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NARRATIVA ITALIANA: MORAVIA - SILONE - BRANCATI



Antologia - TERZO ANNO - 21^ Lezione
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Approfondimenti letterari
NARRATORI DEL PRIMO NOVECENTO: MORAVIA, BRANCATI, SILONE
 Ventunesima lezione, dedicata ai narratori degli anni ‘30 e ’40: Moravia, Brancati e Silone. I primi due sono nati nello stesso anno, il 1907, Silone nel 1900. Moravia vivrà più a lungo di Brancati, morto prima di compiere i cinquant’anni.
Alberto Pincherle prese il nome d’arte di Moravia. Di origini ebraiche, divenne famoso a soli 22 anni, nel 1929, con la pubblicazione del romanzo “Gli indifferenti”, il primo e forse il migliore. Sono due miracoli che si verificano nell’esistenza di un autore. E’ stato malato, quando era giovinetto, per dieci anni, di tubercolosi, cosa che quindi ha condizionato moltissimo la prima parte della sua vita.
Con “Gli indifferenti” Moravia ci dà uno spaccato della società in cui si ambienta il fascismo. E’ la storia di due giovani fratelli, Michele e Carla, che sono resi indifferenti ai sentimenti, alle emozioni, dal cinismo che li circonda, dal fatto che la madre, dopo la morte del padre, e forse anche prima, ha una relazione con Leo Merumeci, l’amministratore di questa famiglia benestante, un arrivista ipocrita; in più c’è una zia, Lisa, che pure ha delle mire su Michele, mentre Leo sposta la sua attenzione dalla madre su Carla. In questa situazione i due protagonisti sono vittime sacrificali, anche inette, incapaci di agire. Leggeremo ora un passo in cui io sarò Leo e Mariateresa Carla. Si trovano per un momento da soli nel salotto. Lui è lì per la madre e Carla lo sa benissimo, anche se i due cercano di salvare le apparenze…
 
" Mamma sta vestendosi ", ella disse avvicinandosi " e verrà giù tra poco ".
" L'aspetteremo insieme ", disse l'uomo curvandosi in avanti; " vieni qui Carla, mettiti qui". Ma Carla non accettò questa offerta; in piedi presso il tavolino della lampada, cogli occhi rivolti verso quel cerchio di luce del paralume nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e inconsistenti sparsi nell'ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità, ella provava col dito la testa mobile di una porcellana cinese: un asino molto carico sul quale tra due cesti sedeva una specie di Budda campagnolo, un contadino grasso dal ventre avvolto in un kimono a fiorami; la testa andava in su e in giù, e Carla, dagli occhi bassi, dalle guance illuminate, dalle labbra strette, pareva tutta assorta in questa occupazione.

 
Qui vedete quello di cui si parlava con Montale, il “correlativo oggettivo”. Gli oggetti sono anima del racconto, particolari che Moravia sfrutta. Il fatto stesso che le tue dita, le dita di Carla, si muovono così, su questo oggetto ondeggiante, rivela la natura volubile della tua psicologia, perché sei in una situazione di assoluto stravolgimento e disorientamento. Se cederai a Leo alla fine, non lo farai perché ne sei convinta, ma perché la tua vita è come un’apnea, per cui tanto vale precipitare verso il basso, visto che non la si sopporta. E’ come se fossi disposta ad andare dove il vento ti porta. E questo disgraziato è pronto a cogliere questa occasione…
 
