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MANZONI: Le tragedie




Antologia - 22^ Lezione

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I grandi della letteratura italiana: Alessandro Manzoni
MANZONI: LE TRAGEDIE
 
Siamo arrivati alla ventiduesima lezione del secondo anno. Con me Barbara. Avevamo lasciato Manzoni…
BARBARA: Sempre amato dagli studenti…
Sì, infatti non lo amate molto…
BARBARA: No. Non è mai stato amato.
Perché, secondo te?
BARBARA: Forse gli studenti lo trovano un po’ pesante, per il linguaggio e per i temi trattati, invece lo si scopre, si apprezza, quando finisce il liceo.
Torneremo su questo discorso di quel senso soprattutto di rassegnazione che sembra ispirare Manzoni. Non suscita l’entusiasmo dei giovani…
BARBARA: Infatti.
Però vorrei ricordare a questo proposito che Manzoni lo prendono anche per troppo bigotto, codino e altro, ma la religiosità sua è moderna, in fondo, al di là di tante altre cose che adesso sottolineeremo. Prendiamo per esempio “La Pentecoste”, che è uno degli “Inni sacri” scritti da Manzoni dopo la conversione di cui abbiamo parlato l’altra volta. La discesa dello spirito santo sugli uomini viene da lui rappresentata come una sorta di energia interiore, vitalità, che deve animare i giovani, quando non hanno ancora salde le basi per la loro vita, quando hanno momenti di esitazione, di difficoltà, anche di incertezza; per i vecchi, invece, la discesa dello spirito santo va intesa come rianimazione dallo scoramento, dal venir meno, dopo averla avuta da adulti, della fiducia nell’esistenza, per la loro condizione fisica. E quando quindi si vede così interpretare il senso religioso, da parte di Manzoni, in fondo, se si riesce a farlo apprezzare dagli studenti, appare sotto una luce diversa, come colui che, analogamente a Foscolo ma in forma diversa, cerca di ispirare la voglia di vivere e di agire nel mondo dei giovani. Questo però non viene fuori molto spesso.
Comunque riprendiamo il nostro discorso sulla poetica manzoniana. Avevamo lasciato le “Osservazioni sulla morale cattolica”, in cui Manzoni precisava come la morale cattolica avrebbe potuto ispirare la storia del mondo se fosse stata seguita, mentre la società è piena di abusi, di prepotenze e i giusti vengono messi in secondo piano. Sono i vincitori che scrivono la storia, o la storia si scrive per i vincitori, non per gli sconfitti. E questo è il tema che Manzoni sviluppa nelle due tragedie, “ Il Conte di Carmagnola” e “Adelchi”.
Nella prima immagina un uomo giusto che, per un senso di pietà, risparmia ai  suoi nemici la morte sul campo di battaglia e viene subito sospettato di tradimento perché era inconcepibile questo sentimento nel Quattrocento, epoca di ambientazione della tragedia. Il Conte di Carmagnola era un capitano di ventura che aveva combattuto prima per Milano e poi era stato ingaggiato dallo stato di Venezia contro lo stesso ducato di Milano. Quando sconfigge, nella battaglia di Maclodio, i milanesi, ha pietà nei confronti dei vinti e i veneziani interpretano questa sua pietà come tradimento. Viene accusato e si deve difendere in un processo per evitare la condanna a morte, che invece alla fine arriva in quanto il mondo va avanti così: cioè le ragioni dei giusti non vengono ascoltate. E in un mondo di violenza l’atto di pietà non si concepisce nemmeno.
Il “Conte di Carmagnola” ha tra l’altro suscitato la reazione di uno studioso di quel tempo, Monsieur Chauvet, che scrisse, a proposito di questa tragedia, che non rispettava le unità di tempo, luogo e azione, quindi era un’opera sbagliata. Non si limitò a questo, ma fece sapere a Manzoni come l’avrebbe riscritta lui per rispettare le unità aristoteliche, per cui tutto si doveva svolgere in una giornata, secondo un’unica azione e in un luogo. Il “Conte di Carmagnola”, dice con grande presunzione a Manzoni, lui lo avrebbe ambientato nel giorno del processo, in cui  sarebbe stato così ricordato quanto era accaduto prima e sarebbe poi stata emessa la condanna. Così tutto si sarebbe circoscritto a Venezia, nell’azione fondamentale del processo e nell’arco di una giornata.
Manzoni, quando sente questo, si infuma: non solo lo critica, ma gli rifà la tragedia questo presuntuoso! E scrive la famosa “Lettre a Monsieur Chauvet”, in cui si difende e dice che le unità di tempo, luogo e azione non hanno più senso in una stagione come quella romantica, in cui l’autore deve essere libero da schemi, da regole. Leggiamo…
 
