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NEOREALISMO: FENOGLIO, CALVINO



Antologia - TERZO ANNO - 27^ Lezione
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anto 3,27_Title_1.MPG
I grandi della letteratura italiana: Italo Calvino
NEOREALISMO: FENOGLIO, CALVINO
 Ventisettesima lezione, con Mariateresa, che ci aiuterà nella lettura di passi dalle opere di Fenoglio e Calvino. Continuiamo con loro la trattazione del neorealismo, già avviata con Vittorini e Pavese. Gli autori che tratteremo da adesso hanno il tratto comune di essere nati dopo la prima guerra mondiale, Fenoglio nel ’22, Calvino nel ’23, Primo Levi nel ’19. Anche questi hanno trattato il tema della resistenza in diversi modi, ma per ora mettiamo da parte questo argomento e affrontiamo la lettura del racconto “La malora”, di Beppe Fenoglio, che è una storia amara di povertà, ambientata nelle Langhe, con un mezzadro, Tobia, che per diventare proprietario si impegna in maniera dannata, con i figli e con il protagonista, un giovane che è andato a lavorare presso questa famiglia di contadini perché la sua non riesce a mantenerlo. Lèggi, Mariateresa…
 
Quasi tre anni sono restato al Pavaglione, e adesso ci manco da cinque mesi, ma mi sembra ieri sera che ci arrivai la prima volta, e al bordello del cane Tobia mi si fece incontro sull'aia e nel salutarmi mi tastava spalle e braccia per sentire se in quella settimana i miei non m'avevano lasciato deperire apposta.
Di chi proprio non posso lamentarmi è la donna di Tobia. Alla prima vista trovò che avevo l'aria brava e mi prese in stima e a benvolere. Mai una volta che abbia scorciato i capelli ai suoi figli senza farmi poi passar anche me sotto le forbici e la scodella, e tante sere d'inverno, dopo d'aver richiamato alla catena il cane alla larga nel bosco, entrava col lume nella stalla a vedere se ero ben coperto. E m'accudì anche meglio quando seppe che avevo un fratello che studiava da prete. Io che Tobia lo chiamavo per nome, a lei diedi sempre della padrona.

 
E così continua il racconto. Ci presenta questa vita di stenti della famiglia che dovrebbe mantenerlo, nella quale addirittura “strisciano” da un’acciuga un po’ di sapore per la polenta, mangiano nello stesso piatto e stanno attenti a non prendere più cibo degli altri, sentendosi in colpa come Filumena Marturano, che hai interpretato recentemente. Esemplare è questo dialogo fra Tobia, il rozzo padrone di casa, il grande economo, che pensa soltanto ad accumulare, e il figlio, al quale il padre riferisce il suo progetto. Lo riportiamo con lievi modifiche, come in una riduzione scenica. Io sarò Tobia e tu Jano…
 
TOBIA: Siamo a una buona mira (a buon punto), Jano .
JANO: Ma se lo dicevi già quando m'hai messo al mondo!
TOBIA: Ti dico che adesso siamo a una buona mira.
JANO: E per quando sarebbe?
TOBIA: Tu adesso dovresti avere quasi diciannove anni. Be', per quel giorno glorioso non sarai ancora un uomo.
JANO: Ma io sono un uomo già adesso!
TOBIA: (ride) Sì che sei già un uomo. Tu non sei mio figlio, sei il mio avvocato. Senti qui cosa ho io nella mia mente.
(la padrona mette le mani all'inferriata della cucina e grida d'entrare a mangiare)
TOBIA: (urlando) Aspetta, bagascia. Stiamo parlando tra noi uomini ". (a Jano) Ho in mente una dozzina di giornate (un terreno che si lavora in dieci giornate, quindi abbastanza grande), non di più, ma tutte a solatio, da tenere mezze a grano e mezze a viti. Con una riva da legna e un pratolino da metterci due pecore e una mula. Per concimarlo basterà la cenere del forno.
JANO: E dove sarebbe questa terra?
TOBIA: (si alza sui ginocchi per tirare più comodo un peto e poi si riabbassa) Mica qui, mica su questa langa porca che ti piglia la pelle a montarla prima che a lavorarla. Io me la sogno su una di quelle collinette chiare subito sopra Alba, dove la neve ha appena toccato che già se ne va.