"Resti a cena con noi?" ella domandò alfine senza alzare la testa.
"Sicuro", rispose Leo accendendo una sigaretta; "forse non mi vuoi?". Curvo, seduto sul divano, egli osservava la fanciulla con una attenzione avida; gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo sottile.
"Eh che bella bambina"; egli si ripeté" che bella bambina". La libidine sopita per quel pomeriggio si ridestava, il sangue gli saliva alle guance, dal desiderio avrebbe voluto gridare. gridare.
Ella diede ancora un colpo alla testa dell'asino: "Ti sei accorto quanto fosse nervosa mamma oggi al tè? Tutti ci guardavano".
"Affari suoi" disse Leo; si protese e, senza parer di nulla, sollevò un lembo di quella gonna:
"Sai che hai delle belle gambe, Carla?” disse volgendole una faccia stupida ed eccitata sulla quale non riusciva ad aprirsi un falso sorriso di giovialità; ma Carla , non arrossì ne rispose e con un colpo secco abbatte la veste:
"Mamma è gelosa di te" disse guardandolo; "per questo ci fa a tutti la vita impossibile". Leo fece un gesto che significava: "E che ci posso fare io?"; poi si rovesciò daccapo sul divano e accavalciò le gambe.
"Fai come me" disse freddamente; "appena vedo che il temporale sta per scoppiare, non parlo più... Poi passa e tutto è finito".
"Per te, finito" ella disse a voce bassa e fu come se quelle parole dell'uomo avessero ridestato in lei una rabbia antica e cieca; "per te... ma per noi... per me" proruppe con labbra tremanti e occhi dilatati dall'ira, puntandosi un dito sul petto; "per me che ci vivo insieme non è finito nulla...". Un istante di silenzio. "Se tu sapessi", ella continuò con quella voce bassa a cui il risentimento marcava le parole e prestava un singolare accento come straniero, "quanto tutto questo sia opprimente e miserabile e gretto, e quale vita sia assistere tutti i giorni, tutti i giorni...". Da quell'ombra, laggiù, che riempiva l'altra metà del salotto, l'onda morta del rancore si mosse, scivolò contro il petto di Carla, disparve, nera e senza schiuma; ella restò cogli occhi spalancati, senza respiro, resa muta da questo passaggio di odio.

 
Così  Moravia rappresenta quello che si agita nella tua mente e come passano queste ombre davanti ai tuoi occhi…
 
Si guardarono: "Diavolo" pensava Leo un po' stupito da tanta violenza, "la cosa è seria". Si curvò, tese l'astuccio: "Una sigaretta" propose con simpatia; Carla accettò, accese e tra una nuvola di fumo gli si avvicinò ancora di un passo.
"E così" egli domandò guardandola dal basso in alto "proprio non ne puoi più?". La vide annuire un poco impacciata dal tono confidenziale che assumeva il dialogo. "E allora", soggiunse "sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia".
 

Leo propone un cambiamento, ed è quello l’elemento che convince Carla: comunque è un cambiamento, da una situazione che per lei è insopportabile…
 
"È quello che finirò per fare" ella disse con una certa teatrale decisione (…)
"Cambia", gli ripeté; "vieni a stare con me".
Ella scosse la testa: "Sei pazzo...".
"Ma sì" Leo si protese, l'afferrò per la gonna: "Daremo il benservito a tua madre, la manderemo al diavolo, e tu avrai tutto quel che vorrai,  Carla...": tirava la gonna, l'occhio eccitato gli andava da quella faccia spaventata ed esitante a quel po' di gamba nuda che s'intravedeva là, sopra la calza. "Portarmela a casa"; pensava "possederla...". Il respiro gli mancava: "Tutto quel che vorrai... vestiti, molti vestiti, viaggi...; viaggeremo insieme...; è un vero peccato che una bella bambina come te sia così sacrificata...: vieni a stare con me Carla...".
"Ma tutto questo è impossibile", ella disse tentando inutilmente di liberare la veste da quelle mani; "c'è mamma... è impossibile".
"Le daremo il benservito..." ripeté Leo afferrandola questa volta per la vita; "la manderemo a quel paese, è ora che la finisca...; e tu verrai a stare con me, è vero? Verrai a stare con me che sono il tuo solo vero amico, il solo che ti capisca e sappia quel che vuoi". La strinse più davvicino nonostante i suoi gesti spaventati; "Essere a casa mia"…

 
Già pensa a quando la potrà possedere a casa sua, finché non compare lei, Maria Grazia, la madre e tutto cambia, riprendono le loro posizioni, non le fanno capire niente. Mariateresa, leggi l’ultimo passo, più avanti…
 
Dritta dietro la poltrona della madre, la fanciulla ricevette quell'occhiata inespressiva e pesante come un urto che fece crollare in pezzi il suo stupore di vetro; allora, per la prima volta, si accorse quanto vecchia, abituale e angosciosa fosse la scena che aveva davanti agli occhi: la madre e l'amante seduti in atteggiamento di conversazione l'uno in faccia all'altra; quell'ombra, quella lampada, quelle facce immobili e stupide, e lei stessa affabilmente appoggiata al dorso della poltrona per ascoltare e per parlare. "La vita non cambia", pensò, "non vuoi cambiare". Avrebbe voluto gridare; abbassò le due mani e se le torse, là, contro il ventre, così forte che i polsi le si indolenzirono.
 
