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MITI DEL DECADENTISMO: IL FANCIULLINO E IL SUPERUOMO



Antologia - TERZO ANNO - 9^ Lezione
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Approfondimenti letterari (In coda alla pagina)
MITI DEL DECADENTISMO: IL FANCIULLINO E IL SUPERUOMO
Nona lezione, con Diego, il nostro studente-attore, sempre alle prese con la “Difesa del Camminante”, ispirato a Giovannitti?
DIEGO: Ultime repliche. Poi inizio con “Alcesti” di Euripide.
Impegnativo testo. Che collegamento riesci a fare tra Alcesti e qualcosa di cui abbiamo parlato insieme in queste lezioni?
DIEGO: Abbiamo affrontato alcuni personaggi che andavano verso la morte, e questo è il tema centrale della tragedia…
Questa è un’epoca così fatta, di continui riferimenti alla morte, ma è una caratteristica della letteratura avere queste malinconie. E in tema apriamo con “Languore” di Verlaine, grandissimo poeta francese, che inaugura il decadentismo in poesia, come abbiamo detto che “A ritroso” di Huysmans lo faceva in narrativa. Siamo nel 1883, mentre il romanzo sarà pubblicato l’anno dopo,  nel 1884.
 
VERLAINE, LANGUORE
     Sono l'impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi barbari bianchi
componendo acrostici indolenti dove danza
il languore del sole in uno stile d'oro.
     Soletta l'anima soffre di noia densa il cuore.
Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente.
O non potervi, debole e cosi lento ai propositi,
e non volervi far fiorire un po' quest'esistenza!
     O non potervi, o non volervi un po' morire!
Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?
Tutto è bevuto, tutto è mangiato! Niente più da dire!
     Solo, un poema un po' fatuo che si getta alle fiamme,
solo, uno schiavo un po' frivolo che vi dimentica,
solo, un tedio d'un non so che attaccato all'anima!

 
Fuori le battaglie, ai confini dell’impero. Verlaine si finge uomo del periodo della decadenza dell’impero romano, quando tutto viene sconvolto e sembra non esserci più spazio per la poesia, per il divertimento cerebrale, rispetto ai grandi problemi che incombono. Dice che si sente l’impero alla fine della decadenza, cioè in un momento estenuato, esangue, in cui non c’è più forza, non c’è più riferimento, insomma è lo sbandamento della società della fine dell’Ottocento. Lui stesso ha intitolato questa poesia “Le decadent”, titolo che nelle traduzioni è “Languore”. E con “decadente” riprende la definizione che davano di lui e degli altri poeti maledetti i contemporanei, che li consideravano tali con atteggiamento spregiativo, E loro assumono questo termine a loro riferito in direzione negativa come una bandiera. Da qui nascerà il termine “decadentismo”, a caratterizzare il grande cambiamento di gusto. Infatti è un po’ il destino degli emarginati essere poi gli anticipatori del nuovo.
Un grande critico italiano, Carlo Salinari, autore di un testo intitolato “Miti e coscienza del decadentismo”, sostiene che ci sono due fasi, all’interno del decadentismo: la fase dei miti e la fase della coscienza. La prima è immatura, la seconda più matura. Ciò corrisponde all’idea che, quando niente funziona nella società, ci si sperde, ci si riversa nei miti irrazionali per evadere dal problema contingente. In quel momento però non si ha consapevolezza del perché lo si fa. Mentre quando si arriva a questa matura considerazione della ragione che ci ha portato a questo tipo di evasione e ad analizzare il problema del  nostro intervento nella società, siamo nella fase della coscienza.
Questo discorso lui lo fa per la letteratura italiana, individuando come autori della fase dei miti Pascoli, D’Annunzio e Fogazzaro, e come autori della fase della coscienza Svevo e Pirandello. I miti che lui esamina sono per Pascoli il fanciullino, per D’Annunzio il superuomo e per Fogazzaro il santo.
Il santo, nell’omonimo romanzo di Antonio Fogazzaro, è un protagonista attraversato da una grande ispirazione cristiana, che vorrebbe una rigenerazione dell’umanità, della società sulla base dei sentimenti e della spiritualità che vengono dai Vangeli. “Il Santo” corrisponde a quell’esperienza che prende il nome di “modernismo”, all’interno della Chiesa Cattolica della fine dell’Ottocento, che ha una delle sue espressioni anche nell’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII, un’enciclica sociale, che si occupa dei problemi del mondo del lavoro, ma poi avrà anche risvolti nei movimenti organizzati cattolici, che dalle Leghe bianche, che rappresentavano i diritti dei contadini e dei braccianti agricoli, affiancate a quelle “rosse”, marxiste e comuniste, si sviluppano verso figure come quella di Luigi Sturzo, del futuro partito popolare divenuto poi democrazia cristiana.
Quindi è il mito dell’uomo che vuole rigenerare l’umanità, riproduzione, dopo diversi secoli, di quell’uomo nuovo che avrebbe dovuto salvare il mondo, di cui parlava Dante e prima di lui avevano parlato i millenaristi, che avevano pensato a qualcuno che potesse cambiare tutto dopo l’anno mille.
Gli altri due miti sono quelli del fanciullino e del superuomo. E Salinari dice, nel suo costrutto generale, che sono due forme di evasione dalla realtà, opposte. La prima è una sorta di regressione, arretramento, un’incapacità di affrontarla, per chiudersi appunto nel mondo di quando eravamo fanciulli, per conservarci tali. L’altra invece è un uscire dalla realtà per andare oltre, credendo di superarla, ma non essendone capaci perché è anche quella una forma di elusione del sano confronto con i problemi. Il fanciullino è quello che regredisce ponendosi al di sotto della realtà e il superuomo è quello che aggredisce ponendosi al di sopra della stessa, in una deformazione del pensiero nietzschiano che poi controlleremo e definiremo.
Ma voglio subito darvi un’idea di cosa sia il fanciullino per Pascoli, attraverso quello che ci leggerà Diego…
 