 
Alba è la capitale delle Langhe, la regione di cui sono originari sia Fenoglio che Pavese. La storia poi si dipana in questi confini di povertà e di “lavoro da galera”, come dirà più avanti. Ma di Fenoglio ora ricordiamo le opere in cui ha toccato il tema della resistenza, in una maniera sempre matura, come dicevamo nella lezione precedente, rispetto ad autori che si erano limitati ad esaltarla, senza vedere in questo momento della nostra storia comunque una tragedia.
“I ventitré giorni della città di Alba” aveva come primo titolo, infatti, “La guerra civile”. Ma non è riuscito a pubblicarlo così, in quegli anni che seguirono la guerra, per le polemiche che avrebbe suscitato quel titolo. Perché oggi si può cominciare a parlare di guerra civile, sempre considerando, non finiremo mai di ripetere, che i giusti combattevano contro gli ingiusti fascisti e nazisti, ma allora la nostra esperienza non si poteva nominare così, nonostante questa definizione fosse già adottata per la guerra di Spagna. E dovette cambiare il titolo. In realtà l’aveva chiamata guerra civile perché la città di Alba, a distanza appunto di soli ventitré giorni, veniva occupata prima dai partigiani e poi dai fascisti. Strano fenomeno di rapido scambio delle posizioni.
Con la stessa libertà e originalità, Fenoglio affronta questo argomento in un racconto,  “Una questione privata”, in cui descrive una storia d’amore che vive all’interno della resistenza, come a dire che sì si combatte, ma dentro un conflitto ci sono i sentimenti, le questioni di ogni giorno che ne fanno le spese. Infatti qui un partigiano è preso, più che dalla guerra o dalla liberazione, dal problema che ha nei rapporti con una donna.
E infine, ancora più significativo, “Il partigiano Johnny”, una storia pubblicata postuma, completata da altri, perché l’autore ne aveva interrotto la stesura a causa della morte,  parla di un partigiano che assume come nome di battaglia quello di Johnny. E’ scritta in un linguaggio particolare, misto di italiano e di inglese, che Fenoglio conosce bene. Vi voglio raccontare l’ultima parte di un capitolo del libro nel quale si scontrano fascisti e antifascisti. Siamo nella primavera del ’45, quando si è vicini alla conclusione della guerra, e ancora se le danno da orbi. I fascisti stanno soccombendo a questo gruppo guidato da Johnny, quando all’improvviso arrivano dei rinforzi e si rianimano, mentre i partigiani devono retrocedere. A questo punto prendo la mia lettura…
 
Ora la montagnola ridava e ririceveva il fuoco generale. Johnny smise di cercare il fucile di Franco e tornò carponi verso Pierre. Gridava ai fascisti di arrendersi e a Johnny di ritirarsi, mentre inseriva nel Mas l’ultimo caricatore. Ma Johnny non si ritirò, stava tutto stranito, inginocchiato nel fango, rivolto alle case, lo sten spallato, le mani guantate di fango con erba infissa. – Arrendetevi! – urlò Pierre con voce di pianto. – Non li avremo, Johnny, non li avremo -. Anche il bren diede l’ultimo frullo, soltanto il semiautomatico pareva inesauribile, it ranger preciso, meticoloso, letale.
 
Sono tutti termini inglesi che indicano armi e operazioni militari…
 
Pierre si buttò a faccia nel fango e Tarzan lo ricevette in pieno petto, stette fermo per sempre. Johnny si calò tutto giù e sgusciò al suo fucile. Ma in quella scoppiò un fuoco di mortai, lontano e tentativo, solo inteso ad avvertire i fascisti del relief e i partigiani della disfatta. Dalle case i fascisti urlarono in trionfo e vendetta, alla curva ultima del vertice apparve un primo camion, zeppo di fascisti urlanti e gesticolanti.
Pierre bestemmiò per la prima ed ultima volta in vita sua. Si alzò intero e diede il segno della ritirata. Altri camions apparivano in serie dalla curva, ancora qualche colpo sperso di mortaio, i partigiani evacuavano la montagnola lenti e come intontiti, sordi agli urli di Pierre. Dalle case non sparavano più, tanto erano contenti e soddisfatti della liberazione.