LETTRE À MONSIEUR CHAUVET
Prima di esaminare la regola dell'unità di tempo e di luogo nei suoi rapporti con l'unità d'azione, sarebbe bene intenderci sul significato di quest'ultimo termine. Con l'unità d'azione, non si vuole certamente intendere la rappresentazione di un fatto semplice e isolato, ma la rappresentazione d'un susseguirsi d'avvenimenti legati tra loro. Ora questo legame tra più avvenimenti, che li fa considerare come un'unica azione, è forse arbitrario? Certamente no; altrimenti l'arte non avrebbe più fondamento nella natura e nella verità.
Dunque questo legame esiste ed è nella natura stessa della nostra intelligenza. Però, in effetti, una delle più importanti facoltà della mente umana quella di afferrare, tra gli avvenimenti, i rapporti di causa e d'effetto, d'anteriorità e di conseguenza, che li legano; di ricondurre ad un unico punto di vista, come per una sola intuizione, più fatti separati dalle condizioni del tempo e dello spazio, scartando gli altri fatti collegati ad essi solo per coincidenze accidentali.
Questo è il lavoro dello storico. Fa, per così dire, negli avvenimenti, la cernita necessaria per arrivare a questa unità di vedute; [...] lo storico si propone di far conoscere una serie indefinita di avvenimenti: anche il poeta drammatico vuole rappresentare degli avvenimenti, ma con un grado di sviluppo esclusivamente proprio della sua arte: cerca di mettere in scena una parte staccata della storia, un gruppo di avvenimenti il cui compimento possa aver luogo in un tempo all'incirca determinato. Ora, per separare così alcuni fatti particolari dalla catena generale della storia e offrirli isolati, bisogna che sia deciso e diretto da una ragione; che questa ragione risieda nei fatti stessi e che la mente dello spettatore possa senza sforzo, anzi con piacere, soffermarsi su questa parte distaccata della storia che gli si pone sotto gli occhi. [...]
Che fa dunque il poeta? Sceglie, nella storia, degli avvenimenti interessanti e drammatici, che siano legati fortemente l'uno con l'altro, ma debolmente con quelli che li precedono e li seguono, in modo che lo spirito, così vivamente colpito dal rapporto esistente tra di essi, si compiaccia di formarne un unico spettacolo, e si applichi avidamente a cogliere tutta l'estensione e tutta la profondità del rapporto che li unisce, e a chiarire il più nettamente possibile le leggi di causa e di effetto che li governano.
Questa unità è ancor più precisa e più facile a capire, quando tra più fatti legati tra loro si trova un avvenimento principale, intorno al quale si raggruppano tutti gli altri come mezzi o come ostacoli; un avvenimento che si presenta qualche volta come il compimento dei disegni degli uomini, qualche volta, al contrario, come un colpo della Provvidenza che li annienta, come un termine segnalato o intravisto da lontano, che si voleva evitare, e verso il quale ci si precipita per la stessa strada in cui ci si era gettati per correre verso una meta opposta. Questo avvenimento principale è quello che si chiama catastrofe e che troppo spesso è stato confuso con l'azione, che è invece l'insieme e la progressione di tutti i fatti rappresentati.
[..] Certamente se si dice che un'azione più occupa spazio e tempo, e più rischia di perdere questo carattere di unità così delicato e importante sotto il punto di vista dell'arte, si avrà ragione; ma, da questo al fatto che bisogna mettere limiti di tempo e di luogo all'azione, non si può concludere che si possano stabilire prima questi limiti, in modo uniforme e preciso per tutte le azioni possibili; arrivare a stabilirli con il compasso e l'orologio alla mano, ecco ciò che non potrà mai accadere, se non in virtù di una convenzione puramente arbitraria.