PASCOLI, IL FANCIULLINO, Capitolo I
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.
 
Pascoli a questo punto stabilisce due diversi atteggiamenti dell’uomo verso la sua infanzia: quello della giovinezza, in cui ti ritrovi ad allontanare il tuo essere fanciullo, perché vuoi maturare presto, e quello della vecchiaia, in cui ritorni e ripieghi nostalgicamente a quel mondo. Quindi chi ascolta di più il fanciullo che è dentro di noi è il vecchio, rispetto all’uomo maturo. Si sta discutendo di quell’essere capaci di ascoltare quello che è dentro di noi, che, per capirci, è l’animo poetico…
 
Capitolo III
Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente.

 
E’ l’animismo tipico del bambino, questo animare le cose e dare loro un nome. Secondo Pascoli il fanciullino è la poesia che è in noi, la capacità di meravigliarci, di sorridere per un nonnulla. Ma al di là di tutto questo, che sembra chiaro, esaminiamo quello che c’è dietro questo atteggiamento di Pascoli. E’ un uomo insicuro, che, avete visto, sottolinea le paure, la rudezza, la volgarità, tutte cose che lui rifiuta della realtà, un uomo particolarmente sensibile, segnato in questo dalla sua esperienza, di cui parleremo in dettaglio nella prossima lezione; ma sappiamo che la sua vita è stata travolta dalla morte prematura del padre, poi quella della madre, poi la sua incapacità di crearsi una realtà familiare. E quindi il suo interesse morboso per le sorelle, che vedremo. Poi c’è la sua esperienza socialista, di cui pure parleremo.
Ma a noi interessa in questo momento ritrarre l’espressione di un uomo insicuro che regredisce nell’ambito della fanciullezza, dell’infanzia e della purezza, dell’incanto dell’innocenza, perché ha paura di una realtà che innocente non è, che è pericolosa perché corrotta, e quindi non rassicurante. E opponiamo a questo il superuomo dannunziano, un’immagine che traiamo da “Le vergini delle rocce”, in cui, nella sostanza, si parla del tentativo da parte di un superuomo, Claudio Cantelmo, di fare con una superdonna dei superfigli, in maniera molto banale. E’ un uomo che cerca la donna ideale, che deve essere adeguata alle sue qualità, alle sue capacità ed essere in grado di generare con lui, che si sente aristocraticamente diverso dagli altri, un bambino degno. Tra le altre cose ci dice, nella pagina che apre il romanzo…
 