 
I fascisti soddisfatti della liberazione dai partigiani! Grande ironia, vista la conclusione…
 
Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico…Due mesi dopo la guerra era finita. 
 
E quest’ultima notizia è quella che suona più amara. Cioè questi, si accaniscono, si azzannano, si ammazzano, quando la guerra sta già finendo: sacrifici assurdi e inutili.
Dell’insensatezza della guerra civile ha parlato anche Italo Calvino. Entreremo nella sua opera proprio dal romanzo che tratta direttamente la resistenza, “Il sentiero dei nidi di ragno”, la storia di una violenza operata su un preadolescente dalla guerra, a prescindere dal fatto che sia guerra di partigiani contro gli ingiusti fascisti e nazisti: è comunque una forma di aggressione nei confronti delle giovanissime generazioni. Calvino vuole dire che i giovani di dieci, dodici anni di quel periodo hanno visto rovinata la loro adolescenza, sono stati costretti a fare qualcosa che era più grande di loro, come vediamo in questo passo, in cui tu sarai il narratore e Pin, e io Cugino. Modifichiamo minimamente il testo nelle parti dialogiche, come se fosse una riduzione teatrale.…
 
Fuori è già notte. Il vicolo è deserto, come quando lui è venuto. Le impannate delle botteghe sono chiuse. A ridosso dei muri hanno costruito antischegge di tavole e sacchi di terra. Pin prende la via del torrente. Gli sembra d'essere tornato alla notte in cui ha rubato la pistola.
 
Con questa pistola rubata voleva imitare i più grandi, che partecipavano alla resistenza…
 
Ora Pin ha la pistola, ma tutto è lo stesso: è solo al mondo, sempre più solo. Come quella notte il cuore di Pin è pieno d'una domanda sola: che farò? Pin cammina piangendo per i beudi (terrazzamenti). Prima piange in silenzio, poi scoppia in singhiozzi. Non c'è nessuno che gli venga incontro, ora. Nessuno? Una grande ombra umana si profila a una svolta del beudo.
PIN- Cugino!
CUGINO- Pin!
Questi sono posti magici, dove ogni volta si compie un incantesimo. E anche la pistola è magica, è come una bacchetta fatata. E anche il Cugino è un grande mago, col mitra e il berrettino di lana, che ora gli mette una mano sui capelli.
CUGINO- Che fai da queste parti, Pin?
PIN- Son venuto a prendere la mia pistola. Guarda. Una pistola marinaia tedesca.
CUGINO- (la guarda da vicino) Bella. Una P. 38. Tienila da conto.
PIN- E tu che fai qui, Cugino?
Il Cugino sospira, con quella sua aria eternamente rincresciuta, come se fosse sempre in castigo.
CUGINO- Vado a fare una visita.
PIN- Questi sono i miei posti, posti fatati. Ci fanno il nido i ragni.
CUGINO- I ragni fanno il nido, Pin?
PIN- Fanno il nido solo in questo posto in tutto il mondo, Io sono l'unico a saperlo. Poi è venuto quel fascista di Pelle e ha distrutto tutto. Vuoi che ti mostri?
CUGINO- Fammi vedere, Pin. Nidi di ragni, senti senti.
Pin lo conduce per mano, quella grande mano, soffice e calda, come pane.
PIN- Ecco, vedi, qui c'erano tutte le porte delle gallerie. Quel fascista bastardo ha rotto tutto. Eccone una ancora intera, vedi?
Il Cugino s'è accoccolato vicino e aguzza gli occhi nell'oscurità.
CUGINO- Guarda guarda. La porticina che s'apre e si chiude. E dentro la galleria. Va profonda?
PIN- Profondissima, Con erba biascicata tutt'intorno. Il ragno sta in fondo.
CUGINO- Accendiamoci un fiammifero.
E tutt'e e due accoccolati vicini, stanno a vedere che effetto fa la luce del fiammifero all'imboccatura della galleria.
PIN- Dai, buttaci dentro il fiammifero, vediamo se esce il ragno.
CUGINO- Perché, povera bestia? Non vedi quanti danni hanno già avuto?
PIN- Di', Cugino, credi che li rifaranno, i nidi?
CUGINO- Se li lasciamo in pace credo di si.
PIN- Ci torniamo a guardare, poi, un'altra volta?
CUGINO- Si, Pin, ci passeremo a dare un'occhiata ogni mese.
È bellissimo aver trovato il Cugino che s'interessa ai nidi di ragno.
CUGINO- Di', Pin.
PIN- Cosa vuoi, Cugino?
CUGINO- Sai, Pin, ho da dirti una cosa. So che tu queste cose le capisci. Vedi: son già mesi e mesi che non vado con una donna... Tu capisci queste cose, Pin. Senti, m'han detto che tua sorella...

