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NARRATIVA IN EUROPA: MANN, KAFKA, POUST, JOYCE



Antologia - TERZO ANNO - 15^ Lezione

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NARRATIVA IN EUROPA: MANN, KAFKA, POUST, JOYCE

Quindicesima lezione, con Barbara, che sta recitando al Teatro del LOTO…
BARBARA: …nel “Sogno di una notte di mezza estate”.
In cui sei Titania…
BARBARA: …la regina delle fate.
Cioè, in due parole?
BARBARA: Rappresento il regno delle fate. In questo parallelo della percezione della realtà io faccio parte del sogno, in cui amo questo re degli elfi, Oberon. Un ruolo particolare, esuberante, che mi diverte molto.
E’ un po’ complicata la ricostruzione della storia, anche perché Shakespeare non aveva tanto l’intenzione di far riflettere sulla congruenza di quel che accadeva, ma voleva scherzare e divertirsi con il pubblico appunto su un mondo parallelo, che recuperava dal passato medievale dell’Inghilterra del suo tempo in chiave proprio di modernità. E’ merito di Stefano Sabelli aver riproposto, in una versione particolare, questo testo…
BARBARA: …ambientata negli anni ’60 di questo secolo. Uno Shakespeare pop.
Si gioca dunque con la letteratura, ma cominceremo con un autore che gioca poco, Thomas Mann, serio, addirittura malinconico. La sua esperienza è molto lunga, va dai “Buddenbrook” del 1901 al “Doctor Faustus” del 1947. Esamineremo in questa lezione la prima parte della sua vicenda. E’ comunque uno dei quattro grandi, insieme con Kafka, Proust e Joyce, che rappresentano il romanzo di coscienza del primo Novecento.
Mann ha scritto prima una saga, quella dei “Buddenbrook”, che evidenziava la crisi della borghesia di Lubecca, nell’alta Europa, da cui lui stesso proveniva, con la decadenza di una famiglia che era quella di un’epoca, una storia anche autobiografica. E poi questo “novel”, questo racconto lungo, di cento pagine circa, “La morte a Venezia”, oggetto di un grandissimo film di Luchino Visconti, con protagonista Gustav Aschenbach, che nel film è un musicista, mentre qui è uno scrittore, che ha perso l’ispirazione e la ritrova  nella riflessione sul male come elemento creativo.  Un recupero dal romanticismo, ma in una dimensione diversa. Il protagonista, arrivato dalla sua Austria a Venezia per stare meglio (gli era stato consigliato dal medico), poi  finisce per trovarvi nebbia, clima insostenibile, irrespirabile, e il colera, e  muore di colera.  Il romanzo è anche simbolo della decadenza di un’epoca. Barbara ora vi leggerà la parte in cui Aschenbach si incapriccia di un giovanissimo polacco che si chiama Tadzlo…
 