La situazione psicologica di Carla, che poi finirà per sposare Leo, l’abbiamo descritta. Quella di Michele la riassumiamo. Intanto cede alle profferte di un’altra donna, anche lei più matura di lui, la zia. Quindi due giovani corrotti da due adulti. Tutti e tre, Maria Grazia, Leo Merumeci e la zia Lisa, sono espressione di un ambiente, di una società corrotta, nella quale ha il suo humus il fascismo. E Moravia, colpendo queste radici ciniche di coloro che vivono intorno a questi ragazzi, denuncia la disgregazione morale e sociale alla base dell’avvento del fascismo. Fatti psicologici che parlano di politica.
Michele diventa un inetto, un incapace di agire, tanto che a un certo punto, quando viene a sapere della relazione tra Leo e Carla, vorrebbe eliminarlo, prende la pistola, che poi è la stessa che il padre ha usato per uccidersi (il tormento dei figli è che sanno che il padre si è ucciso per problemi economici, ma forse anche per i tradimenti della moglie), per andare a uccidere Leo, che meriterebbe la morte anche per il fatto che, e questo è ben raccontato, sfrutta la posizione di amministratore per suoi interessi, convincendoli a vendere la casa perché ha già pronta una lottizzazione dei terreni, per realizzare un profitto mentre riduce sul lastrico i due ragazzi; anche se poi, ripeto, sposerà Carla. Ma, particolare importante, Michele non carica la pistola. E in questo Moravia rappresenta l’inettitudine di chi immagina di agire, ma non agisce. Si fa i film. E’ l’inetto.
MARIATERESA: Sia nella descrizione dell’ambiente circostante, che in questo, Moravia sembra essere molto cinematografico.
I suoi romanzi in genere sono quasi tutto dialogo, con poco connettivo. Quel poco di descrizione che abbiamo letto fa intendere quanto sia asciutto ma nello stesso tempo essenziale il suo modo di rappresentare. Ricordiamo, tra le sue opere, “La noia”, “Agostino”, “Il disprezzo”, i “Racconti romani”, tra cui “La ciociara”, che è diventato un famoso film con Sofia Loren, con premio Oscar. E infine cose un po’ minori, tipo un romanzo “IO E LUI”, che è un assurdo, in cui l’autore parla con il suo organo riproduttore: una cosa indescrivibile. Ha scritto anche per il teatro, “Il dio Kurt” e altro.
Per Moravia può bastare. Passiamo ad un altro romanzo che compare in questi anni, il “Don Giovanni in Sicilia” di Vitaliano Brancati, pubblicato più di dieci anni dopo, ma ambientato pressappoco nello stesso periodo trattato negli “Indifferenti”. Vi si dipinge il “gallismo”, il fenomeno per cui, soprattutto i nostri meridionali, pensano sempre a come conquistare le donne e vantarsi delle loro imprese, ma spesso sono come Michele, cioè immaginano di agire ma non agiscono. Un episodio interessante del romanzo è quello che potremmo sintetizzare come “I don Giovanni a Roma”...   
 