 
Perché la sorella di Pin si arrangiava, e tra l’altro si scopre che lo faceva anche con i tedeschi. E addirittura incoraggia l’amico appena incontrato (pensate quanto fosse importante per questi ragazzi appoggiarsi su uno più grande di loro), lo aiuta…
 
A Pin è tornato il sogghigno; è l'amico dei grandi, lui, capisce queste cose, è orgoglioso di fare questi servizi agli amici, quando gli capita.
PIN- Mondoboia, Cugino, caschi bene con mia sorella. T'insegno la strada: lo sai Carrugio Lungo? Beh, la porta dopo il fumista, all'ammezzato. Va' tranquillo che per la strada non incontri nessuno. Con lei, piuttosto sta' attento. Non dirgli chi sei, né che ti mando io. Digli che lavori nella « Todt », che sei qui di passaggio. Ah, Cugino, poi parli tanto male delle donne. Va' là che mia sorella è una brunaccia che a tanti piace.
CUGINO (abbozzando un sorriso con la sua grande faccia sconsolata)- Grazie, Pin. Sei un amico. Vado e torno.
PIN- Mondoboia, Cugino, ci vai con il mitra?
CUGINO (passandosi un dito sui baffi)- Vedi, non mi fido a girare disarmato.
A Pin fa ridere vedere come il Cugino è impacciato, in queste cose.
PIN- Piglia la mia pistola. Te'. E lasciami il mitra che gli faccio la guardia.
Il Cugino posa il mitra, intasca la pistola, si toglie il berrettino di lana e intasca anche quello. Ora cerca di ravviarsi i capelli, con le dita bagnate di saliva.
PIN- Ti fai bello, Cugino, vuoi far colpo. Fai presto se vuoi trovarla in casa.
CUGINO- Arrivederci, Pin (e va)
Pin ora è solo nel buio, alle tane dei ragni, con vicino il mitra posato per terra. Ma non è più disperato. Ha trovato Cugino, e Cugino è il grande amico tanto cercato, quello che s'interessa dei nidi di ragni.

 
Il povero ragazzino, nell’atmosfera della guerra, ha perso l’orientamento ed è pronto a fare di tutto, come sua sorella. Ma con questo romanzo, che sempre ribadisce una visione più matura della resistenza, abbiamo appena introdotto la vicenda di Calvino, nato nel 1923 e morto nel 1985, che facciamo esordire con questa sua riflessione sul neorealismo, presa dalla prefazione al “Sentiero dei nidi di ragno”:
 
L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani - che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, « bruciati », ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità.   (…)L'essere usciti da un'esperienza - guerra, guerra civile - che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca.
Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale. Alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori, s’aggiungevano quelle che c’erano arrivate già come racconti, come una voce, una cadenza, un’espressione mimica.
(…) Cominciava appena allora il tentativo d'una «direzione politica » dell'attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l'« eroe positivo», di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito.
 
Come vedete, anche Calvino tratta il tema dell’eccessiva pressione della politica, come aveva fatto Vittorini protestando contro Togliatti, anche se con una sfumatura diversa…
 
Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell'aria: quando scrissi questo libro l'avevo appena avvertito, e già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l'incombere d'una nuova retorica.
 