MANN, LA MORTE A VENEZIA
Era inevitabile che tra Aschenbach e il giovane Tadzlo un certo tipo di conoscenza finisse per stabilirsi. E con gioia penetrante scoprì che simpatia ed attenzione non restavano del tutto incorrisposte. Ad esempio, che cosa spingeva il bel ragazzo allo scendere di mattina sulla spiaggia, a non seguire più bighellonando l’assito a tergo delle cabine, ma il tratto di sabbia davanti e a raggiungere la tenda occupata dai suoi lungo il tavolo e la sedia di Aschenbach, talvolta e senza alcun bisogno, sfiorandoli quasi? Era l’attrazione, il fascino esercitato da un sentimento più alto sul soggetto fragile e sprovveduto? Ogni giorno Aschenbach attendeva la comparsa di Tadzlo e a volte si fingeva assorto e lo lasciava passare apparentemente inosservato, ma tal altra alzava gli occhi e i loro sguardi si incontravano. Profonda era la loro serietà quando ciò accadeva. Nulla del volto saggio e dignitoso dell’anziano tradiva un moto interno. Ma negli occhi di Tadzlo era un interrogativo, una pensosa domanda. Il suo passo si faceva dubbioso, abbassava lo sguardo, poi lo risollevava con grazia e quando era passato qualcosa nel suo comportamento sembrava esprimere il fatto che solo la buona educazione gli impediva di voltarsi. Una sera tuttavia le cose andarono in un modo diverso. I fratelli polacchi non si erano fatti vedere a cena nel salone e l’istruttrice neppure, cosa che Aschenbach aveva notato con allarme. Dopo cena, inquieto per la loro assenza, in abito da sera e cappello di paglia, era uscito ai piedi della terrazza davanti all’albergo, quando , improvvisamente, vide spuntare alla luce delle lampade ad arco le monacali sorelle con l’istruttrice e, quattro passi dietro, il fanciullo. Era chiaro venivano dall’imbarcadero, dopo aver cenato per qualche motivo in città. Sulla laguna evidentemente aveva fatto fresco e Tadzlo portava una giacca alla marinara, sullo scuro, con bottoni d’oro e in capo un berretto dello stesso tipo. Sole e l’aria di mare non lo abbronzava, ma sopra gli era rimasto un pallore marmoreo come i primi giorni. Ma oggi, fosse il freddo o la livida luce lunare dei lampioni, quel pallore spiccava ancor di più. Le sopracciglia regolari si disegnavano più nette, gli occhi erano ancor più scuri e profondi. Era più bello che non si possa dire. E come gli era accaduto altre volte Aschenbach sentì con dolore che la parola può soltanto celebrare, non riprodurre la bellezza sensibile. Non si era attesa la cara apparizione. Essa gli giunse insperata, senza lasciargli il tempo di atteggiare il volto in calma e dignità. Gioia, sorpresa, meraviglia gli si dipinsero certo chiaramente quando il suo sguardo si incontrò con quello di colui che tanto gli mancava. In quell’attimo avvenne che Tadzlo sorridesse, sorridesse a lui in modo eloquente, familiare, carezzevole, aperto, con le labbra che si dischiusero in sorriso. Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio dell’acqua, il sorriso lungo, profondo, ammaliato, col quale tende le braccia al riflesso della sua bellezza. Un sorriso, appena un’ombra, contratto, contratto dalla vanità dello sforzo di baciare le labbra vezzose della propri immagine, civettuolo, curioso, un po’ dolente, incantato e incantatore. Colui che aveva raccolto quel sorriso si affrettò via con esso come in un dono fatale. Era così turbato che dovette fuggire le luci della terrazza e del giardino e a rapidi passi  cercò il buio del parco retrostante. Proteste stranamente indignate e strane eruppero da lui:-Non deve sorridere così! Ascolta, a nessuno si deve sorridere così!- si gettò sulla panchina, fuori di sé, aspirò il notturno profumo degli alberi e abbandonato sulla spalliera, a braccia penzoloni, sopraffatto, percorso da brividi ricorrenti, sussurrò la formula eterna del desiderio, qui impossibile, assurda, perversa, grottesca e tuttavia sacra, anche qui veneranda: -Ti amo.
 
Perversa. Perché questo amore per Tadzlo, un ragazzino bellissimo, è una perversione; e però è anche un’ispirazione. In questo passo c’è una vena naturalmente omosessuale, per non dire altro, che è nello stesso autore. Ma comunque è una riflessione sull’irrazionale che spinge dentro di noi e che è più creativo della nostra razionalità. Thomas Mann nella sua evoluzione ha avuto lo stesso percorso di Goethe, ha lottato e ha fatto vincere poi la propria razionalità, però in questa fase l’accento era più sull’istintualità dell’individuo, repressa nella società borghese.
Nella “Montagna incantata” ci sarà appunto questo rapporto con il razionalista Settembrini, che si impone. E poi nel “Doctor Faustus”, l’ultimo grande romanzo, c’è la devastante riflessione sul popolo tedesco, che ha fatto quasi un patto con il diavolo, Hitler, perciò l’opera ha questo titolo, per vivere un momento di felicità, dopo la crisi del ’29. Mann, quando già vive in America, dà una grandissima responsabilità di quanto è accaduto alla collettività, che non è esente da colpe. Hitler non è isolato, ha avuto dietro di sé un popolo che lo ha seguito. E se vogliamo continuare la riflessione è accaduto anche perché le potenze vincitrici della prima guerra mondiale costrinsero la Germania a condizioni di guerra così insostenibili che poi doveva covare nei tedeschi un bisogno di rivincita, purtroppo incanalato nella follia nazista.
Ora da Mann passiamo a un altro autore della Mitteleuropa, Franz Kafka. Vi riproponiamo una pagina del “Processo”. Leggi Barbara…
 