 
Anche questo deve far apprezzare un po’ Manzoni a voi giovani, questo suo porsi contro le regole, gli schemi culturali. Bisogna essere liberi e l’autore può organizzare una tragedia anche allungando i tempi, cambiando i luoghi, usando diverse azioni, tutte riconducibili a una principale che Manzoni definisce la “catastrofe”, nella quale si condensa tutto quello che è accaduto prima e si stabilisce il messaggio che lo scrittore vuole dare attraverso la vicenda narrata. Anzi Manzoni distingue tra “vero storico” e “vero poetico”, comincia a fare cioè ragionamenti sull’idea che il poeta rielabori la storia secondo le sue interpretazioni e voglia dare un messaggio su quanto è accaduto. Infatti la tesi è che in un mondo di violenze e di prepotenze bisognerebbe ristabilire le ragioni della giustizia; e quindi il conte diventa il prototipo di questo eroe positivo che ispira il sentimento di pietà cristiana, che Manzoni accoglie dalla conversione.
Un altro scritto teorico è quello della Prefazione al “Conte di Carmagnola”, sulla funzione del coro: questo è un “cantuccio”, un angolo nel quale l’autore può esprimere direttamente le sue interpretazioni della realtà, perché nel resto della tragedia i suoi sentimenti non devono trasparire troppo, per rendere il più possibile oggettiva la narrazione, la struttura dei dialoghi. Manzoni utilizzerà il coro anche nell’altra tragedia “Adelchi”, anche questa scritta nel 1821, che tu conosci bene, Barbara, perché nel teatro del LOTO…
BARBARA: Abbiamo fatto uno spettacolo, dal titolo “Tamburi di guerra”, che parlava della guerra inserendo testi della letteratura e tra gli altri il coro dell’”Adelchi”, ritmato secondo la metrica.
E’ il primo dei due grandi cori della tragedia, che è la storia della lotta tra franchi e longobardi, che si conclude con la sconfitta del re dei longobardi Desiderio per mano di Carlo Magno. E’ una guerra che nasce anche perché il papa chiama i franchi in Italia a combattere contro i longobardi, che dominavano sugli italiani. E gli italiani, che vedevano i loro padroni cedere ai nemici, gioivano, immagina Manzoni, perché pensavano che arrivassero a liberarli. Questa è la situazione che presiede a quella parte che voi avete ripreso dall’Adelchi. Infatti questo coro comincia così…
 
 
ADELCHI, ATTO III, I CORO
Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l’orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.

 
Si parla dunque di un “volgo disperso”, che sarebbe il popolo italiano, che sente il rumore della guerra che si avvicina e si sente animare dalla speranza di allontanare finalmente i dominatori, gli oppressori. Manzoni parla poi di “guardi dubbiosi”, di “pavidi volti”, di gente che è timorosa, ha paura di muoversi, perché è abituata alla schiavitù da diversi secoli. Si radunano lì tutti quanti a cercare di sapere cosa sta accadendo di nuovo e vedono arrivare dei guerrieri…
 
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l’usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.

 
Sono gli sconfitti che stanno retrocedendo dalla battaglia…e dietro quelli…
 
(recita Barbara)
E sopra i fuggenti, con avido brando,
Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d’ignoto contento,
Con l’agile speme precorre l’evento,
E sogna la fine del duro servir.
Udite! Quei forti che tengono il campo,
Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.

 
Manzoni dice al suo popolo: udite, quelli che stanno arrivando, che sono impegnati nella battaglia e che fanno tutto quello che hai appena recitato tu, Barbara…
 
Lasciar nelle sale del tetto natio
Le donne accorate, tornanti all’addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò:
Han carca la fronte de’ pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.

 
Hanno fatto tutto questo, quindi hanno lasciato le loro spose, sorelle, madri e poi sono passati di terra in terra, hanno trascorso notti all’addiaccio, hanno fatto tappe forzate con la paura di essere assaliti nel sonno…
 
(…)E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
D’un volgo straniero por fine al dolor?