Infatti per questo nel “Sentiero dei nidi di ragno” descrive la resistenza in maniera molto autonoma rispetto a quanto avrebbero preteso i politici da lui…
La mia reazione d'allora potrebbe essere enunciata cosi: « Ah, sì, volete "l'eroe socialista"? Volete il "romanticismo rivoluzionario"? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. Il mondo delle "Ungete", vi rappresento, il lunpen-proletariat!
(…)Le letture e l'esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. Che i libri nascano sempre da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l'altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini. Appena finito di fare il partigiano trovammo (prima in pezzi sparsi su riviste, poi tutto intero) un romanzo sulla guerra di Spagna che Hemingway aveva scritto sei o sette anni prima: Per chi suona la campana. Fu il primo libro in cui ci riconoscemmo; fu di li che cominciammo a trasformare in motivi narrativi e frasi quello che avevamo visto sentito e vissuto.
 
E qui viene fuori appunto quell’influenza positiva della letteratura americana, di cui sono stati i promotori Vittorini e Pavese. “Per chi suona la campana”, di Hemingway, è dunque uno dei romanzi su cui si alimenta questa generazione di neorealisti.
Calvino è stato un grande estimatore di Montale, l’auotre di “Forse un mattino andando”, che vede dietro di sé il vuoto. Questa è anche la sensazione di Calvino di fronte a una realtà, così assurda, così inconcludente, così ingiusta, così difficile da ammettere che si dimostra assolutamente inconsistente. Comunque, in uno scritto intitolato “Il midollo del leone” (il cui titolo viene spiegato da questa sua affermazione: in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia), ci dice  questa cosa interessante…
 
Noi crediamo che l’impegno politico, il parteggiare, il compromettersi, sia, ancor più che dovere, necessità naturale dello scrittore d’oggi e prima ancora dello scrittore dell’uomo d’oggi. Non è la nostra un’epoca che si possa comprendere stando ai margini, ma al contrario la si comprende quanto più la si vive, quanto più avanti ci si situa sulla linea del fuoco. Ma non ci riconosciamo certo nel volontarismo espressionistico che inturgida le vene e il linguaggio in una spinta di lirismo irrazionale, quasi di mistica comunione con le forze collettive.
 
Quindi letteratura d’impegno sì, ma non radiocomandata da certe ideologie…
 
Né ci riconosciamo di più negli esperimenti di una letteratura che con troppo ostentata modestia identifichi la sua funzione storica con quella esemplificativa e pedagogica.
 
Cioè, non scriviamo per istruire e dare lezioni. Infatti, se ricordiamo, Montale diceva: “non chiederci la parola”, non devo predicare e dirti la verità, ti dirò soltanto quello che non va nella società, non come deve andare. Poi sei tu, vivendo, a trovare la soluzione…
 
Chi conosce quanto sia delicata e difficile l’attività politica e per questo la ama e si studia di praticarla, chi sa i tesori di ingegno, di finezza, di pazienza, di moralità che occorrono al successo di una lotta del lavoro, resterà sempre insoddisfatto e infastidito dallo scrittore che imita dall’esterno le operazioni del dirigente politico e sindacale, o dal critico che, con maggiore facilità, gli chiede di far ciò, e cioè di passare dall’analisi critica alla denunzia (…) La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve servire a loro, e può servire solo in una cosa, aiutandoli a essere sempre più intelligenti, sensibili e moralmente forti.
 
La letteratura deve creare un metodo di analisi della realtà, non dire cosa bisogna fare…
 
In un articolo di Gramsci abbiamo trovato, citato da Romano Orlando, una massima di sapore storico e giansenista, adottata come parola d’ordine rivoluzionaria: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.
 
Lavorare sulla volontà, istillare nel lettore il bisogno di agire, invece che rimanere inerti…
 
Intelligenza, volontà. Già proporre questi termini vuol dire credere nell’individuo, rifiutare la sua dissoluzione. (…) Lo stampo delle favole più remote. Il bambino abbandonato nel bosco e il cavaliere che deve superare incontri e incantesimi resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane e resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza muovendosi in una natura o in una società spietate.
 