KAFKA, IL PROCESSO, Capitolo X
La vigilia del suo trentunesimo compleanno - erano circa le nove, l'ora del silenzio nelle strade - vennero a casa di K. due signori. In finanziera, pallidi e grassi, con cappelli a cilindro apparentemente inamovibili. Ci furono alcuni convenevoli davanti alla porta dell'appartamento, su chi dei due dovesse passare per primo, e gli stessi convenevoli si ripeterono in misura maggiore davanti alla porta di K. Senza che la visita gli fosse stata annunciata, K. sedeva, anche lui vestito di nero, in una poltrona vicino alla porta e s'infilava lentamente dei guanti nuovi, ben tesi sulle dita, nell'atteggiamento di chi aspetta ospiti. Si alzò subito in piedi e osservò con curiosità i due signori. «È per me che venite, vero?», chiese. I signori annuirono, e uno indicò con il cilindro nella mano l'altro. K. confessò a se stesso di essersi aspettato una visita diversa. Andò alla finestra e guardò ancora una volta la strada buia. Erano già buie anche quasi tutte le finestre sul lato opposto della strada, molte avevano le tende abbassate. In una finestra illuminata, al piano, dei bambini piccoli giocavano insieme dietro una grata e, ancora incapaci di muoversi dai loro posti, si cercavano a tastoni con le piccole mani. «Mandano a cercarmi dei vecchi attori da strapazzo», si disse K. e si guardò attorno per convincersene ancora. «Vogliono liberarsi di me a buon mercato». K. si volse a un tratto verso di loro: «In che teatro lavorate?». «Teatro?», si consultò uno dei signori con l'altro, con gli angoli della bocca che tremavano. L'altro gesticolò come un muto che lotti con il suo organismo riluttante. «Non sono preparati a ricevere domande», si disse K. e andò a prendere il cappello.
Già sulla scala i due signori fecero per prendere K. sottobraccio, ma K. disse: «Aspettiamo di essere in strada, non sono malato». Ma appena fuori del portone lo presero sottobraccio, in un modo come K. non aveva mai camminato con nessuno. Tenevano le spalle premute da dietro alle sue, non piegavano le braccia ma se ne servivano per avvinghiare le braccia di K. in tutta la loro lunghezza, fin giù a stringergli le mani con una presa da manuale, esperta, irresistibile. K. camminava rigido fra loro, tutti e tre formavano ora una tale unità che, se si fosse fatto a pezzi uno di loro, sarebbero andati a pezzi tutti. Era un'unità come quasi solo possono formarla cose inanimate.

 
Il protagonista K. vede arrivare in casa sua all’improvviso due persone che lo portano via per un processo, per un’accusa che lui non conosce; però accetta tutto questo. Cioè il dipanarsi degli eventi è così imperioso, è così obbligante, che lo costringe a fare cose prive di senso considerandole giuste solo perché stanno accadendo. E’ un po’ quello che si verifica nella società: l’uomo assume comportamenti imposti dagli altri,  che non hanno senso. Vediamo come va a finire questa storia…
 