Nel ’27 tutti e tre si recarono a Roma , per parlare con un grossista di cachemir. Ma giunti nella capitale, dimenticarono totalmente gli affari e il motivo per cui erano venuti. Lo stesso Ispettore generale, Eccellenza Cacciola, zio di Muscarà e personaggio di peso, dal quale speravano un buon aiuto per il buon andamento delle loro importazioni dal portogallo, smise presto di parlare di commercio con l’estero, ed esclamò: “Avete visto che donne?”
I tre amici lasciarono l’attitudine compunta, la posizione di attenti e il pallore della  noia, e scoppiarono in una risata cordiale: “Santo cielo!” Poco dopo, erano alla finestra, tra le tende di velluto, e sua Eccellenza indicava, col dito peloso e carico di anelli, certe ragazzone bionde che uscivano dal Ministero dirimpetto: “Mi fanno morire, vi assicuro, mi fanno morire!”
“Oh, lo capisco, Eccellenza!” mormorò Scannapieco. “Uno al posto vostro, con le occasioni che ha, dovrebbe desiderare solamente di essere fatto di ferro!”
L’ispettore non negò (…)”E’ che sono un uomo serio! Non voglio profittare della carica! Uno deve sapersi frenare!”
(…) Dopo quella visita, che, almeno nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto influire sul corso dei loro affetti, i tre catanesi non si occuparono più di cachemir, di prezzi e di noleggi.
Passavano un’ora del mattino e una del pomeriggio in piazza Fiume, sotto la pensilina per gli autobus, guardando salire le ragazze. Le anche rompevano le vesti, nel difficile passo. “Ma quante ce n’è! Ma quante ce n’è! Ma quante ce n’è!” mormorava Scannapieco. “E tutte belle!”
Per belle, intendevano grasse, più alte di loro, e di passo veloce.
“Madurccia!” rispondeva Percolla. “guarda questa!...L’altra, guarda, bestione!...Laggiù, laggiù, maledetto!”
Soffrivano, gemevano, si ficcavano l’un l’altro i gomiti nei fianchi. Ecco un autobus che rimane fermo per tre minuti, a causa di tra carrette cha si erano impigliate le ruote. Sul predellino, un sedicenne alta, bruna, si accarezza il collo con la mano destra e getta nella strada uno sguardo sfavillante. I tre amici si mettono subito nel punto della strada in cui cade lo sguardo della ragazza, come si fa con certi ritratti; e, godendo quindi di una falsa e scialba attenzione da parte di lei, sprofondano i loro occhi nei suoi, sorridono, si grattano la fronte, fan cenni con la bocca e con gli orecchi. Già l’amano, la chiamano a bassa voce con un vezzeggiativo, in un baleno vivono tutta una vita con lei: viaggi, notti insonni, amabili litigi, serate estive in terrazzo, bagni di mare con lanci e spruzzi d’acqua. La loro fantasia non dimentica nulla: essi sentono il terribile e soave lamento con cui ella, nella camera accanto, li rende padri di un bimbo perfetto…
Ma le carrette hanno sciolto le loro ruote, e l’autobus riprende il viaggio, portando con sé la ragazza che, dopo un’intera vita vissuta, abbastanza felicemente, con ciascuno di essi, non lascia nemmeno per un istante gli occhi su di loro, e continua a guardare tutto quello che le capita davanti.
 
Vedete la straordinaria ironia con cui Brancati tocca un registro difettoso dell’ ambiente in cui è vissuto da ragazzo. Il protagonista di questo romanzo, Giovanni Percolla,  interpretato in uno sceneggiato televisivo da un eccezionale Domenico Modugno, oltre che in un film da Lando Buzzanca, conosce una milanese, va con lei a Milano e la sposa. Pochi anni di vita al nord lo trasformano: lui, descritto nella prima parte del romanzo come uno che dorme sempre, coccolato dalle sorelle, quando torna da Milano è cambiato completamente, dinamico. Ma qualche ora nel suo paese lo riaffonda nel vecchio torpore. La provincia addormentata è più forte dell’ esperienza milanese.
Con questo romanzo Brancati ha voluto rappresentare bene la differenza che c’è tra la vita animata del nord e quella sonnolenta del sud, ma anche caratterizzare il gallismo. Su questo tema dell’onore, del sesso, della conquista della donna, poi Brancati è ritornato in altri romanzi, “Paolo il caldo” e soprattutto “Il bell’Antonio”, che parla dell’impotenza, da cui un noto film con Marcello Mastroianni, in una mirabile interpretazione. Una storia in cui addirittura il padre di Antonio cerca di esibire la propria virilità per dimostrare quella del figlio, cioè va a prostitute e lo fa sentire, lo fa sapere, per smentire le voci che circolano. E alla fine approfitteranno di una certa situazione per far credere che Antonio non sia impotente, coglieranno tutto per sfuggire al disonore di questa situazione.
Brancati muore molto giovane, dopo la seconda guerra mondiale, quando si era da poco affacciato all’esperienza teatrale. Un altro grande autore della narrativa di quegli anni è Ignazio Silone, nato nel 1900 e morto nel 1978. Iscritto al partito comunista, ne uscì con i fatti dell’Ungheria, e  parlò di questa esperienza in “Uscita di sicurezza”, avendo colto la natura totalitaria e antidemocratica del comunismo. Poi fu per lungo tempo maltrattato dalla “intellighenzia” di sinistra per questo suo abbandono, che non gli fu mai perdonato, però era già noto e non si poteva eliminare quello che aveva già pubblicato.
Delle sue opere ricordiamo “L’avventura di un povero cristiano”, ispirato alla figura di Celestino V, che parla della povertà di questo eremita papa alla fine del Duecento, di cui Dante dirà che fu vile per il grande rifiuto della carica di pontefice, che in realtà abbandonò quando vide che non riusciva a cambiare quel mondo fatto  di corruzione della Chiesa del tempo. Silone prende le sue difese e fa capire come fosse difficile gestire la vita della curia e come perciò lui tornasse a fare l’eremita.
Altro grande romanzo è “Fontamara”, pubblicato nel 1933, che narra una vicenda ambientata in un paese immaginario del Fucino, che si chiama appunto così perché al centro del racconto è una fonte: una lotta per la conquista dell’acqua, che i contadini del luogo hanno sempre usato per irrigare i loro campi e all’improvviso viene requisita in buona parte per gli interessi di un industriale appoggiato al fascismo imperante. Si celebra la presa in giro nei confronti dei “cafoni”, ai quali viene fatto credere che l’acqua sarà divisa in parti eguali, tre quarti al potente industriale e tre quarti a loro, come se tre quarti più tre quarti desse l’unità. Vediamo ora un passo, nella lettura di Mariateresa…
 
Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l’olio d’oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera.
I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo. Tutte le novità portateci dai Piemontesi in settant’anni si riducono insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa. Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola volta. A noi è sempre bastata la pipa. La luce elettrica era diventata a Fontamara anch’essa una cosa naturale, come il chiaro di luna. Nel senso che nessuno la pagava. Nessuno la pagava da molti mesi. E con che cosa avremmo dovuto pagarla? Negli ultimi tempi il cursore comunale neppure era più venuto a distribuire la solita fattura mensile col segno degli arretrati, il solito pezzo di carta di cui noi ci servivamo per gli usi domestici. L’ultima volta che il cursore era venuto per poco non vi aveva lasciato la pelle. Per poco una schioppettata non l’aveva disteso secco all’uscita del paese. Egli era assai prudente. Veniva a Fontamara quando gli uomini erano a lavoro e nelle case non trovava che donne e creature. Ma la prudenza non è mai troppa. Egli era molto affabile. Distribuiva le sue carte con una risatella cretina, pietosa. Diceva:
«Prendete, per carità, non ve l’abbiate a male, un pezzo di carta in famiglia può sempre servire.»
Però l’affabilità non è mai troppa. Alcuni giorni dopo un carrettiere gli fece capire, non a Fontamara (a Fontamara egli non metteva più piede), ma giù nel capoluogo, che la schioppettata probabilmente non era stata diretta contro di lui, contro la sua persona, contro la persona di Innocenzo La Legge, ma piuttosto contro la tassa. Però se la schioppettata avesse colto in segno, non avrebbe ucciso la tassa, ma lui; perciò non venne più, e nessuno lo rimpianse. Né a lui balenò mai l’idea di proporre al comune un’azione giudiziaria contro i fontamaresi.
«Se si potessero sequestrare e vendere i pidocchi», aveva suggerito una volta, «senza dubbio un’azione di giustizia darebbe importanti risultati. Ma anche se fosse lecito sequestrarli, poi, chi li ricomprerebbe?»
La luce doveva essere tagliata al primo gennaio. Poi al primo marzo. Poi al primo maggio. Poi si disse: «Non sarà più tolta. Sembra che la regina sia contraria. Vedrete che non sarà più tolta». E al primo giugno fu tagliata.

 
Vedete quindi l’inesorabilità con cui procede Silone, per descrivere un’angheria continua nei confronti della povera gente, della cui ignoranza, e soprattutto pazienza, si approfitta. Il romanzo fu pubblicato in Svizzera, dove era esule durante il fascismo. Si rappresenta  la difesa degli interessi dei “cafoni” attraverso la figura di Berardo Viola, interpretato in maniera intensa e mirabile da un giovanissimo Michele Placido (in un altro degli sceneggiati televisivi che una volta erano frequenti e ripresi dal meglio della nostra narrativa d’autore, non dai soggettisti d’accatto che circolano oggi). C’è bisogno di un uomo che abbia consapevolezza, per guidare questa gente che non sa organizzarsi. Infatti nel finale si riprende quella espressione “che fare?”, di origine marxista-leninista, che tradisce le idee politiche dell’autore. Berardo Viola, che concluderà con il suo sacrificio la sua esperienza, diventa il campione della difesa dei diritti della povera gente, come quel Luca Marano  delle “Terre del Sacramento” di Francesco Jovine, di cui parleremo nella prossima lezione, e come altri protagonisti di queste storie che tutte sono il riflesso di una stagione politica amara, cioè del fascismo. Arrivederci.
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