo, andava dicendo che se quello non fosse stato eletto "avrebbe fatto scorrere il sangue".
Infatti il Lalli fu nominato Vicario Capitolare e il suo ingresso in Trivento fu preceduto dai fratelli Quici, da Giuseppe e Vincenzo Scarano, ladri abituali, dai nipoti del canonico Vasile Giacinto e Candidoro Mastroiacovo, anch'essi poco di buono, i quali tutti espresso allegrezza con spari di pistoloni.
Insediatosi nel Palazzo Vescovile, il reverendo Lalli riceveva a pranzo e a cena quei manigoldi e, secondo l'opinione pubblica, egli era a parte della refurtiva, in combutta anche con il canonico don Nazario Vasile, zio di Samuele e Arcangelo Quici, nonché con don Vitale Mastroiacovo, notorio favoreggiatore di ladri.
E la colpevolezza del Brasile fu chiara, allorchè, arrestato il nipote Paoloantonio Vasile, la sua casa fu perquisita e furono trovati diversi orologi, di cui il canonico non seppe dire la provenienza.
Tutti i personaggi sopra citati avevano costituito una vera e propria associazione a delinquere, riuscendo con la prepotenza, le minacce e le intimidazioni ad ottenere dal Comune in affitto diversi terreni, il taglio delle erbe e dei boschi demaniali, il cui ricavato, senza alcun rispetto degli impegni pattuiti, vendevano ai forestieri come se fosse roba propria, suscitando lo scandalo e l'intima indignazione della popolazione, che non aveva il coraggio di far sentire la sua voce di protesta, perché i responsabili dei soprusi erano protetti dall'esattore don Donato Berardinelli e da don Vitale Mastroiacovo che allora regolavano il corso della giustizia.Ma la corruzione era tale che due inquirenti sui crimini, che erano stati commessi da coloro che per prove inconfutabili e per chiara fama erano indicati come autori, furono ospitati da un certo don Anselmo Mastroiacovo, il quale, complice dei briganti, riuscì a far cambiare, come si suol dire, le carte in tavola, evitando che gli indiziati potessero essere condannati senza prove.
Non solo, ma i manigoldi ebbero anche indicazioni su quelli che avevano avuto, una volta tanto, il coraggio di testimoniare contro di loro perseguitandoli dopo che furono rimessi in libertà.
Molti altri giovinastri, deridendo ormai la legge è convinti della sicura impunità, si aggregarono alla comitiva, contribuendo così ad aumentare il numero dei furti e gli atti di prepotenza in Trivento e nelle località vicine ed anche nella provincia di Chieti.
Si servivano di molti travestimenti, talvolta usavano le maschere oppure i baffi e mustacci posticci.
E' il caso di ricordare qui che intorno all'anno 1784 un sacerdote romano, che si vuole fosse stato poi ucciso, fu derubato di 900 zecchini veneziani per opera di Samuele ed Arcangelo Quici e i fratelli Scarano (alias Marrano). A questo punto entra nella scena della malavita un'altro importante personaggio, Felici Colaneri, piccolo commerciante triventino, ma assai intraprendente, che allora ebbe l'incarico dai briganti di cambiare in moneta corrente quei zecchini.
Per questo motivo si recò a Napoli e passando per Foggia, comprò per suo conto 30 cavalli. Al ritorno ai ladri disse che non aveva potuto cambiare gli zecchini per timore di essere scoperto e che per la somma in sue mani avrebbe corrisposto un interesse annuo.
Certo è che da allora Nicola neri divennero divennero uno dei commercianti più ricchi del circondario nè fa meraviglia perciò il modo come fosse assassinato alcuni anni dopo dal famoso Fulvio Quici, degno rampollo di Saverio.
Quest'ultimo infatti proprio da quell'epoca cessò di fare il bracciante e si mise a commerciare, disponendo di forti capitali (che evidentemente gli fornivano i fratelli Samuele e Arcangelo) e divenendo proprietario nel giro di qualche anno, di case, di oltre 300 porci, 700 pecore e una ventina di vacche e comprava per rivenderli oltre 800 tomoli di grano all'anno.
I Quici, quando venivano incarcerati trovavano sempre il modo e mezzi per riconquistare la libertà, corrompendo i giudici incaricati di raccogliere le prove della loro colpevolezza oppure facendo minacciare i testimoni per mezzo dei complici che essi avevano ovunque.
In questo ambiente, dunque, di ladri e di assassini crebbe il giovane Fulvio, partecipando, ancora fanciullo, ai misfatti della banda degli zii, e acquistando esperienza per diventare presto un capo furbo e audace, assolutamente privo di scrupoli e disposto al delitto pur di raggiungere i suoi scopi.
Quando nel 1792 fu derubato il procaccia di Campobasso si accertò che gli autori erano stati i fratelli Quici col nipote Fulvio ed altri triventini, Giovanni della Vecchia di Spinete ed altri ladri di Campobasso con a capo
il non meno noto Francesco Diodati detto Capodicannarone.
Messi in carcere, ognuno cerco di scagionarsi e Fulvio Quici trovò due sacerdoti di Trivento che lo qualificarono uomo dabbene.
Anche questo episodio dimostra fino a quel punto fosse arrivata la corruzione, che non aveva risparmiato neppure il clero, anzi sembrerebbe che trovi nel suo seno si fosse annidato la radice del male.
Si infatti i briganti non avessero trovato protezione e collaboratori in alcuni elementi (ed erano diversi da altolocati) degeneri del clero, con molta probabilità tanti delitti non sarebbero rimasti impuniti ed altri non sarebbero mai accaduti.
Quasi nulla si conosce del periodo che seguì alla scarcerazione di Fulvio Quici e degli altri banditi.
Venuti i francesi nel Regno di Napoli e rifugiatosi re Ferdinando in Sicilia la situazione si tranquillizzò per poco e le persone facinorose, per sfuggire all'arresto e alla fucilazione, abbandonarono i paesi e cercarono sicurezza nei boschi.
Ma caduta la Repubblica Napoletana, i paesi furono travolti dall'anarchia e a Trivento e altrove accaddero delitti di ogni specie.
Il Seminario di Trivento venne spogliato di tutto e subì tali danni e dovette rimanere chiuso per diversi anni.
Allora i partigiani dei Borboni ripresero coraggio, mentre tornarono a spadroneggiare quelli che durante l'anarchia avevano fatto man bassa di tutto, aggiudicandosi con la prepotenza gli appalti di tutte le rendite del Comune e diventando, in molti casi, ricchissimi.