I signori fecero sedere K. per terra, appoggiato al masso, e su questo adagiarono la sua testa. Per quanti sforzi facessero e per quanto K. si mostrasse loro compiacente, la sua posizione risultava sempre molto forzata e non convincente. Allora un signore pregò l'altro di lasciare provare un po' lui solo a sistemare K., ma neanche così andò meglio. Alla fine lasciarono K. in una posizione che non era nemmeno la migliore tra quelle che già avevano trovate. Poi uno dei signori aprì la finanziera e da un fodero appeso a una cintura stretta intorno al panciotto estrasse un coltello da macellaio lungo e sottile, a doppio taglio, lo tenne sollevato ed esaminò il filo alla luce. Qui ricominciarono i loro disgustosi convenevoli, uno porgeva al di sopra di K. il coltello all'altro, questi glielo restituiva, sempre al di sopra di K. Adesso K. sapeva con esattezza che sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello mentre passava di mano in mano sopra di lui e trafiggersi lui stesso. Ma non lo fece, girò invece il collo ancora libero e si guardò attorno. Non poteva dare pienamente prova di sé, sottrarre alle autorità tutto il lavoro, la responsabilità di quest'ultimo errore cadeva su chi gli aveva negato quanto gli restava della forza necessaria.
 
Addirittura, vedete, la passività di questo protagonista arriva al punto di volere togliere ai due la fatica di scegliere come e quando ammazzarlo, facendolo da sé magari, per favorire questa cosa che lui accetta supinamente, come se fosse normale…
 
Il suo sguardo cadde sull'ultimo piano della casa attigua alla cava. Come una luce che si accenda improvvisa, si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l'altezza, si sporse d'un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C'era ancora un aiuto? C'erano obiezioni che erano state dimenticate? Ce n'erano di certo. La logica è, sì, incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuole vivere. Dov'era il giudice che lui non aveva mai visto? Dov'era l'alto tribunale al quale non era mai giunto? Levò le mani e allargò le dita.
Ma sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei signori, mentre l'altro gli spingeva il coltello in fondo al cuore e ve lo rigirava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. «Come un cane!», disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere.

 
“Come un cane” muore. E questa è la violenza ingiustificata, insensata, della società nei confronti dell’individuo, vuole dire con questo suo romanzo Kafka, che ha avuto un’esistenza particolare, era quasi un disadattato, in una famiglia nella quale ha subito un’educazione molto rigida da parte del padre, con cui, dice nella famosa “Lettera al padre”, ha scambiato solo poche parole in tutta la sua vita. Nei suoi “Diari” Kafka si dipinge come un palo obliquo in un campo innevato, volendo rappresentare con il palo la solitudine, con il suo essere inclinato la precarietà dell’individuo, con il suo stare in un campo innevato la freddezza dei rapporti con il padre e comunque con la società.
Kafka ha dipinto questa sua situazione nello splendido racconto che è “La metamorfosi”, dove il protagonista Gregor Samsa si sveglia una mattina trasformato in un enorme scarafaggio e presto si rende conto che la famiglia, in quanto tale, non lo accetta, lo nasconde alla società civile, perché se ne vergogna. E questo è il vero dramma: essere scarafaggio, rifiutato dalla famiglia e da un padre che alla fine gli getterà contro delle mele e lo ucciderà. Anche questo è simbolico del sentirsi alieno, nella famiglia e nella società. E’ il tema dello “Straniero” di Albert Camus. E’ il dramma esistenziale dell’uomo dipinto nella “Nausea” di Jean Paul Sartre, nella “Noia” di Moravia. Tutti momenti della grande indagine psicologica di un’epoca di straordinaria  coscienza e difficoltà.
Gregor Samsa nel cognome riproduce la struttura di “Kafka”, in quanto ci sono due “a”, una consonante ripetuta e una diversa.  Nel “Castello” torna K., dall’iniziale del cognome, un agrimensore, un misuratore di aree, di terreni, che va in un paese nel quale vede la gente comportarsi in una maniera strana; si chiede il senso di questo e capisce che tutto è diretto da un castello nel quale nessuno vuole andare e dal quale proviene la legge che impera in questa comunità. E lui vuole indagare, vuole andare nel castello a cercare l’origine di questa legge. Il romanzo è incompiuto, ma si intravede, si immagina che si perderà in questa ricerca. Tutto è rappresentativo del fatto che noi viviamo in una società che ci ordina, ci regola secondo direttive che non sono comprensibili, che Kafka condensa nel motivo della “legge”, presente in altri suoi racconti.
Poi c’è l’altro romanzo incompiuto, “America”, di cui non abbiamo il tempo di parlare, perché dobbiamo passare a un altro gigante di questa letteratura, Marcel Proust, che riprende la tematica di Bergson: il passato è nel nostro presente. Ma dice anche che il nostro passato ci aiuta a capirci. Infatti il ciclo dei suoi sette romanzi si intitola “Alla ricerca del tempo perduto” e l’ultimo si chiamerà “Il tempo ritrovato”, perché nel momento in cui avremo ritrovato il nostro tempo avremo capito meglio noi stessi. L’opera di Proust è un grande affresco della sua epoca. Qui l’autore ci descrive il ricostruirsi della memoria, che è un processo difficile. Leggi Barbara…
 