 
E il premio sperato sarebbe quello di togliere la schiavitù a un altro popolo? Sono venuti per liberarlo? Manzoni, parlando agli italiani del suo tempo, vuol dire con questo coro che non debbono aspettarsi la libertà da altri popoli. E’ una sua caratteristica dare lezioni per il presente attraverso situazioni del passato, come accadrà nei “Promessi sposi”.
Nella tragedia poi la vicenda si dipana così: nella battaglia finale viene ferito a morte il figlio di Desiderio, Adelchi, che l’autore ci presenta come un uomo che non crede nella guerra, combatte per la difesa della sua patria, del suo popolo, di suo padre, perché così vuole il destino, ma non ritiene che la violenza sia la giusta medicina per la società. E viene portato morente nella tenda del re dei franchi, dove è già suo padre, prigioniero. La scena finale è questa che ora vi recitiamo. Io sono Desiderio e Barbara Adelchi.. Ti vedo arrivare morente…
ATTO V, SCENA VIII
DESIDERIO - Ahi, figlio!
ADELCHI - O padre, io ti rivedo! Appressa;
Tocca la mano del tuo figlio.
DESIDERIO - Orrendo
M'è il vederti così.
ADELCHI - Molti sul campo
Cadder così per la mia mano.
DESIDERIO - Ahi, dunque
Insanabile, o caro, è questa piaga?
ADELCHI - Insanabile.
DESIDERIO - Ahi lasso! ahi guerra atroce!
Io crudel che la volli; io che t'uccido!
ADELCHI - Non tu, né questi, ma il Signor d'entrambi.
DESIDERIO - Oh desiato da quest'occhi, oh quanto
Lunge da te soffersi! Ed un pensiero
Fra tante ambasce mi reggea, la speme
Di narrartele un giorno, in una fida
Ora di pace.
ADELCHI - Ora per me di pace,
Credilo, o padre, è giunta; ah! pur che vinto
Te dal dolor quaggiù non lasci.
DESIDERIO - Oh fronte
Balda e serena! oh man gagliarda! oh ciglio
Che spiravi il terror!
ADELCHI - Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio! Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu, che preso
Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
Né una lagrima pur notata in cielo
Fia contro te, né il nome tuo saravvi
Con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è; tu l'hai provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo felice,
Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.
DESIDERIO - Ma ch'io ti perdo,
Figlio, di ciò chi mi consola?
ADELCHI - Il Dio
Che di tutto consola.

 
Riflettiamo sulle parole di Adelchi al padre. Gli dice che al mondo non resta che fare torti o subirli. E’ un messaggio di rassegnazione, quello di cui parlavamo all’inizio, l’idea cioè che è inutile agire in questo mondo, perché agisci o per fare ingiustizie verso gli altri o per difenderti da ingiustizie di altri. Amara considerazione, questa di Adelchi. Tanto vale quindi uscire fuori da questa realtà di sofferenze e di prepotenze. E dice al padre di stare tranquillo perché lui sta andando verso un mondo migliore. E aggiunge che deve essere felice di avere smesso di essere re, ora che è prigioniero di Carlo, perché non causerà più sofferenze agli altri. Infatti chi governa, chi comanda, necessariamente, inevitabilmente, fa violenza sugli altri.
BARBARA: Quindi non agire per non fare del male.
Appunto. Poco dopo Adelchi si rivolge a Carlo e gli chiede di lasciarlo parlare con il padre in tranquillità e di essere clemente nei confronti del genitore, perché come sempre gli sconfitti vedono gli sciacalli arrivare subito per approfittare della fine del tiranno, pronti a vendicarsi su Desiderio. Carlo recepisce il messaggio, allontana tutti e siamo alla scena finale, in cui rimangono soli Desiderio e Adelchi…
 
ATTO III, SCENA X
DESIDERIO - Ahi, mio diletto!
ADELCHI - O padre,
Fugge la luce da quest'occhi.
DESIDERIO - Adelchi,
No, non lasciarmi!
ADELCHI - O Re de' re tradito
Da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!...
Vengo alla pace tua: l'anima stanca
Accogli.
DESIDERIO - Ei t'ode: oh ciel! tu manchi! ed io...
In servitude a piangerti rimango.