D’ANNUNZIO, LE VERGINI DELLE ROCCE, Capitolo I
Domati i necessarii tumulti della prima giovinezza, battute le bramosie troppo veementi e discordi, posto un argine all'irrompere confuso e innumerevole delle sensazioni, nel momentaneo silenzio della mia coscienza io aveva investigato se per avventura la vita potesse divenire un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative nel variar continuo dei casi; ciò è: se la mia volontà potesse per via di elezioni e di esclusioni trarre una sua nuova e decorosa opera dagli elementi che la vita aveva in me medesimo accumulati.
 
Avevo valutato, io protagonista della mia esistenza, se potevo evitare di vivere una vita accomodante. Questo in sintesi. L’uomo che non cede ai compromessi. La vita come un crogiuolo nel quale lavora per farne un’opera d’arte. La vita dà gli elementi, il protagonista li deve rielaborare…
 
Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all'arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: - Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro.
 
Usa un linguaggio hegeliano: il mondo come rappresentazione: la realtà esiste perché è pensata. Dunque è l’uomo che la crea. Un uomo particolarmente superiore agli altri, particolarmente sensibile…
 
Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. - E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s'accresce di bellezza e di dolore.
 
Chiaro il messaggio antidemocratico: il tema della bellezza, che deriva dal vecchio estetismo, del dolore, ma tutto rielaborato e, secondo lui, esaltato dalla grandissima virtù dell’uomo superiore. E’ una deformazione del mito nietzschiano, che aveva parlato sì di superuomo, ma intendeva un uomo che vive nella sua totalità, torna ad essere superiore all’uomo che è stato finora perché limitato e condizionato dal cristianesimo e dal cattolicesimo, l’uomo che ha perso la parte fisica e materiale di sé, l’uomo che si è dedicato tutto all’anima e allo spirito, l’uomo che ha mantenuto lo spirito apollineo soltanto, la sua razionalità, ma non ha dato retta al suo spirito dionisiaco, alla sua irrazionalità, al suo istinto. Il superuomo per Nietzsche è colui che recupera l’integrità e l’unità del razionale e dell’irrazionale, cioè dell’essere pensante e dell’essere vivente…
DIEGO: Sono poi le prime frasi della “Nascita della tragedia”, in cui si parla appunto, nel mondo greco, di questa fusione tra dionisiaco e apollineo, due cose inscindibili in una società sana, migliore, due cose che sono una dentro l’altra.
Bravo Diego.  E allora superuomo in questo senso. Invece D’Annunzio lo semplifica, lo schematizza, lo elementarizza e lo svuota, questo superuomo nietzschiano che era denso, anche nella sua dimensione rivoluzionaria rispetto al modo tradizionale di intendere il rapporto tra l’individuo e la realtà in cui vive, e lo rende questo fantoccio che si sente superiore agli altri. Tra l’altro Nietzsche subirà la deformazione anche con il nazismo, con cui c’è un rapporto al di là della sua volontà: responsabile la sorella, responsabile Hitler stesso, ma certamente non era nelle sue intenzioni favorire la follia hitleriana.
Dunque per D’Annunzio il superuomo si distingue dalla massa, aggredisce la realtà e cerca di imporre la sua capacità, la sua straordinaria sensibilità, è il tribuno, l’immaginifico, colui che ha le visioni che gli altri non hanno, colui che riesce a dominare le masse e a indurle a fare qualcosa, a creare azione. Però inevitabilmente si pone al di sopra della realtà e non ha con questa un rapporto regolare, naturale e maturo. Secondo Salinari anche questa è una forma di evasione irrazionale e inconsapevole.