Di qui il gusto di Calvino per le favole, che dimostra nella trilogia “I nostri antenati”, che inizia con “Il visconte dimezzato”, prosegue con “Il barone rampante” e si chiude con “Il cavaliere inesistente”, tre storie dell’assurdo. “Il visconte dimezzato” è un nobile diviso a metà, in cui si sono separate la metà buona e la cattiva: si vuole con questo dimostrare l’essere dimidiato dell’uomo, facendo ironia sulla netta separazione fra ciò che è bene e ciò che è male; comunque si denuncia un’inadeguatezza dell’individuo alla realtà. Quella stessa che viene descritta nel secondo della trilogia, “Il Barone rampante”, che si arrampica su un albero e vi rimane, perché non vuole toccare la terra, per non riprendere contatto con le ingiustizie della società. E infine, “Il cavaliere inesistente”, pur essendo inconsistente, non avendo materia, si sforza di agire come se ne avesse; ed è appunto la dichiarazione di quell’ottimismo della volontà di cui si parlava citando Gramsci: se riesce a vivere un cavaliere che non ha materia, figuriamoci noi.
L’ultima grande metafora che vi voglio illustrare prima delle conclusioni è quella del labirinto. Sul “Menabò” una rivista che cura con Vittorini, dopo la chiusura del “Politecnico”, nel 1962  fa questa riflessione, in linea con il teatro dell’assurdo di Beckett e con altre considerazioni. Dopo aver premesso che la realtà è un labirinto, dice...
 
Resta fuori chi crede di poter vincere labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento migliore per trovare la via d'uscita, anche se questa via d'uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all'altro.
 
Quanto si diceva, che non bisogna dare la soluzione, ma il metodo, in politica, si applica nella letteratura, con l’avvertimento che se uscirà da un labirinto, il lettore, poi entrerà in un altro, perché tutta la realtà è un labirinto. Uscire da un problema, non è uscire dal problema, ma entrare in un altro problema. ..
 
 È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.
 
Ancora pillole. Agli studenti di Pesaro, parlando del “Visconte dimezzato”, Calvino disse:
 
Uno ha comprato un libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così. Anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria.
 
Non possiamo entrare di più nella realtà così complessa, così veramente piena di soluzioni e di sollevazioni di problemi, della narrativa di Calvino e dei suoi interventi saggistici. Trascurando quindi “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Palomar”, le “Lezioni americane”, voglio ricordarvi “La giornata di uno scrutatore”, in cui ricostruisce un’esperienza che lui ha fatto, al Cottolengo, dove da scrutatore ha assistito al tentativo, da parte degli interessati all’esito elettorale, di far votare dei matti, dei poveracci che non sono in grado di intendere e di volere.
Per il suo metodo, invece, ricordo ancora “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. E’ uno strano esperimento in cui si immagina di dare degli elementi al lettore, che poi deve concludere la storia: una sorta di racconto interattivo.…
 
Il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva, uno sfiatare di stantuffo copre l'apertura del capitolo, una nuvola di fumo nasconde parte del primo capoverso. Nell'odore di stazione passa una ventata d'odore di buffet della stazione. C'è qualcuno che sta guardando attraverso i vetri appannati, apre la porta a vetri del bar (…) Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia(…) Io sono l'uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica.
 
Un altro elemento, per chi deve poi incastrare tutto. E più avanti…
 
(…)Sono una persona che non dà affatto nell’occhio, una presenza anonima su uno sfondo ancora più anonimo, se tu lettore non hai potuto fare a meno di distinguermi tra la gente che scendeva dal treno e di continuare a seguirmi nei miei andirivieni tra il bar e il telefono è solo perché io mi chiamo «io» e questa è l’unica cosa che tu sai di me, ma già basta perché tu ti senta spìnto a investire una parte di te stesso in questo io sconosciuto.
 
Concludendo, Calvino è l’autore del tema della perplessità, cioè, lo abbiamo già capito da quanto detto, non ha soluzioni, non ha ricette, tutto è esercitato, è regolato, è consumato dal dubbio. E con questa riflessione vi diamo appuntamento alla prossima lezione. Arrivederci.
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