 
Certo, vedete, pur cercando di comunicare agli alunni una certa simpatia per l’autore, non posso non rilevare, per lui come per Alfieri, il gusto un po’ antico di questo linguaggio. Intanto sono versi, poco adatti alla scena, poi sono parole che suonano un po’ false in un contesto teatrale, troppo caricate. Per esempio anche le Odi famose di Manzoni, “Il 5 maggio” e “Marzo 1821”, non le leggiamo perché hanno quel ritmo quasi di filastrocca.
Per concludere su “Adelchi”, vi ricordo l’altra grande figura di quest’opera, Ermengarda,  moglie ripudiata da Carlo, che quando deve fare guerra a suo padre Desiderio, perché la Chiesa così vuole, si sente obbligato a mandarla via. Lei finisce nel convento di Brescia, della sorella Ansberga, sofferente, e muore di malinconia, di amarezza, per avere perso sia l’uomo che amava che la corte, il successo, l’ambiente ambizioso che frequentava. Tutto quello che aveva vissuto come un grande sogno si è frantumato per questa guerra.
A questa Ermengarda Manzoni dedicherà un coro e la riflessione sul fatto che una donna così disperata in punto di morte troverà aiuto nel Signore. E’ lo stesso discorso della “Pentecoste”, che lo spirito santo scende su quelli che hanno bisogno di rianimarsi e di rincuorarsi in un momento di disperazione, in questo caso la devastazione di una morente che sente che le viene meno tutto. Era avvenuto anche nel “Cinque maggio”, dove l’autore immaginava che lo spirito santo discendesse su Napoleone, nel senso che Dio avesse pietà di lui e gli donasse gli ultimi secondi di serenità prima del distacco supremo.
Nello stesso periodo Manzoni scrive la “Lettera sul romanticismo”, in cui affronta la polemica sorta fra classici e romantici dopo l’articolo di Madame de Stael, che, ricordi, richiamava gli italiani a frequentare la produzione romantica. Manzoni era favorevole alle idee nuove del movimento, lo abbiamo già visto, per  esempio riteneva che l’artista dovesse essere libero da regole nella sua interpretazione. Un’altra cosa che condivideva era che bisognasse eliminare la mitologia, tipica del classicismo pedantesco degli italiani, con tutti i riferimenti agli antichi miti, che non erano più corpo della nostra società, della nostra mentalità nell’Ottocento. Quindi il suo bersaglio polemico era lo stesso Foscolo, che abbiamo visto quanto recuperasse l’antico mito. Manzoni parlava anche di una nuova mitologia, quella cristiana, come risorsa, come repertorio di immagini da ricavare dai testi sacri. Però del romanticismo non condivideva l’esasperazione dei sentimenti, l’eccessiva sentimentalità, la concessione esagerata alle passioni, che cattolicamente vanno tenute a freno per dovere morale e tante altre cose.
E questo è il campo in cui i giovani non lo seguono per niente. Togli loro le passioni e gli togli tutto. Infatti poi vedremo i “Promessi sposi”, un romanzo d’amore nel quale, come abbiamo già detto, i protagonisti non si scambiano nemmeno un bacio, quasi nemmeno una frase d’affetto che denunci il loro sentimento e tanto altro. Per esempio anche l’idea che Manzoni pone, trattando del suo romanzo, che la sua sia una storia che possano leggere tutti, un sacerdote, anche una suora, senza avere sconvenienti pensieri, non può certamente suscitare gli entusiasmi delle giovani generazioni.
Però, all’interno di questi limiti, noi cercheremo di notare, attraverso una lettura pure episodica dei “Promessi sposi”, quali sono gli altri motivi di grandezza di questo straordinario autore che è poi uno dei pilastri della nostra cultura. Aggiungo soltanto, a proposito della “Lettera sul romanticismo”, che Manzoni vi pone le basi della sua poetica, dicendo che l’opera d’arte deve avere il vero come oggetto (cioè l’argomento deve essere la realtà), l’utile per scopo e l’interessante come mezzo.
Infatti nel romanzo applicherà queste tre categorie. L’utilità della sua opera sarà animare gli italiani a cercare nelle proprie radici e nelle sconfitte precedenti le ragioni per riscattare la nostra nazione. Per questo ci presenta la verità di un’Italia che nel Seicento è sotto la dominazione spagnola e cercherà di suscitare attraverso il romanzo la reazione contro la dominazione austriaca del momento. Ma per fare tutto questo è necessario che il romanzo sia letto, e perché lo sia non deve essere arido come un testo di storia, ma deve interessare: e perciò Manzoni immagina la vicenda di un amore ostacolato, un matrimonio impedito da un prepotente, Don Rodrigo, nei confronti dei due giovani Renzo e Lucia, pensando che attratta da questo amore contrastato la gente assuma tutto il resto, il contenuto sulla dominazione spagnola, sulle ragioni cristiane della nostra vita e tante altre cose di cui parleremo la prossima volta. Arrivederci.
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