Salinari poi fa un parallelo tra Crispi e Giolitti da una parte e D’Annunzio e Pascoli dall’altra. Crispi e Giolitti sono stati due grandi protagonisti della storia di fine secolo e del secolo successivo. Il primo è stato considerato il campione dell’autoritarismo, soprattutto per le sue repressioni sanguinose dei moti di fine Ottocento, i fasci siciliani e tutto quello che si sviluppa in quel periodo. Salinari sostiene che il legame tra Pascoli e Giolitti è quello di due nature vincenti. Pascoli, con il suo atteggiamento dimesso, è penetrato nella cultura italiana molto di più di D’Annunzio, è diventato un po’ l’anima della nostra letteratura, nel lungo tempo…
DIEGO: Con il suo profilo basso…
Bravo. Con questo suo profilo basso è stato duraturo, così come Giolitti, soprattutto nell’età che prende da lui il nome, quando è stato capo del governo. Crispi invece, con i suoi metodi autoritari, con la sua violenta aggressione, anche addirittura con le sue insistite campagne in Africa, non è stato un vincente, ha preso anche due volte sonore mazzate, ad Adua e a Dogali, come avviene per D’Annunzio, un’esplosione di vitalismo che poi non rimane, non attecchisce profondamente.
Questo parallelo tra Giolitti e Pascoli e tra Crispi e D’Annunzio poi svela tutta la sostanza del ragionamento su questo critico, cruciale passaggio fra i due secoli, perché quando poi esamineremo l’età giolittiana, nella prossima lezione, vedremo in fondo che Giolitti realizzerà nel suo governo, pur essendo poi stato definito il ministro della malavita, autore di brogli elettorali e mafioso, come sappiamo, la trasformazione industriale dell’Italia, supererà i problemi di scontro fra masse operaie e datori di lavoro, con il suo metodo, che era quello di non intervenire, nei limiti del possibile (perché anche lui talvolta lo ha dovuto fare), mentre Crispi affrontava con maggiore durezza gli operai.
E addirittura, nei suoi discorsi elettorali, nelle sue prolusioni durante la campagna che lo avrebbe portato a vincere in parlamento, e poi nei suoi rapporti con il partito socialista del tempo, all’epoca dei grandi scioperi di inizio Novecento, dimostrerà la sua lungimiranza, che, malgrado le accuse, sarà confermata anche nel periodo critico della vigilia della prima guerra mondiale, quando farà la scelta giusta, quella di non intervenire e si dimetterà per evitare il conflitto. I fatti gli daranno ragione. E’ stata una sciagura, una tragedia. Ma aveva già dimostrato la sua capacità di guardare lontano e aveva già sofferto per il suo atteggiamento nel periodo dello scandalo della Banca Romana, nei primi anni ’90 dell’Ottocento. Accadde che, secondo i suoi avversari, non aveva saputo affrontare con il giusto rigore, la giusta durezza, gli operai, i braccianti e i contadini in sciopero. Già allora aveva dimostrato quella che per altri era debolezza e per lui era maturo confronto per evitare danni maggiori. Cioè non era intervenuto con la forza. E gli montarono contro il grande scandalo, inventando in buona parte la sua responsabilità, che se non altro era molto minore di quella di Crispi…
DIEGO: Infatti è stata fatta un ricostruzione recente dello scandalo della Banca Romana, che si trova con quanto stiamo dicendo, secondo cui fra i responsabili c’è anche Giolitti, ma Crispi lo è di più perché ha tessuto di nascosto tutto.
Certo. Giolitti non aveva vigilato, ma Crispi aveva ordito tutto. E oggi possiamo ipotizzare quello che all’epoca non fu valutato, che lo scandalo fosse stato mosso con il secondo scopo, nascosto, di colpire l’uomo debole nei confronti delle masse in protesta, per portare al potere, come avvenne, chi potesse affrontare il problema con la forza, Crispi appunto.
Concludiamo la lezione ricordando che in questo momento di crisi dei valori la prima reazione è evadere nell’irrazionale e il perdere il contatto con la realtà. Vedremo più avanti come, dopo Pascoli e D’Annunzio, tornerà una matura analisi della condizione dell’uomo nella società, che aprirà le porte alla contemporaneità. Arrivederci.
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