PROUST, LA STRADA DI SWANN, Parte I, Capitolo I
Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate « maddalenine», che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia. Ed ecco, macchinalmente oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione di un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine.
Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?

 
E’ il primo momento, in cui sente che qualcosa si sta scatenando dentro di lui. Aveva tentato più volte di ricordare quanto gli era accaduto a Combray, nella sua infanzia, ma non c’era mai riuscito, perché si sforzava di trascinare questa memoria, di incoraggiarla con la sua volontà. Non è un processo che si può avviare con la volontà. Deve accadere per caso. E intingendo questo biscottino nel tè si ritrova tanti anni prima ad aver fatto lo stesso gesto, con lo stesso profumo, gli stessi colori, le stesse situazioni e rivivere quindi quanto era avvenuto. Ed ecco che, come in un mosaico, si aggregano uno con l’altro i vari pezzi e si ritrova proiettato in quella dimensione. Ma vediamo cosa ci dice…
 
(…)E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo.
 
L’immenso edificio del ricordo. E un edificio costruirà infatti Proust nel suo romanzo…
 
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena " inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello.
 
Si ricostruisce intorno l’immagine completa di quel passato. E da lì parte la serie di sette romanzi in cui, proprio perché la memoria è un edificio, c’è una costruzione straordinaria, in cui si incrociano lo spazio e il tempo, nel senso che l’autore rivede tutti gli avvenimenti come li hanno vissuti i diversi protagonisti, secondo i diversi punti di vista, nello spazio, e poi, nel tempo, come ciascuno di questi personaggi ha ricordato gli stessi avvenimenti in diversi momenti della sua vita. Un passato che ritorna secondo le coordinate di spazio e di tempo. Per esempio la vicenda di Swann e Odette viene inquadrata dai due secondo i rispettivi punti di vista nel momento in cui la vivono; quando vanno a ricordarla dopo dieci anni, non solo è diversa fra loro, ma anche per loro, perché ciascuno ricorda quello che gli è accaduto con il filtro di dieci anni, quindi  in forma diversa da allora. E’ lo straordinario grande affresco della memoria e della società contemporanea operato da Proust, che chiama “intermittenze del cuore” queste capacità di recuperare tutto della propria dimensione, della propria coscienza. E il “tempo ritrovato” è il senso “di una” vita, non certo “della” vita, che anche per lui, anche se meno che per altri, è quell’assurdo su cui aveva riflettuto di più Kafka, che era arrivato  a quelle deformazioni emblematiche e straordinarie.
Appena accenniamo a Joyce, che poi riprenderemo nella prossima lezione parlando di Svevo, che presenta “Ulysses”, un’odissea, un viaggio che si verifica non nello spazio fuori di noi, ma nella nostra mente, con protagonisti Leopold Bloom, figura del padre, Stephen Dedalus, figura del figlio, e Molly Bloom, figura della moglie: Ulisse, Telemaco e Penelope. Ma questo lo riserviamo alla prossima lezione. Arrivederci.
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